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domenica 24 maggio 2015

Veni, Sancte Spíritus, reple tuórum corda fidélium: et tui amóris in eis ignem accénde.

Quest’oggi, mediante l’effusione dello Spirito Santo, Gesù risorto da morte ed assiso alla destra del Padre, comunica alle membra del suo mistico corpo la sua vita divina. 
Così la Chiesa che fino ad oggi vagiva come in culla tra le ristrette mura del cenacolo, conseguita ormai la sua integrale perfezione, tutta radiante di santità e di verità, fa la prima apparizione al mondo.
Lo Spirito Santo, che fluisce quest’oggi nelle sue vergini membra, le comunica la vita di Gesù, associandola ai suoi ideali, all’opera sua redentrice; onde Paolo ha potuto ben dire che le fatiche apostoliche degli operai evangelici fanno parte dell’opera della Redenzione; anzi, il Salvatore stesso, sulla via di Damasco, ha dichiarato al medesimo apostolo che Egli appunto era colui che veniva perseguitato e soffriva nelle membra della sua Chiesa.
Il protagonista della prima Pentecoste cristiana è Pietro, intorno al quale si stringe il piccolo gregge del Sion: egli inizia quest’oggi l’esercizio del primato pontificio annunziando per il primo la novella evangelica ai rappresentanti delle varie nazioni, senza distinzione di patria e d’origine, senza differenza di confini di regni o di città; a nome della Chiesa intera, è parimente Pietro che protesta contro la volgare calunnia di ebrietà apposta agli apostoli; è egli infine che in quella prima predica converte e battezza i primi tremila neofiti, che aumentano la famiglia del Nazareno.
Perciò l’odierna stazione, a differenza del giorno di Pasqua, è nella Basilica vaticana, dove una volta il Papa celebrava i primi vespri, le vigilie notturne e la messa.
Secondo il rito romano delle maggiori solennità dell’anno, questa notte l’ufficio vigiliare era doppio; dapprima si celebrava nell’ipogeo sotterraneo, dove si venerava l’arca sepolcrale dell’Apostolo, poi un secondo all’altare maggiore. In quest’ultimo, che era il più solenne, i canonici cantavano la prima lezione, i cardinali la seconda e il Papa stesso la terza.
Dopo la messa il pontefice veniva incoronato col regnum, e ritornava processionalmente in Laterano (cfr. Schuster, Liber Sacramentorum, IV, pp. 152-153).
La sequenza che figura oggi nel Messale è attribuita da alcuni ad Innocenzo III; in ogni caso, ne sostituisce un’altra che era molto bella: Sancti Spiritus adsit nobis gratia, menzionata negli Ordines Romani del XV secolo e di cui l’autore è il famoso monaco Notker.
Si racconta che, quando, nel 1215, Innocenzo III sentì questa composizione melodica piena di una sì grande devozione, si stupì che il suo autore non fosse stato ancora canonizzato.
Bisogna notare come sia una prosa musicale e ritmica, ad imitazione delle composizioni dello stesso genere di origine bizantina. Il testo solo non dice grandi cose, bisogna tenere conto, però, del suo rivestimento melodico (la traduzione offerta dal beato Schuster, però, ha delle varianti rispetto al testo latino).
Durante tutta l’Ottava di Pentecoste s’inseriscono nel Canone consacratorio le commemorazioni dello Spirito Santo che abbiamo già riferite nella messa vigiliare. Questa volta tali rievocazioni della primitiva Pentecoste cristiana nel Cenacolo sulla collina di Sion, riescono tanto più commoventi quando si pensa alla funzione speciale che compì lo Spirito Santo sul Calvario.
Allora egli negli ardori della sua ineffabile santità consumò la divina vittima, la quale per Spiritum Sanctum semetipsum obtulit immaculatum Deo, «Con uno Spirito eterno offrì se stesso senza macchia a Dio» (Eb 9, 14).
Onde i Padri invocando il Paraclito nelle antiche epiclesi eucaristiche, lo invitavano a discendere sull’altare e ad adombrare le sacre oblate quale testis passionum Christi tui, «Testimone delle sofferenze di Cristo» (1 Pt 5, 1).
È sempre questa la funzione dello Spirito Santo: Ille testimonium perhibebit de me, «Egli mi renderà testimonianza» (Gv 15, 26).
