Resistere alla tendenza eretica.
La relatio di Erdö cancella d’un colpo il peccato e la legge naturale
La relatio di Erdö cancella d’un colpo il peccato e la legge naturale
di Roberto de Mattei su Il Foglio del 15-10-2014
via Corrispondenza Romana
via Corrispondenza Romana
Cancellato il senso del peccato; abolite le nozioni di bene e di male;
soppressa la legge naturale; archiviato ogni riferimento positivo a valori
quali la verginità e la castità. Con la relazione presentata il 13 ottobre 2014
al Sinodo sulla famiglia dal cardinale Péter Erdö, la rivoluzione sessuale
irrompe ufficialmente nella Chiesa, con conseguenze devastanti sulle anime e
sulla società.
La Relatio post disceptationem redatta dal cardinale Erdö è la relazione riassuntiva della prima settimana di lavori del Sinodo e quella che orienta le sue conclusioni. La prima parte del documento, cerca di imporre, con un linguaggio derivato dal peggior Sessantotto, il “cambiamento antropologico-culturale” della società come “sfida” per la Chiesa. Di fronte a un quadro che dalla poligamia e dal “matrimonio per tappe” africani arriva alla “prassi della convivenza” della società occidentale, la relazione riscontra l’esistenza di “un diffuso desiderio di famiglia”. Nessun elemento di valutazione morale è presente. Alla minaccia dell’individualismo e dell’egoismo individualista, il testo contrappone l’aspetto positivo della “relazionalità”, considerata un bene in sé, soprattutto quando tende a trasformarsi in rapporto stabile (nn. 9-10).
La Chiesa rinuncia ad esprimere giudizi di valore per limitarsi a “dire una parola di speranza e di senso” (n. 11). Si afferma quindi uno nuovo strabiliante principio morale, la “legge di gradualità”, che permette di cogliere elementi positivi in tutte le situazioni fin qui definite dalla Chiesa peccaminose. Il male e il peccato propriamente non esistono. Esistono solo “forme imperfette di bene” (n. 18), secondo una dottrina dei “gradi di comunione” attribuita al concilio Vaticano II. “Rendendosi dunque necessario un discernimento spirituale, riguardo alle convivenze e ai matrimoni civili e ai divorziati risposati, compete alla Chiesa di riconoscere quei semi del Verbo sparsi oltre i suoi confini visibili e sacramentali” (n. 20).
Il problema dei divorziati risposati è il pretesto per far passare un principio che scardina duemila anni di morale e di fede cattolica. Seguendo la Gaudium et Spes, “la Chiesa si volge con rispetto a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto e imperfetto, apprezzando più i valori positivi che custodiscono, anziché i limiti e le mancanze” (ivi). Ciò significa che cade ogni tipo di condanna morale, perché qualsiasi peccato costituisce una forma imperfetta di bene, un modo incompiuto di partecipare alla vita della Chiesa. “In tal senso, una dimensione nuova della pastorale familiare odierna consiste nel cogliere la realtà dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, anche delle convivenze” (n. 22).
E questo soprattutto “quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, e connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di resistere nelle prove” (ivi). Con ciò è capovolta la dottrina della Chiesa secondo cui la stabilizzazione del peccato, attraverso il matrimonio civile costituisce un peccato più grave del’unione sessuale occasionale e passeggera, perché quest’ultima permette con più facilità di ritornare sulla retta via. “Una sensibilità nuova nella pastorale odierna consiste nel cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le dovute differenze, delle convivenze” (n. 36).
La nuova pastorale impone dunque di tacere sul male, rinunciando alla conversione del peccatore e accettando lo statu quo come irreversibile. Sono queste quelle che la relazione chiama “scelte pastorali coraggiose” (n. 40). Il coraggio, a quanto sembra, non sta nell’opporsi al male, ma nell’adeguarsi ad esso. I passaggi dedicati all’accoglienza delle persone omosessuali sono quelli che sono sembrati più scandalosi, ma sono la logica coerenza dei principi fin qui esposti. Anche l’uomo della strada capisce che se al divorziato risposato è possibile accostarsi ai sacramenti, tutto è permesso, a cominciare dallo pseudo matrimonio omosessuale.
