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martedì 3 maggio 2011

Malta, abbiamo perso il referendum sul divorzio: ma ripartiamo da quarantasette



Una nota di Massimo Introvigne

A Malta la famiglia non ce l’ha fatta. Nel referendum di sabato 28 maggio che proponeva ai maltesi l’introduzione del divorzio il «sì» ha ottenuto il 53% dei voti, il «no» si è fermato al 47%, secondo dati non ancora definitivi. I votanti sono stati il 72%, una percentuale bassa per le abitudini dell’arcipelago. Secondo alcuni osservatori, responsabili dell’astensionismo sono stati in particolare elettori di sinistra personalmente contrari al divorzio, i quali hanno ascoltato gli appelli di alcuni loro dirigenti secondo cui una vittoria antidivorzista avrebbe danneggiato il Partito Laburista. Al di là degli aspetti più strettamente politici, il 28% di astenuti – all’interno dei quali si annida certamente quel tre per cento che, sommato ai no e sottratto ai sì, avrebbe fatto la differenza – mostra il successo dell’argomento più usato dal fronte divorzista, nel 2011 a Malta come già nel referendum del 1974 in Italia: «Tu, cattolico, resterai libero di non divorziare, ma perché vuoi impedire di divorziare a chi non la pensa come la Chiesa?». Così molti, contrari al divorzio ma reticenti sia a «imporre agli altri» una scelta ritenuta tipica dei soli cattolici sia a votare esplicitamente a favore della proposta divorzista, sono rimasti a casa.
Come abbiamo spiegato su La Bussola Quotidiana, e come hanno ribadito i vescovi di Malta, l’argomento centrale della campagna divorzista è falso. Benché per i cattolici l’indissolubilità del matrimonio sia anche un principio religioso, si tratta anzitutto di un principio di quel diritto naturale che la ragione può riconoscere, che è la regola comune del gioco chiamato società e che vincola tutti a prescindere dalla loro appartenenza a una specifica religione o a nessuna. Grazie anche ai soliti «cattolici per il divorzio», che non mancano mai in questi casi e hanno seminato confusione e divisione, non è arrivato alla maggioranza degli elettori il messaggio fondamentale secondo cui occorre dire no al divorzio in nome del bene comune e della retta ragione, non solo della fede, e dunque non si tratta d’imporre una scelta «cattolica» ai non cattolici.
Che fare, ora? Sul piano giuridico, il referendum non introduce immediatamente il divorzio e sarà il Parlamento a dover decidere. Il primo ministro nazionalista Lawrence Gonzi ha affermato che, benché non si tratti del risultato che si augurava, la volontà del popolo sarà rispettata. Il problema, però, è più complicato. Non ci si può certamente nascondere il peso del voto del 28 maggio. Tuttavia ogni deputato maltese ostile al divorzio mantiene il diritto e il dovere di votare secondo coscienza, tenendo conto certo del risultato del referendum ma ancor più della legge morale naturale. Se è cattolico, dovrà avere chiaro l’insegnamento della Chiesa riassunto da Benedetto XVI nell’importante Discorso ai Membri della Commissione Teologica Internazionale del 5 ottobre 2007: la Chiesa e la retta ragione non accettano la «concezione positivista del diritto» secondo cui «la maggioranza dei cittadini, diventa la fonte ultima della legge civile». «Ma – spiega Benedetto XVI (i corsivi sono miei) – se fosse così, la maggioranza di un momento diventerebbe l’ultima fonte del diritto. La storia dimostra con grande chiarezza che le maggioranze possono sbagliare. La vera razionalità non è garantita dal consenso di un gran numero, ma solo dalla trasparenza della ragione umana alla Ragione creatrice e dall’ascolto comune di questa Fonte della nostra razionalità. Quando sono in gioco le esigenze fondamentali della dignità della persona umana, della sua vita, dell’istituzione familiare, dell’equità dell’ordinamento sociale, cioè i diritti fondamentali dell’uomo, nessuna legge fatta dagli uomini può sovvertire la norma scritta dal Creatore nel cuore dell’uomo, senza che la società stessa venga drammaticamente colpita in ciò che costituisce la sua base irrinunciabile. La legge naturale diventa così la vera garanzia offerta ad ognuno per vivere libero e rispettato nella sua dignità, e difeso da ogni manipolazione ideologica e da ogni arbitrio e sopruso del più forte. Nessuno può sottrarsi a questo richiamo. Se per un tragico oscuramento della coscienza collettiva, lo scetticismo e il relativismo etico giungessero a cancellare i principi fondamentali della legge morale naturale, lo stesso ordinamento democratico sarebbe ferito radicalmente nelle sue fondamenta».
La battaglia sul divorzio a Malta, dunque, non è finita. Si trasferisce dalle urne al Parlamento. Ma rimane anche dov’è sempre stata, cioè nella cultura e nell’educazione. L’argomento «Se sei cattolico sei libero di non divorziare ma non puoi impedire di farlo a chi non è cattolico» è un’autentica maledizione culturale e civile, perché apre la strada a qualunque presunto «nuovo diritto». Basta sostituire la parola «divorziare» con «abortire», «sposare una persona dello stesso sesso», «chiedere di essere ucciso con l’eutanasia se consideri le tue sofferenze intollerabili», e il gioco è fatto.
