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martedì 7 maggio 2013

Alcune riflessioni su Canto Gregoriano e Liturgia ( Mattia Rossi )

Alcune riflessioni  dal “Bollettino Ceciliano”, maggio 2012  sul canto gregoriano o, molto più brutalmente, sullo stato (vegetativo?) in cui versa il Canto Gregoriano scritte dal Maestro Mattia Rossi in occasione del 50° della Sacrosanctum Concilium
Un particolare ringraziamento all'Autore ! 
A.C.
“CANTARE I CANTI DEL SIGNORE IN TERRA STRANIERA”: ALCUNE RIFLESSIONI SU CANTO GREGORIANO E LITURGIA IN MARGINE AD UN ANNIVERSARIO. 
La storia è oramai nota: la musica sacra, alla mercé di qualsiasi genere, è totalmente sfuggita dal controllo della Chiesa: il gusto (pessimo) di pochi ha dettato, de facto, la linea corrente sfociata nella più banale e mediocre musica liturgica. 
E’ più che mai necessario, ora, tornare alle sorgenti della riforma liturgica che, musicalmente, ci ha “trasmesso ciò che ha ricevuto”. 
Mi pare quasi superfluo continuare a richiamare i luoghi del dettato conciliare nei quali si sottolinea l’importanza del canto gregoriano («la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana», SC 116) o si auspica un nuovo impulso editoriale della gregorianistica («Si conduca a termine l’edizione tipica dei libri di canto gregoriano; anzi, si prepari un’edizione più critica dei libri già editi dopo la riforma di san Pio X. 
Conviene inoltre che si appronti un’edizione contenente melodie più semplici, ad uso delle chiese minori», SC 117); la contraddizione è sotto gli occhi di tutti: la dichiarazione conciliare ufficiale, da un lato, il ferreo ostracismo del gregoriano dal tempio, dall’altro. 
Chiunque voglia cantare il canto proprio della Chiesa nella Chiesa si trova forzatamente a dire, col salmista, «Come cantare i canti del Signore in terra straniera?» (Sal 136). 
Sì, «i canti del Signore», questo è il canto gregoriano. 
Chiediamoci: che cosa fa del canto gregoriano quella definizione di “canto della Chiesa”? 
È la totale consustanzialità tra parola e neuma, è la dipendenza dell’andamento musicale dal senso esegetico che di quel testo si vuol dare. 
Gli espedienti retorici, dei quali la composizione gregoriana si serve, sottolineano, per mezzo del fenomeno sonoro, quella particolare parola e ottenere quel preciso significato che si inserisce in quel determinato con-testo liturgico. 
Questo è il senso di quel bagaglio di segni (neumi) che accompagnano i testi nei manoscritti. 
La vera natura del canto gregoriano è esegetica prima ancora che musicale: non è un semplice pronunciamento sonoro del testo, ma una spiegazione, una lectio divina della Chiesa, è il Verbo fatto carne che si fa suono. 
E la Parola divina non è posta nella liturgia, ma è essa stessa liturgia: il canto, in quanto manifestazione sonora della Parola di Dio, è liturgia. 
La Santa Madre Chiesa propone questa musica perché sa che essa è realmente incarnazione sonora della Parola di Dio nella sua corretta esegesi. 
E siccome l’interpretazione delle Scritture è propria della Chiesa, ecco che essa riconosce come suo il canto gregoriano: ci dice non solamente cosa cantare, ma come cantarlo. 
La Chiesa propone il gregoriano perché esso è teofania, è l’epifania sonora del Verbo. 
È Dio che parla a noi attraverso un canto plasmato dallo Spirito, è una musica che dalla Gerusalemme celeste discende sulla terra ed è in grado di infondere la gioia e la speranza nel cuore. 
Una riflessione sul canto gregoriano ci permette, inoltre, un’ulteriore considerazione. 
Sono ben noti a tutti noi i contrasti che, molto spesso, colpiscono i nostri zelanti animatori liturgici. Il loro “inattaccabile”spazio d’azione (lettore, cantore, guida dell’assemblea, addetto alle offerte, ecc…) risponde a un misero criterio di “attivismo” liturgico conforme a ottiche più sociologiche che pastorali. 
Provare per credere. 
È, del resto, una logica conseguenza della riduzione della liturgia a show, a una messinscena teatrale: ciascun attore ha la propria “parte” e necessita di una rilevanza pubblica. 
Sono l’affannoso presbiterocentrismo, da un lato, e lo sfrenato “assemblearismo” liturgico, dall’altro, ad aver gravemente compromesso la struttura celebrativa: l’educazione liturgica del popolo di Dio si è trasformata in diseducazione sistematica. 
Non è forse diseducativo privare l’assemblea orante della più sublime forma di preghiera in musica, il gregoriano (e la musica sacra – sottolineo, sacra – in generale)? 
Non è forse irrispettoso privare i fedeli di tutto ciò che non risponde alle banali facilonerie delle canzonette pseudo-liturgiche? 
Non è forse poco elegante propinare alle nostre assemblee prodotti musicali di infima qualità ammettendo, de facto, una sua implicita inferiorità? 
Possibile che l’unico obiettivo perseguibile debba essere la mediocrità? 
È il momento che la Chiesa prenda atto di essersi infilata in un vicolo cieco: Colei che è custode dell’esegesi e della Sacra Scrittura ha fatto apostasia della sua musica e ha lasciato spazio a un vergognoso pop liturgico canzonettaro; coloro, invece, che, nonostante le resistenze, hanno compreso quanto tutto ciò fosse pericoloso – e non certo per chissà quale “mania” – sono pronti a riconsegnare il canto gregoriano alla sua legittima proprietaria, la Chiesa. 
È pronta a (ri)accoglierlo e poter gridare, con l’autore sacro, che «il tempo del canto è tornato» (Can 2, 12)? 
È pronta, finalmente, a tirar fuori dall’oblio e a riproporre quel repertorio che Lei stessa ha auspicato per le chiese minori e per le assemblee che va sotto il nome di Graduale Simplex? 
È pronta, finalmente, a “incoraggiare” le numerose scholae che vogliono aprirsi al gregoriano e non liquidarle sbrigativamente pensando che siano solamente dei “fissati”? 
È pronta a favorire, almeno nelle cattedrali, la nascita di gruppi corali che si dedichino seriamente e con impegno allo studio dell’interpretazione gregoriana e del Graduale Triplex? Certo, tutto questo richiede forza e responsabilità, è l’esatto opposto della banale faciloneria alla quale siamo stati troppo spesso abituati; è l’opposto dell’improvvisazione alla quale troppo spesso assistiamo; è l’opposto delle nostre smanie di protagonismo liturgico… 
Ecco: è l’opposto del nostro modo antropocentrico di approcciarci alla liturgia. 
Se davvero, allora, vogliamo cogliere fino in fondo il senso e la portata del Vaticano II – e non servircene a piacimento – riplasmiamo le nostre liturgie attorno al canto gregoriano (e alla polifonia sacra, la quale è, a sua volta, forgiata sul gregoriano) come il Concilio stesso veramente avrebbe voluto. 
Non depauperiamo la Chiesa di un tesoro così grande, della sua lex orandi. Esaltiamo e promuoviamo la vera musica sacra, “i canti del Signore”, così che in ciascuna liturgia terrena, figura di quella celeste, «appaia che la potenza straordinaria viene da Dio e non da noi» (2Cor 4, 7). 
in “Bollettino Ceciliano”, maggio 2012.