Mai, veramente mai, sottolinea Marco Politi su “Il Fatto” del 14 ottobre, si era letta, in un documento ufficiale prodotto dalla gerarchia ecclesiastica, una frase del genere: “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. Seguita da una domanda rivolta ai vescovi di tutto il mondo: “siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità?” (n. 50). Pur non equiparando le unioni fra persone dello stesso sesso al matrimonio fra uomo e donna, la Chiesa si propone di “elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale” (n. 51). “Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners” (n. 52).
Nessuna obiezione di principio viene espressa alle adozioni di bambini da parte di coppie omosessuali: ci si limita a dire che “la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli” (ivi). Nella conferenza stampa di presentazione, mons. Bruno Forte è arrivato ad auspicare “una codificazione di diritti che possano essere garantiti a persone che vivono in unioni omosessuali”.
Le parole fulminanti di San Paolo secondo cui: “né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio” (I Lettera ai Corinzi, 6, 9) perdono di senso per i giocolieri della nuova morale pansessuale. Per essi bisogna cogliere la realtà positiva di quello che fu il peccato che grida vendetta al cospetto di Dio (Catechismo di san Pio X). Alla “morale del divieto” occorre sostituire quella del dialogo e della misericordia e lo slogan del 68, “vietato vietare”, viene aggiornato dalla formula pastorale secondo cui “nulla si può condannare”.
Non cadono solo due comandamenti, il sesto e il nono, che proibiscono pensieri ed atti impuri al di fuori del matrimonio, ma scompare l’idea di un oggettivo ordine naturale e divino riassunto dal Decalogo. Non esistono atti intrinsecamente illeciti, verità e valori morali per i quali si deve essere disposti a dare anche la vita (n. 51 e n. 94), come li definisce l’enciclica Veritatis Splendor. Sul banco degli imputati non sono solo la Veritatis Splendor e i recenti pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della Fede in materia di morale sessuale, ma lo stesso Concilio di Trento che formulò dogmaticamente la natura dei sette sacramenti, a cominciare dall’Eucarestia e dal Matrimonio.
Tutto inizia nell’ottobre 2013, quando papa Francesco, dopo aver annunciato l’indizione dei due sinodi sulla famiglia, l’ordinario e lo straordinario, promuove un “Questionario” rivolto ai vescovi di tutto il mondo. L’uso mistificatorio di sondaggi e questionari è ben noto. L’opinione pubblica crede che poiché una scelta viene fatta dalla maggior parte delle persone, deve essere quella giusta. E i sondaggi attribuiscono alla maggior parte delle persone opinioni già predeterminate dai manipolatori del consenso. Il questionario voluto da papa Francesco, ha affrontato i temi più scottanti, dalla contraccezione alla comunione ai divorziati, dalle coppie di fatto ai matrimoni tra omosessuali più a scopo orientativo che informativo.
La prima risposta pubblicata fu quella, il 3 febbraio della Conferenza Episcopale tedesca (“Il Regno Documenti”, 5 (2014), pp. 162-172) chiaramente resa nota per condizionare la preparazione del Sinodo e soprattutto per offrire al cardinale Kasper la base sociologica di cui aveva bisogno per la relazione al Concistoro che papa Francesco gli aveva affidato. Ciò che emergeva era infatti l’esplicito rifiuto da parte dei cattolici tedeschi “delle affermazioni della Chiesa sui rapporti sessuali prematrimoniali, l’omosessualità, i divorziati risposati e il controllo delle nascite” (p. 163). “Le risposte pervenute dalle diocesi – si diceva ancora - lasciano intravedere quanto è grande la distanza tra i battezzati e la dottrina ufficiale soprattutto per quanto riguarda la convivenza prematrimoniale, il controllo delle nascite e l’omosessualità” (p. 172).
Questa distanza non veniva presentata come un allontanamento dei cattolici dal Magistero della Chiesa, ma come una incapacità della Chiesa a comprendere e assecondare il corso dei tempi. Il cardinale Kasper nella sua relazione al Concistoro del 20 febbraio definirà tale distanza un “abisso”, che la Chiesa avrebbe dovuto colmare adeguandosi alla prassi dell’immoralità.
Secondo uno dei seguaci di Kasper, il sacerdote genovese Giovanni Cereti, noto per uno studio tendenzioso sul divorzio nella chiesa primitiva, il questionario è stato promosso da papa Francesco per evitare che il dibattito si svolgesse “in segrete stanze” (“Il Regno-Attualità” 6 (3014), p. 158). Ma se è vero che il Papa ha voluto che la discussione si svolgesse in maniera trasparente, non si capisce la decisione di tenere il Concistoro straordinario di febbraio e poi il Sinodo di ottobre a porte chiuse. L’unico testo di cui si è venuti a conoscenza, grazie al “Foglio”, fu la relazione del cardinale Kasper. Poi, sui lavori, è calato il silenzio.