A Malta molti divorzisti hanno affermato sia di essere personalmente contrari all’aborto, sia che il legame tra divorzio e aborto è un’invenzione dei loro avversari. Non metto in dubbio la sincerità della prima affermazione. Ma la seconda è falsa. C’è in Europa tutta una cultura che vuole avanzare a passi spediti dal divorzio all’aborto, dall’aborto al matrimonio omosessuale, dal matrimonio omosessuale all’eutanasia. In Italia sono state le stesse forze politiche, spesso le stesse persone, a proporre questi presunti «nuovi diritti», uno dopo l’altro. Lo stesso è avvenuto in altri Paesi. Nell’enciclica Caritas in veritate Benedetto XVI descrive puntualmente la sequenza della marcia per rivendicare «presunti diritti, di carattere arbitrario e voluttuario», talora diritti «alla trasgressione e al vizio», «con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi dalle strutture pubbliche». Quando si nega la legge morale naturale si apre la strada a un percorso – afferma il Papa – che propone sempre nuove «ingiustizie inaudite»: contro la famiglia, contro la vita e giù giù fino all’eutanasia e «la fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione e dell'ibridazione umana». «La legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice – conclude l’enciclica – indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo della verità morale».
E tuttavia questi passaggi non sono ineluttabili. Sbaglierebbero i maltesi se pensassero che la deriva verso la «miseria» della negazione della verità naturale e verso nuove «ingiustizie inaudite» è inarrestabile. Proprio il caso italiano dimostra che non è così. L’Italia ebbe il suo referendum sul divorzio nel 1974. I sostenitori della famiglia lo persero. Appena chiuse le urne, alcuni di quegli stessi divorzisti che avevano sostenuto che «l’aborto non c’entra» si affrettarono a promuovere la legalizzazione dell’aborto. La ottennero nel 1978, dopo soli quattro anni dal referendum sul divorzio. Nel 1981 si tenne un referendum sull’aborto, nato male anche quanto al quesito e agli argomenti e finito peggio. Mentre nel 1974 il 40,7% aveva votato contro il divorzio, nel 1981 solo il 32% votò a favore della proposta del Movimento per la Vita di abrogare alcune norme della legge abortista.
Quattro anni, dunque, dal divorzio all’aborto. Via libera al matrimonio o almeno al riconoscimento delle unioni omosessuali e all’eutanasia? Alcuni cominciarono a pensarlo pochi anni dopo. Ma non è andata così. Dal referendum sull’aborto del 1981 sono passati trent’anni. Molti dei divorzisti del 1974 e degli abortisti del 1981 sono in agitazione permanente ed effettiva per il riconoscimento delle unioni fra persone dello stesso sesso e dell’eutanasia, ma – pur avendo convinto qualche giudice – non hanno ottenuto le leggi che desiderano in Parlamento. I pericoli ci sono – tutti i giorni – ma la deriva delle «ingiustizie inaudite» in Italia è stata per ora fermata.
Dopo il referendum sull’aborto del 1981 qualcuno scrisse che i cattolici e coloro che credono nella legge naturale dovevano «ricominciare da trentadue», da quel trentadue per cento degli italiani che aveva inteso votare – prescindendo dalla qualità del quesito e della campagna referendaria, su cui ancora si discute – contro l’aborto. Quelle intenzioni, quei voti non furono dispersi. Tra mille difficoltà, il fronte della vita e della famiglia è cresciuto e ha per ora impedito leggi sul riconoscimento delle unioni omosessuali – il 12 maggio 2007 la grande manifestazione del Family Day fermò la deriva in questo senso del governo di centro-sinistra allora al potere – e sull’eutanasia.
I maltesi possono ricominciare da quarantasette, dal quarantasette per cento (e se i dati definitivi saranno leggermente diversi non cambierà gran che) che ha votato per la famiglia. E possono ricominciare da Gozo, la seconda isola del loro arcipelago, dove il no al divorzio ha prevalso con una maggioranza schiacciante. Se non si faranno prendere dallo scoraggiamento – normale in questo momento di tristezza, ma che deve durare il meno possibile – e sapranno ripartire dalla cultura, dall’educazione, dalla formazione sul tema tanto caro a Benedetto XVI della legge naturale e del diritto naturale, i maltesi che hanno votato no potranno riconquistare una maggioranza che, come i dati hanno alla fine mostrato, non è irraggiungibile.
Difenderanno, così, anche la loro identità nazionale. Su Twitter – che ha certamente avuto un ruolo nella campagna, e dove la presenza divorzista è stata più forte – il giornalista favorevole al divorzio Karl Stagno-Navarra ha riferito l’atteggiamento in sala stampa del cronista del quotidiano italiano Repubblica, che rivolto ai promotori della legge sul divorzio ha gridato «Bravi! Avete sconfitto la potente Chiesa» e poco dopo ha chiesto al leader del movimento antidivorzista Arthur Galea Salomone se non si vergognasse. Sono esempi di un’arroganza «europea» che vorrebbe imporre il suo modello non solo divorzista ma abortista e che spinge per tante altre «ingiustizie inaudite» anche a Malta, il Paese europeo con la più alta percentuale di cattolici praticanti. Chi, in Europa, non la pensa come Repubblica ha il dovere di aiutare i maltesi a ripartire da quarantasette.

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