Egli che era ben conscio dell’ineffabile martirio del Crocifisso, giacché l’aveva santificato nei suoi ardori, deve ora renderne testimonianza al mondo.
E in qual modo?
Assicurando nelle anime gli effetti della redenzione mediante l’effusione dei doni carismatici. Tertulliano ha definito il Cristiano come composto di corpo, d’anima e di Spirito Santo.
La frase ha un po’ del paradossale, ma dev’essere spiegata nel senso inteso dall’autore.
È lo Spirito Santo che, con la sua grazia, eleva interiormente l’anima all’essere soprannaturale di figlia adottiva di Dio.
La mozione del Paraclito è dunque quella che determina tutti i nostri atti meritori: di modo che, quando invochiamo Gesù, quando gemiamo ai suoi piedi, quando soffriamo, quando operiamo per Dio, è sempre lo Spirito Santo che prega, che geme, che opera in noi.
Egli inoltre testimonium reddit spiritui nostro quod sumus filii Dei, «Lo Spirito stesso attesta al nostro spirito che siamo figli di Dio» (Rm. 8, 16); anzi è precisamente lo Spiritum Filii sui, «Lo Spirito del suo Figlio» (Gal. 4, 6), che Dio ci ha infuso per metterci a parte insieme con Gesù del carattere di figli suoi prediletti.
Questo medesimo Spirito, che durante la vita abita in noi e c’imprime l’impulso verso il cielo, non termina l’opera sua con la morte.
Egli all’ultimo giorno esige la riedificazione del suo mistico tempio formata nell’anima credente, e questo propter inhabitantem Spiritum eius in nobis, «per mezzo del suo Spirito che abita in noi» (Rm 8, 11). 
La Pentecoste, espressione greca che vuole dire cinquantesimo giorno, è l’ottava doppia e giubilare della festa di Pasqua (7 x 7 +1). 
È, allo stesso tempo, il secondo punto culminante del ciclo festivo di Pasqua. 
La Pentecoste non è una festa indipendente dunque; è il completamento e la conclusione della festa di Pasqua.
Potremmo dire forse che la Pentecoste è per Pasqua ciò che l’Epifania è per Natale.
Bisogna tenere tuttavia conto della differenza essenziale. 
I due cicli festivi dell’anno liturgico sono costruiti alla stessa maniere: c’è dapprima una salita che è la preparazione, poi un avanzamento sulle altezze durante il tempo delle feste, poi una discesa nella pianura durante il tempo che conclude il ciclo. 
Il tempo di preparazione del ciclo invernale è l’Avvento. Terminato questo tempo, restiamo stupiti davanti alle ricchezze di poesia simbolica e drammatica che la Chiesa ha riunito. 
La stessa liturgia ci parla di ciò nei suoi canti e le sue lezioni. 
Possiamo affermare che nessuno tempo dell’anno liturgico possiede una tale sovrabbondanza di cantici, di versetti, di canti come quello natalizio. 
Come un corno di abbondanza la liturgia ci versa la profusione variegata dei suoi canti. 
Segue, senza soluzione di continuità, come un’emanazione naturale dell’Avvento, la festa del Natale. 
Il tempo festivo dei due cicli ha ancora questo di comune che comprende, nell’uno e nell’altro caso, due grandi feste che sono come i piloni del ponte che sopportano sempre i tempi festivi.
Nel ciclo d’inverno, abbiamo il Natale e l’Epifania; nel ciclo d’estate, la Pasqua e la Pentecoste. 
C’è tuttavia una differenza tra queste due coppie di feste. 
Pasqua e Pentecoste rappresentano un sviluppo organico dello stesso pensiero di salvezza, il Natale e l’Epifania sono la ripetizione dello stesso pensiero. 
La celebrazione di queste due feste si spiega soltanto per ragioni storiche. Natale è la festa della Natività nell’Occidente e l’Epifania quella nell’Oriente. L’Occidente ha adottato l’Epifania e l’Oriente il Natale. 
Queste due feste dell’Oriente e dell’occidente sono un monumento venerabile dell’unione che regnava una volta tra le due Chiese, unione che vorremmo vedere rinascere, dopo una separazione millenaria. 
Le circostanze storiche che hanno fatto di queste due feste dei doppioni c’aiuteranno a comprendere molte particolarità ed a risolvere bene delle difficoltà che risultano da questo doppio impiego.

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Fonte : Scuola Ecclesia Mater