Nel suo Diario del Concilio, il 10 novembre 1962, padre Chenu annota questa frase di don Giuseppe Dossetti, uno dei principali strateghi del fronte progressista: “La battaglia efficace si gioca sulla procedura. È sempre per questa via che ho vinto”. Nelle assemblee il processo decisionale non appartiene alla maggioranza, ma alla minoranza che controlla la procedura. La democrazia non esiste nella società politica e tantomeno in quella religiosa. La democrazia nella Chiesa, ha osservato il filosofo Marcel De Corte, è cesarismo ecclesiastico, il peggiore di tutti i regimi. Nel processo sinodale in corso l’esistenza di questo cesarismo ecclesiastico è dimostrato dal clima di pesante censura che lo ha accompagnato fino ad oggi.
I più attenti vaticanisti come Sandro Magister e Marco Tosatti hanno sottolineato come, a differenza dei Sinodi precedenti, in questo è stato fatto divieto ai padri sinodali i loro interventi. Magister, ricordando la distinzione fatta da Benedetto XVI tra il Concilio Vaticano II “reale” e quello “virtuale” che ad esso si sovrappose, ha parlato di uno “sdoppiamento tra sinodo reale e sinodo virtuale, quest’ultimo costruito dai media con la sistematica enfatizzazione delle cose care allo spirito del tempo”. Oggi però sono i testi stessi del Sinodo ad imporsi con la loro forza dirompente, senza possibilità di travisamento da parte dei media che si sono mostrati addirittura stupiti dalla potenza esplosiva della Relatio del card. Erdö.
Naturalmente questo documento non ha alcun valore magisteriale. E’ anche lecito dubitare che esso rifletta il reale pensiero dei Padri sinodali. La Relatio prefigura però la Relatio Synodi, il documento conclusivo dell’assise dei vescovi.
Il vero problema che ora si porrà è quello della resistenza, annunciata dal libro Permanere nella Verità di Cristo dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra, De Paolis e Müller (Cantagalli 2014). Il cardinale Burke nella sua intervista ad Alessandro Gnocchi sul “Foglio” del 14 ottobre, ha affermato che eventuali cambiamenti alla dottrina o alla prassi della Chiesa da parte del Papa sarebbero inaccettabili, “perché il Pontefice è il Vicario di Cristo sulla terra e perciò il primo servitore della verità della fede. Conoscendo l’insegnamento di Cristo, non vedo come si posa deviare da quell’insegnamento con una dichiarazione dottrinale o con una prassi pastorale che ignorino la verità”.
I vescovi e i cardinali, più ancora dei semplici fedeli, si trovano di fronte a un terribile dramma di coscienza, ben più grave di quello che dovettero affrontare nel XVI secolo i martiri inglesi. Allora infatti si trattava di disobbedire alla suprema autorità civile, il re Enrico VIII, che per un divorzio aprì lo scisma con la Chiesa romana, mentre oggi la resistenza va opposta alla suprema autorità religiosa qualora deviasse dal perenne insegnamento della Chiesa.
E chi è chiamato a resistere non sono cattolici disobbedienti o del dissenso, ma proprio coloro che più profondamente venerano l’istituzione del Papato. Allora chi resisteva era consegnato al braccio secolare, che lo destinava alla decapitazione o allo squartamento. Il braccio secolare contemporaneo applica il linciaggio morale, attraverso la pressione psicologica esercitata dai mass-media sull’opinione pubblica.
L’esito è spesso il crollo psico-fisico delle vittime, la crisi di identità, la perdita della vocazione e della fede, a meno che non si sia capaci di esercitare, con l’aiuto della grazia, la virtù eroica della fortezza. Resistere significa, in ultima analisi, riaffermare l’integrale coerenza della propria vita con la Verità immutabile di Gesù Cristo, capovolgendo la tesi di chi vorrebbe dissolvere l’eternità del Vero nella precarietà del vissuto.
