di Costanza Miriano
Non so chi abbia vinto o perso, e non so neppure se questa terminologia
agonistica sia adatta all’uopo, ma quello che ho capito io è che al Sinodo si
sono confrontate due visioni del mondo e della fede. Non ci sono arrivata
subito, anche perché durante le tre settimane di dibattito nei circoli minori le
notizie uscite all’esterno sono state poche (e io non sono una insider). Dopo
avere seguito praticamente tutte le conferenze stampa mi sembrava, sì, di avere
sentito voci estremamente diverse le une dalle altre, anche qualcosa che non mi
tornava tanto a dire il vero (tipo la “misericordia verso il peccato”: io ero
rimasta alla distinzione tra peccato e peccatore, ma, si sa, quanto a teologia
io sto ferma al catechismo della prima comunione), però, nonostante la grande
varietà di posizioni sentite ero certa che alla fine sarebbe arrivata una parola
chiara e conclusiva. Quando finalmente è arrivata, questa benedetta relazione
finale, mi ero messa tranquilla. Okay, le so tutte. Ho il Catechismo, pure in
varie copie, cartonato e non, e tutto mi torna: a leggere i punti chiave mi
pareva che non fosse cambiato niente nella dottrina su matrimonio e famiglia, e
in più ero col cuore pieno di gioia per certe parole meravigliose sulla
sessualità, la tenerezza, la castità, i metodi naturali, l’accoglienza alla
vita, l’amore tra gli sposi, e anche per la comprensione della fatica che una
famiglia fa a consistere.
Poi mentre ero ancora in Sala Stampa ho cominciato a leggere agenzie e titoli
dei principali giornali italiani che ribaltavano completamente la lettura che
avevo dato io, coi ben noti titoloni tipo “per un voto vince la comunione ai
divorziati risposati”, mentre gli stranieri in contemporanea scrivevano che il
Papa che “voleva aprire” era stato sconfitto (ma perché, il Papa tifava per la
comunione-libera-tutti?). Come succedeva quando in tv i politici commentavano
gli exit poll, all’improvviso sembrava che avessero vinto tutti. E ho cominciato
a chiedermi chi avesse ragione, e a sognare che magari la Sala Stampa, che aveva
prontamente e fermamente smentito la notizia del tumore del Papa, tirasse le
orecchie anche ai titolisti che avevano a loro volta tirato il testo per la
giacchetta, per farlo sembrare dalla loro parte.
Adesso, passato qualche giorno, penso che davvero, anche se la dottrina non è
cambiata, nel testo ci sia la possibilità di vedere non chiaro qualche punto,
per chi voglia trovare un’ambiguità nel testo. È stato un lavoro di sintesi di
posizioni lontanissime tra loro, e credo che fosse inevitabile. D’altra parte
non è un testo normativo, né dottrinale: è un consulto, in alcuni passaggi
chiarissimo, come sull’omosessualità (eppure alcuni, singolarmente, avevano
anche espresso posizioni contrarie al catechismo), un consulto di pastori che
hanno detto la loro al Papa, adesso si tratta di vedere cosa deciderà lui. Credo
che le gerarchie si stiano chiedendo come dialogare con un mondo che,
soprattutto sui temi della sessualità e dell’affettività non potrebbe essere più
lontano dagli insegnamenti della Chiesa. Il Papa ha scelto la sua parola
d’ordine, misericordia. Niente novità nella dottrina, hanno risposto i padri
sinodali, ma maggiore comprensione per i divorziati risposati, da valutare caso
per caso. E nel modo in cui interpretare quel “da valutare”, mi sembra, possono
dispiegarsi le due visioni della fede di cui accennavo all’inizio.
La prima direi che si possa grossolanamente riassumere così: il centro
dell’annuncio che Cristo è venuto a portare all’uomo, prima ancora della sua
risurrezione con il corpo, è la vita che lui può dare a noi, in Lui. Una vita
ontologicamente diversa da quella solo umana, una venuta, quella di Cristo in
noi, che ci guarisce della nostra doppiezza, incostanza, fragilità. Cristo è il
medico che cura un uomo che sostanzialmente non è capace di bene da solo. Io
sono la vite, voi i tralci. Senza di me non potete far nulla. E quindi ogni uomo
si trova di fronte alla scelta, se aderire o meno alla vite, se stare attaccato
come un tralcio a un Bene assoluto e oggettivo. Secondo questa visione del mondo
chi decide di recidere ciò che lo teneva attaccato – come chi vive stabilmente e
programmaticamente in modo contrario ai comandamenti – semplicemente è staccato.
