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lunedì 29 aprile 2013

Cantare la fede ( «Percorsi di fede nel canto gregoriano»)

Postiamo uno studio sul Canto Gregoriano del M° Mattia Rossi. 
L' articolo  analizza alcuni tra i brani che descrivono il tema della “fede".  
Ringraziamo l'Autore per la gentile concessione. 
A.C. 

Tra i brani retoricamente meglio costruiti e più affascinanti dell’intero corpus gregoriano troviamo il communio Lutum fecit della IV domenica di quaresima, detta “del cieco nato”, nel quale si cita la pericope evangelica che narra il miracolo di Gesù il quale, spalmando del fango ottenuto con la sua saliva sugli occhi di un cieco gli ridona la vista: «Lutum fecit ex sputo Dominus, et linivit oculos meos: et abii, et lavi, et vidi, et credidi Deo» (“Il Signore fece del fango con la saliva e lo spalmò sui miei occhi: sono andato, mi sono lavato, ho veduto e ho creduto in Dio”).
L’acqua della piscina di Siloe, alla quale il cieco si reca per lavarsi, ha, in questa pagina, una chiave di lettura battesimale, una preparazione all’iniziazione cristiana e al percorso di acquisizione della fede. Il desiderio di maturazione e di crescita nella fede, incarnato dal cieco, è perfettamente dipinto nella strutturazione musicale del communio Lutum fecit. 
Il brano, nella sua semplice sillabicità, è interamente costruito in un clima di crescendo: ad una leggerezza di tutta la prima parte, corrisponde un forte aumento di tensione, accentuato anche dal quadruplice et…et…et…et, della seconda parte: «et abii, et lavi, et vidi, et credidi Deo», “sono venuto, mi sono lavato, ho visto e ho creduto in Dio”. 
Il primo verbo («et abii») è ancora enunciato semplicemente e leggermente.
Sul secondo («et lavi») si assiste ad un allargamento del ritmo destinato a sfociare profondamente sul terzo elemento della frase («et vidi»): è in questo punto che il compositore gregoriano pone tutta la carica, la forza e la pesantezza ritmica. 
Il neuma posto su «vidi», oltre ad essere già di per sé un neuma allargato, porta anche la lettera t, “tenete”
Questo atteggiamento spiazza totalmente la nostra concezione: tutta la forza e la tensione musicale sono posti non sul finale, sull’“e ho creduto in Dio”, come ci potremmo aspettare, ma sull’“ho visto”
 E’, del resto, una logica conseguenza dell’aspetto umano del cieco: era la vista che gli interessava ottenere. 
La fede, il credere in Dio, sembra, quasi, una conseguenza naturale del miracolo, tanto che «et credidi Deo» viene espresso con la semplicità, la naturalezza e la leggerezza con la quale il brano era iniziato. 
E questo estremo allargamento di «et vidi» crea un forte clima di attesa e di aspettativa che, la levità di «et credidi Deo», in una forte dicotomia ritmica, separa e risalta nettamente.
Non solo: sull’ultima sillaba di «credidi» è posto un neuma che indica una forte proiezione verso ciò che segue («Deo») come se, ancora una volta, il compositore avesse voluto sottolineare la forte spinta del processo di fede verso Dio. 
Di più immediata comprensione (almeno testuale) risulta, invece, il communio della II domenica di Pasqua Mitte manum nel quale si riportano le parole che Gesù rivolse all’incredulo per antonomasia, san Tommaso: «Mitte manum tuam et cognosce loca clavorum, alleluia. Et noli esse incredulus sed fidelis, alleluia, alleluia» (“Metti la tua mano e senti il segno dei chiodi, alleluia. 
E non essere incredulo, ma credente, alleluia, alleluia”). 
Un brano, ancora una volta, molto semplice che, però, inizia subito con tre termini molto forti e ognuno dei quali risulta, a suo modo, sottolineato. «Mitte», metti: è l’invito che Gesù rivolge a Tommaso, è l’azione grazie alla quale l’apostolo incredulo può credere, è la porta, per Tommaso, della fede e viene rimarcata con un forte stacco alla prima nota. 
«Manum», la seconda parola, è lo strumento con cui Tommaso approda alla fede: una grande liquescenza sulla seconda sillaba (-num) ingrandisce il termine e lo sottolinea unendolo a quello che segue. «Tuam», metti la tua mano: è l’invito che Gesù, oggi, rivolge all’incredulo Tommaso che c’è in ciascuno di noi. 