La Relatio post disceptationem redatta dal cardinale Erdö è la relazione riassuntiva della prima settimana di lavori del Sinodo e quella che orienta le sue conclusioni. La prima parte del documento, cerca di imporre, con un linguaggio derivato dal peggior Sessantotto, il “cambiamento antropologico-culturale” della società come “sfida” per la Chiesa. Di fronte a un quadro che dalla poligamia e dal “matrimonio per tappe” africani arriva alla “prassi della convivenza” della società occidentale, la relazione riscontra l’esistenza di “un diffuso desiderio di famiglia”. Nessun elemento di valutazione morale è presente. Alla minaccia dell’individualismo e dell’egoismo individualista, il testo contrappone l’aspetto positivo della “relazionalità”, considerata un bene in sé, soprattutto quando tende a trasformarsi in rapporto stabile (nn. 9-10).
La Chiesa rinuncia ad esprimere giudizi di valore per limitarsi a “dire una parola di speranza e di senso” (n. 11). Si afferma quindi uno nuovo strabiliante principio morale, la “legge di gradualità”, che permette di cogliere elementi positivi in tutte le situazioni fin qui definite dalla Chiesa peccaminose. Il male e il peccato propriamente non esistono. Esistono solo “forme imperfette di bene” (n. 18), secondo una dottrina dei “gradi di comunione” attribuita al concilio Vaticano II. “Rendendosi dunque necessario un discernimento spirituale, riguardo alle convivenze e ai matrimoni civili e ai divorziati risposati, compete alla Chiesa di riconoscere quei semi del Verbo sparsi oltre i suoi confini visibili e sacramentali” (n. 20).
Il problema dei divorziati risposati è il pretesto per far passare un principio che scardina duemila anni di morale e di fede cattolica. Seguendo la Gaudium et Spes, “la Chiesa si volge con rispetto a coloro che partecipano alla sua vita in modo incompiuto e imperfetto, apprezzando più i valori positivi che custodiscono, anziché i limiti e le mancanze” (ivi). Ciò significa che cade ogni tipo di condanna morale, perché qualsiasi peccato costituisce una forma imperfetta di bene, un modo incompiuto di partecipare alla vita della Chiesa. “In tal senso, una dimensione nuova della pastorale familiare odierna consiste nel cogliere la realtà dei matrimoni civili e, fatte le debite differenze, anche delle convivenze” (n. 22).
E questo soprattutto “quando l’unione raggiunge una notevole stabilità attraverso un vincolo pubblico, e connotata da affetto profondo, da responsabilità nei confronti della prole, da capacità di resistere nelle prove” (ivi). Con ciò è capovolta la dottrina della Chiesa secondo cui la stabilizzazione del peccato, attraverso il matrimonio civile costituisce un peccato più grave del’unione sessuale occasionale e passeggera, perché quest’ultima permette con più facilità di ritornare sulla retta via. “Una sensibilità nuova nella pastorale odierna consiste nel cogliere la realtà positiva dei matrimoni civili e, fatte le dovute differenze, delle convivenze” (n. 36).
La nuova pastorale impone dunque di tacere sul male, rinunciando alla conversione del peccatore e accettando lo statu quo come irreversibile. Sono queste quelle che la relazione chiama “scelte pastorali coraggiose” (n. 40). Il coraggio, a quanto sembra, non sta nell’opporsi al male, ma nell’adeguarsi ad esso. I passaggi dedicati all’accoglienza delle persone omosessuali sono quelli che sono sembrati più scandalosi, ma sono la logica coerenza dei principi fin qui esposti. Anche l’uomo della strada capisce che se al divorziato risposato è possibile accostarsi ai sacramenti, tutto è permesso, a cominciare dallo pseudo matrimonio omosessuale.
Mai, veramente mai, sottolinea Marco Politi su “Il Fatto” del 14 ottobre, si era letta, in un documento ufficiale prodotto dalla gerarchia ecclesiastica, una frase del genere: “Le persone omosessuali hanno doti e qualità da offrire alla comunità cristiana”. Seguita da una domanda rivolta ai vescovi di tutto il mondo: “siamo in grado di accogliere queste persone, garantendo loro uno spazio di fraternità nelle nostre comunità?” (n. 50). Pur non equiparando le unioni fra persone dello stesso sesso al matrimonio fra uomo e donna, la Chiesa si propone di “elaborare cammini realistici di crescita affettiva e di maturità umana ed evangelica integrando la dimensione sessuale” (n. 51). “Senza negare le problematiche morali connesse alle unioni omosessuali si prende atto che vi sono casi in cui il mutuo sostegno fino al sacrificio costituisce un appoggio prezioso per la vita dei partners” (n. 52).
