François-René de Chateaubriand |
Viviamo un momento di crisi nella trasmissione del messaggio cristiano. In particolare, è in crisi il linguaggio con cui la cultura cattolica cerca di trasmettere ideali ed entusiasmi; e forse non solo a causa del predominio assoluto dell'immagine e dei sistemi informatici, ma per qualcosa di più sostanziale. Avremmo bisogno di un colpo d'ala, di un nuovo scrittore della statura di Chateaubriand che, provocando un "grande colpo al cuore del lettore", riesca di nuovo a convincere della bellezza della fede, e così a riaccendere gli animi spenti della religiosità europea.
È questa la conclusione a cui porta la lettura del libro di Giuliano Zanchi Il Genio e i Lumi. Estetica teologica e umanesimo europeo in François-René de Chateaubriand (Vita e Pensiero) dedicato a una delle principali opere del grande scrittore francese - Le Génie du christianisme, uscito nel 1802, cioè immediatamente dopo la tempesta rivoluzionaria - che in poco tempo divenne il libro più letto d'Europa. L'opera ebbe l'effetto di risvegliare la passione per una religione data per morta attraverso un'apologia estetica del cristianesimo.
L'autore usava una lingua nuova per affrontare questo complesso tema: una lingua "incantatrice", ben diversa dall'arido razionalismo a cui si erano ridotti i teologi che si misuravano con la filosofia illuminista, una lingua che si voleva riallacciare a quella dei Padri della Chiesa, dei quali egli aveva compreso l'impostazione soggettiva e moderna. Chateaubriand era consapevole d'imporre alla questione religiosa uno scatto complessivo, d'imprimere un cambiamento di marcia alla cultura cristiana attraverso una nuova audacia comunicativa.
In quell'epoca dominata da intellettuali che coltivavano l'ideale di un razionalismo intransigente c'era in realtà - e lo scrittore lo sapeva - fame di consolazioni religiose, di fede: "Quanti cuori spezzati, quante anime rimaste sole imploravano una mano divina per guarirli! Ci si precipitava nella casa di Dio come si entra nella casa del medico il giorno di una epidemia". Insomma, la rimozione dell'esperienza religiosa dalla vita sociale stava avvenendo in modo troppo grossolano, e le braci della fede ardevano ancora, se pure nascostamente.
Chateaubriand era stato capace di creare un discorso che, secondo Zanchi, intendeva "dar voce alla ridotta eloquenza di una tradizione dottrinale in sé traboccante di ricchezza, di una eredità dogmatica di cui, a causa di una cultura che ha nella stessa misura avvolto la filosofia e la teologia, sono diventate invisibili le ragioni e impalpabile il fascino". Davanti all'uomo dei Lumi che - come l'uomo contemporaneo - cercava in se stesso l'autonoma giustificazione dell'intera storia umana, terrena e spirituale, lo scrittore riesce a risvegliare interesse e ammirazione per "il genio cristiano", dando voce e onore a una percezione della coscienza collettiva, ormai ridotta alla clandestinità proprio per la sua incapacità di riformularsi.
Come dovrebbe intervenire il nuovo Chateaubriand oggi? Sarebbe efficace la sua "apologia estetica" della fede? Probabilmente, la bellezza della tradizione cattolica ormai ignorata può avere presa in un mondo in cui - scrive PierAngelo Sequeri nell'introduzione al libro - "la potenza performativa dell'estetico, invece, è dispositivo essenziale per il rapido formarsi di un immaginario pubblico che consegna la religione, in blocco, alla sfera dell'obsoleto, del residuo, del volgare". Mentre l'impatto sentimentale, emotivo, del linguaggio romantico, se pure grondante soggettività, può essere percepito come esagerato.
Ma soprattutto oggi, a secolarizzazione compiuta, abbiamo da sfruttare un'altra opportunità: la tradizione cristiana costituisce un punto di vista nuovo, anticonformista, sulla realtà, tale da incuriosire e affascinare soprattutto i giovani, se solo ne vengono a contatto nel modo giusto. Quando scriveva Chateaubriand, questo aspetto di novità non si era ancora sedimentato, e il grande scrittore non aveva potuto fare ricorso a questo motivo di fascino che, paradossalmente, ci offrono proprio la lunga fase di secolarizzazione e perfino la diffusa ignoranza in ambito religioso.
Fonte: L'Osservatore Romano 26 agosto 2011
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RispondiEliminaRicordo anch'io che mettere la mano -di solito la destra- sotto la giacca "alla Napoleone" è simbolo di identificazione massonica. Provate a guardare quanti personaggi tra Otto e Novecento lo facevano.
RispondiEliminaIl simbolismo è presto spiegato: la verità è nascosta, solo il massone la conosce, addirittura la possiede (ce l'ha in pugno).