Non per un giudizio o per la cattiveria dei pastori, ma per la semplice
constatazione di un dato di fatto. E se uno decide programmaticamente di
rimanere staccato da Cristo, non ieri, che per le cose passate si può chiedere
perdono, ma anche oggi e domani e prossimamente (come è per esempio di un
divorziato risposato) non ha senso cercare un‘unione intima col corpo di Cristo
che si è rotta e si vuol continuare a tenere rotta.
Questo non c’entra niente con un giudizio sul valore della persona, ma è una
constatazione della sua scelta. Sappiamo che umanamente l’amore può finire,
certo, e se finisce non significa che siamo cattivi. Si può incontrare una donna
perfetta, un uomo migliore. E non vuol dire che lo si è cercato, né che si è
traditori e cattivi. Quello che sappiamo, e che abbiamo bisogno di sentirci
annunciare dalla Chiesa è che il matrimonio cristiano è un’altra cosa, è
un’altra qualità di amore, è una roba diversa. È un salto ontologico. Non è
essere migliori, è vivere di un’altra vita, la vita del battesimo. È la vita in
Cristo, ed è per questo che della gente rimane attaccata al proprio matrimonio
nonostante tutto, per amore di Cristo, perché lui per gli sposi sta nel coniuge,
ha il viso del marito, della moglie. Negare la comunione non è una forma di
punizione o di infantile ripicca, ma semplicemente prendere atto della verità,
che è pienezza di giustizia. La verità è che chi divorzia, di fronte a una
fatica, a una sofferenza, a un dolore sceglie di vivere la sua vita secondo
criteri umani, e spesso ne è più che legittimato dalle vicende umane (un
matrimonio difficile o sbagliato, un tradimento…), mentre al contrario a volte
chi rimane in un matrimonio lo fa perché sceglie Cristo prima di se stesso.
L’altra visione che fronteggiava questa è quella che in modo molto
approssimativo possiamo dire ispirata alla
teologia di Rahner, secondo cui la Rivelazione non regala all’uomo un punto
di vista assoluto e trascendente fuori delle situazioni in cui vive. La
Rivelazione di Dio avviene sempre tramite la nostra esistenza storica, e l‘uomo
si avvicina a Dio sperimentandolo nella sua esistenza: Dio si vede solo nel
prossimo, e i dogmi della fede cattolica sono storici, non verità eterne da
contemplare. Quindi la fede è un camminare in ricerca, e al fine di questa
ricerca il dialogo diventa sostanza, mentre i contenuti dottrinali diventano
accidenti (di questa illuminante spiegazione sono debitrice al libro edito dalla
Bussola Quotidiana: Matrimonio e famiglia,
Chiesa al bivio, di Stefano Fontana). Si capisce quindi che il giudizio
sulle vicende esistenziali diventa molto più sfumato, e si può introdurre un
criterio di gradualità del bene, come mi è parso di leggere nel paragrafo sulle
convivenze prematrimoniali. Diventa necessario non giudicare più le condotte, ma
sempre accogliere le persone.
Non so dire quale delle due visioni abbia prevalso, non credo lo si potrà
dire fino al pronunciamento del Papa. Poiché già oggi avviene nella prassi che i
casi vengano valutati uno per uno, il fatto che sia stata sottolineata questa
possibilità mi fa propendere per l’idea che la seconda linea almeno su certi
temi caldi sia prevalsa.
Io personalmente mi permetto di chiudere solo con una domanda: se la linea
che dovesse prevalere fosse quella di accompagnare sempre tutti nell’errore, con
la buonissima intenzione di farci sentire amati, non ci sarebbe precluso un
altro livello di vita, una vita in Cristo? Non sarebbe come dire a un bambino:
no, questo non lo puoi fare, fai un gioco più semplice, un puzzle con meno
pezzi, un videogioco di livello più elementare? Non ci sarebbe tolta una
bellezza più alta un’appartenenza più totale, una vita diversa che non è più
quella dell’uomo vecchio, che vede il bene ma fa il male come dice san Paolo?
Non ci sarebbe negato l’annuncio che può salvarci, la vera buona notizia?