Nessuna obiezione di principio viene espressa alle adozioni di bambini da parte di coppie omosessuali: ci si limita a dire che “la Chiesa ha attenzione speciale verso i bambini che vivono con coppie dello stesso sesso, ribadendo che al primo posto vanno messi sempre le esigenze e i diritti dei piccoli” (ivi). Nella conferenza stampa di presentazione, mons. Bruno Forte è arrivato ad auspicare “una codificazione di diritti che possano essere garantiti a persone che vivono in unioni omosessuali”.
Le parole fulminanti di San Paolo secondo cui: “né immorali, né idolàtri, né adùlteri, né effeminati, né sodomiti, né ladri, né avari, né ubriaconi, né maldicenti, né rapaci erediteranno il regno di Dio” (I Lettera ai Corinzi, 6, 9) perdono di senso per i giocolieri della nuova morale pansessuale. Per essi bisogna cogliere la realtà positiva di quello che fu il peccato che grida vendetta al cospetto di Dio (Catechismo di san Pio X). Alla “morale del divieto” occorre sostituire quella del dialogo e della misericordia e lo slogan del 68, “vietato vietare”, viene aggiornato dalla formula pastorale secondo cui “nulla si può condannare”.
Non cadono solo due comandamenti, il sesto e il nono, che proibiscono pensieri ed atti impuri al di fuori del matrimonio, ma scompare l’idea di un oggettivo ordine naturale e divino riassunto dal Decalogo. Non esistono atti intrinsecamente illeciti, verità e valori morali per i quali si deve essere disposti a dare anche la vita (n. 51 e n. 94), come li definisce l’enciclica Veritatis Splendor. Sul banco degli imputati non sono solo la Veritatis Splendor e i recenti pronunciamenti della Congregazione per la dottrina della Fede in materia di morale sessuale, ma lo stesso Concilio di Trento che formulò dogmaticamente la natura dei sette sacramenti, a cominciare dall’Eucarestia e dal Matrimonio.
Tutto inizia nell’ottobre 2013, quando papa Francesco, dopo aver annunciato l’indizione dei due sinodi sulla famiglia, l’ordinario e lo straordinario, promuove un “Questionario” rivolto ai vescovi di tutto il mondo. L’uso mistificatorio di sondaggi e questionari è ben noto. L’opinione pubblica crede che poiché una scelta viene fatta dalla maggior parte delle persone, deve essere quella giusta. E i sondaggi attribuiscono alla maggior parte delle persone opinioni già predeterminate dai manipolatori del consenso. Il questionario voluto da papa Francesco, ha affrontato i temi più scottanti, dalla contraccezione alla comunione ai divorziati, dalle coppie di fatto ai matrimoni tra omosessuali più a scopo orientativo che informativo.
La prima risposta pubblicata fu quella, il 3 febbraio della Conferenza Episcopale tedesca (“Il Regno Documenti”, 5 (2014), pp. 162-172) chiaramente resa nota per condizionare la preparazione del Sinodo e soprattutto per offrire al cardinale Kasper la base sociologica di cui aveva bisogno per la relazione al Concistoro che papa Francesco gli aveva affidato. Ciò che emergeva era infatti l’esplicito rifiuto da parte dei cattolici tedeschi “delle affermazioni della Chiesa sui rapporti sessuali prematrimoniali, l’omosessualità, i divorziati risposati e il controllo delle nascite” (p. 163). “Le risposte pervenute dalle diocesi – si diceva ancora - lasciano intravedere quanto è grande la distanza tra i battezzati e la dottrina ufficiale soprattutto per quanto riguarda la convivenza prematrimoniale, il controllo delle nascite e l’omosessualità” (p. 172).
Questa distanza non veniva presentata come un allontanamento dei cattolici dal Magistero della Chiesa, ma come una incapacità della Chiesa a comprendere e assecondare il corso dei tempi. Il cardinale Kasper nella sua relazione al Concistoro del 20 febbraio definirà tale distanza un “abisso”, che la Chiesa avrebbe dovuto colmare adeguandosi alla prassi dell’immoralità.