Sulla seconda sillaba di «tuam» c’è un neuma speciale di sottolineatura: «Mitte manum tuam» tre parole distintamente sottolineate, ma che formano un’unica frase, un'unica esortazione ad aprirsi alla fede. 
Anche la congiunzione che segue, «et», è fortemente allargata a creare l’attesa per la frase seguente: «cognosce loca clavorum». 
Un «et» molto sospensivo che, però, prelude alla dichiarazione disarmante di Gesù: “senti il segno dei chiodi!”. 
Straordinaria, per la comprensione di cosa sia realmente il canto gregoriano, è la seconda parte del brano, «Et noli esse incredulus, sed fidelis»: essa ha la stessa, identica, melodia di «et linivit oculos meos» del brano Lutum fecit, analizzato poco sopra. 
Che magnifica retorica!: in due brani apparentemente distinti fra loro (uno a metà quaresima, l’altro all’inizio del tempo pasquale) sono, in realtà, fortemente collegati da una stessa medesima melodia.
E’ chiaro che l’intento del compositore gregoriano è squisitamente retorico: collegare e rimandare tra di loro i due brani in quanto appartenenti ad un unico ‘argomento’, la fede. 
E, da notare, la complementarità delle due frasi melodicamente uguali: è il cieco che parla: lo spalmò sui miei occhi e mi disse “non essere incredulo ma credente”. 
Questo è il gregoriano: non è una raccolta di canti, è l’immagine sonora del “corpo” paolino nel quale ogni brano, ogni membra, vive solamente in funzione e nella proiezione di un altro e al servizio dell’intero corpo.
Non è raro scovare, all’interno del catalogo gregoriano, vari casi in cui, per diverse ragioni retoriche, si assiste ad un mutamento “generale” del brano, una modifica dell’ordine dei suoni all’interno del brano. 
Prendiamo, ad esempio, il communio Dicit Andreas (II domenica del tempo per annum, B): «Dicit Andreas Simoni fratri suo: “Invenimus Messiam”, qui dicitur Chirstus, et adduxit eum ad Iesum» (Disse Andrea a Simone, suo fratello: “Abbiamo trovato il Messia - che significa Cristo” e lo condusse da Gesù).
Esso è scritto in tetrardus (VIII modo), però si presenta diviso modalmente in tre parti: la prima, l’apertura della scena («Dicit Andreas Simoni fratri suo»), in cui il tetrardus è plagale (cioè, semplificando molto, la melodia rimane al grave); la seconda, le parole di Andrea («Invenimus Messiam, qui dicitur Christus»), in cui il tetrardus diventa autentico (cioè, al registro acuto del modo); la terza, in cui i due modi sembrano unirsi.
Questo mi sembra che rappresenti molto bene il senso della conversione di Andrea: il passaggio dal grave del plagale all’acuto dell’autentico è segnato dall’affermazione-chiave della risposta alla fede di Andrea (“Abbiamo trovato il Messia!”).
È evidente che il processo è retorico: il condurre la melodia all’acuto implica, per forza, un risalto.
Un risalto che, essendo l’attestazione dell’avvenuta conversione nella fede, assume un’importanza fondamentale. 
Termino questo mio percorso con una riflessione conclusiva sulla dichiarazione paolina «la fede nasce dall’ascolto» (Rm 10, 17): è un ascolto che, avendo ormai compreso quanto il canto gregoriano sia un fenomeno squisitamente esegetico prima ancora che musicale, non è da intendersi in senso esclusivamente fisico sensoriale.
Viene alla mente, allora, sant’Agostino alla cui conversione contribuì in larga parte la partecipazione alle liturgie ambrosiane (è, parafrasando la testata di questa Rivista, la liturgia che diventa fons della fede) e all’ascolto delle sue musiche: «Quando mi tornano alla mente le lacrime che canti di chiesa mi strapparono ai primordi nella mia fede riconquistata, e alla commozione che ancor oggi suscita in me non il canto, ma le parole cantate, se cantate con voce limpida e la modulazione più conveniente, riconosco di nuovo la grande utilità di questa pratica» (Confessioni, X, 25). Proprio per questo motivo, allora, capiamo la fondatezza delle dichiarazioni conciliari: «il canto, unito alle parole, è parte necessaria ed integrante della liturgia solenne». 
Due peculiarità del canto liturgico, necessario e integrante, tristemente dimenticate.

Mattia Rossi