Secondo uno dei seguaci di Kasper, il sacerdote genovese Giovanni Cereti, noto per uno studio tendenzioso sul divorzio nella chiesa primitiva, il questionario è stato promosso da papa Francesco per evitare che il dibattito si svolgesse “in segrete stanze” (“Il Regno-Attualità” 6 (3014), p. 158). Ma se è vero che il Papa ha voluto che la discussione si svolgesse in maniera trasparente, non si capisce la decisione di tenere il Concistoro straordinario di febbraio e poi il Sinodo di ottobre a porte chiuse. L’unico testo di cui si è venuti a conoscenza, grazie al “Foglio”, fu la relazione del cardinale Kasper. Poi, sui lavori, è calato il silenzio.
Nel suo Diario del Concilio, il 10 novembre 1962, padre Chenu annota questa frase di don Giuseppe Dossetti, uno dei principali strateghi del fronte progressista: “La battaglia efficace si gioca sulla procedura. È sempre per questa via che ho vinto”. Nelle assemblee il processo decisionale non appartiene alla maggioranza, ma alla minoranza che controlla la procedura. La democrazia non esiste nella società politica e tantomeno in quella religiosa. La democrazia nella Chiesa, ha osservato il filosofo Marcel De Corte, è cesarismo ecclesiastico, il peggiore di tutti i regimi. Nel processo sinodale in corso l’esistenza di questo cesarismo ecclesiastico è dimostrato dal clima di pesante censura che lo ha accompagnato fino ad oggi.
I più attenti vaticanisti come Sandro Magister e Marco Tosatti hanno sottolineato come, a differenza dei Sinodi precedenti, in questo è stato fatto divieto ai padri sinodali i loro interventi. Magister, ricordando la distinzione fatta da Benedetto XVI tra il Concilio Vaticano II “reale” e quello “virtuale” che ad esso si sovrappose, ha parlato di uno “sdoppiamento tra sinodo reale e sinodo virtuale, quest’ultimo costruito dai media con la sistematica enfatizzazione delle cose care allo spirito del tempo”. Oggi però sono i testi stessi del Sinodo ad imporsi con la loro forza dirompente, senza possibilità di travisamento da parte dei media che si sono mostrati addirittura stupiti dalla potenza esplosiva della Relatio del card. Erdö.
Naturalmente questo documento non ha alcun valore magisteriale. E’ anche lecito dubitare che esso rifletta il reale pensiero dei Padri sinodali. La Relatio prefigura però la Relatio Synodi, il documento conclusivo dell’assise dei vescovi.
Il vero problema che ora si porrà è quello della resistenza, annunciata dal libro Permanere nella Verità di Cristo dei cardinali Brandmüller, Burke, Caffarra, De Paolis e Müller (Cantagalli 2014). Il cardinale Burke nella sua intervista ad Alessandro Gnocchi sul “Foglio” del 14 ottobre, ha affermato che eventuali cambiamenti alla dottrina o alla prassi della Chiesa da parte del Papa sarebbero inaccettabili, “perché il Pontefice è il Vicario di Cristo sulla terra e perciò il primo servitore della verità della fede. Conoscendo l’insegnamento di Cristo, non vedo come si posa deviare da quell’insegnamento con una dichiarazione dottrinale o con una prassi pastorale che ignorino la verità”.
I vescovi e i cardinali, più ancora dei semplici fedeli, si trovano di fronte a un terribile dramma di coscienza, ben più grave di quello che dovettero affrontare nel XVI secolo i martiri inglesi. Allora infatti si trattava di disobbedire alla suprema autorità civile, il re Enrico VIII, che per un divorzio aprì lo scisma con la Chiesa romana, mentre oggi la resistenza va opposta alla suprema autorità religiosa qualora deviasse dal perenne insegnamento della Chiesa.
E chi è chiamato a resistere non sono cattolici disobbedienti o del dissenso, ma proprio coloro che più profondamente venerano l’istituzione del Papato. Allora chi resisteva era consegnato al braccio secolare, che lo destinava alla decapitazione o allo squartamento. Il braccio secolare contemporaneo applica il linciaggio morale, attraverso la pressione psicologica esercitata dai mass-media sull’opinione pubblica.
L’esito è spesso il crollo psico-fisico delle vittime, la crisi di identità, la perdita della vocazione e della fede, a meno che non si sia capaci di esercitare, con l’aiuto della grazia, la virtù eroica della fortezza. Resistere significa, in ultima analisi, riaffermare l’integrale coerenza della propria vita con la Verità immutabile di Gesù Cristo, capovolgendo la tesi di chi vorrebbe dissolvere l’eternità del Vero nella precarietà del vissuto.
Roberto de Mattei