Vi congliamo questo interessantissimo articolo. (link del blog LibertàEPersona) .
La Carità e il mal francese
Di Francesco Agnoli,
del 14/01/2011 - Storia del Cristianesimo -
Deus caritas est, Dio è amore.
Da questo dogma fondamentale prende il largo un bellissimo testo di Giorgio Carbone: “Ma la più grande di tutte è la Carità” (ESD).
Bene o male, credenti e non, lo abbiamo sentito più volte. Forse tutti ricordiamo quelle parole di san Paolo: “se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita” (1 Cor 13,1)
Ma cos’è l’amore? La risposta cristiana è molto chiara: “La carità, essendo una partecipazione dell’uomo all’amore stesso di Dio, trascende l’ordine naturale e tutte le capacità umane. Perciò l’uomo non può dare a sé la carità. Essa è unicamente dono di Dio…la carità è nell’uomo in forza della giustificazione e del dono della grazia santificante, mediante il quale Dio rende l’uomo partecipe della sua vita”. Che la carità sia, come la fede, dono, non significa però che l’uomo non abbia un ruolo: egli è chiamato a meritarla e a disporsi ad essa, tramite le opere buone, i sacramenti, la preghiera...
Ecco che nella concezione cristiana l’uomo, da solo, non può fare nulla, ma con la grazia di Dio, invece, può trascendere la sua limitatezza, il suo egoismo, la sua miseria. Arrivando a compiere opere straordinarie, assolutamente più che umane, soprannaturali. Mi sembra che questa affermazione trovi conferma nella storia, in particolare in quella, affascinante, della carità visibile in lotta con le grandi malattie che nei secoli hanno funestato l’umanità del nostro continente.
Penso alla lebbra, nell’alto medioevo e sino al XII secolo; alla peste, micidiale portatrice di morte, nel basso medioevo; alla sifilide, causa di circa 20 milioni di morti nel primo trentennio del Cinquecento. Tutte e tre queste malattie hanno una caratteristica: sono contagiose, a parte la prima, e deturpano completamente il corpo, che diviene mostruoso, deforme, ripugnante. Tutto ciò rende l’amore verso i lebbrosi, gli appestati, i sifilitici, assolutamente poco umano. I monatti di Manzoni ce lo ricordano…
Ancora oggi, in India o in Africa, il lebbroso viene per lo più allontanato, scacciato, anche dai suoi stessi familiari. E’ un maledetto, e perde ogni diritto. Non è “umano”, infatti, abbracciare un lebbroso. Non è “naturale” andargli incontro e baciarlo. Eppure, oggi, anche in Africa e in Asia esistono centinaia di lebbrosari: fondati, pressoché sempre, da missionari. Da uomini in cui la carità di Cristo ha operato sino al punto di renderli capaci di imprese inimmaginabili.
L’Europa del XII secolo può vantare circa 19000 lebbrosari. C’è senza dubbio chi teme ed emargina queste figure ripugnanti, ma c’è anche chi, come San Francesco, pur provando inizialmente umano ribrezzo, li abbraccia, li bacia, li lava e li raccomanda ai suoi frati. A curarli non sono personaggi stipendiati dallo Stato, ma per lo più volontari, persone che danno la propria vita per il prossimo, vivificati dalla fede. Quale eroismo!
Ma è tutto l’ospedale moderno che nasce così: dall’opera volontaria di santa Elena e di santa Fabiola, di san Giovanni di Dio e di san Camillo de Lellis, persone in cui la carità di Dio opera veri e propri prodigi. Mi limiterò qui a ricordare brevemente la storia di un altro eroe della carità, piuttosto sconosciuto, esempio a mio modo di vedere straordinario di ciò che la carità di Dio può operare nell’uomo: Ettore Vernazza, fondatore della compagnia del Divino Amore.
E’, costui, un ricco e potente notaio genovese del XV secolo, discepolo di santa Caterina da Genova. Rimasto vedovo, dedica la sua vita a Dio e al suo prossimo, insieme a personaggi che diverranno dogi, senatori, papi. In particolare, la sua azione di instancabile organizzatore, è quella di creare i cosiddetti ospedali degli incurabili, prima a Genova (1497), poi a Roma, Napoli ecc…
Chi sono, a quest’epoca, gli “incurabili”? Sono i sifilitici. La sifilide entra in Italia, probabilmente, al seguito degli eserciti di Carlo VIII e delle migliaia di meretrici che lo accompagnano. E’ una malattia trasmessa per contagio sessuale, che colpisce prima le parti intime, poi tutto il corpo, sino ad intaccare la psiche e il sistema neurologico. “Propiziata da Venere, scrive il Cosmacini, e micidiale come Marte”.
E’ la lebbra, meglio, la peste dell’età rinascimentale. E’ un male dilagante. “Le persone, dichiara un testimone dell’epoca, si coprivano di grandi vesciche, pustole e ascessi su tutto il corpo ed erano talmente trasformate che guardarle era cosa orribile e spaventosa”.
Gli ospedali dell’epoca rifiutano questi “incurabili”, maleodoranti, contagiosi, fetidi. Vernazza, invece, si dedica a loro e invita a guardarli “come se fossero non uomini, ma quasi portatori in sé della persona stessa di nostro Signore”.
Instancabile nella preghiera e nell’azione, questo notaio che avrebbe potuto fare ben altra vita, si occupa anche degli orfani, dei poveri vergognosi, degli schiavi, e di costruire il Lazzaretto di Genova, colpita dalla peste. Proprio qui morirà, il 24 giugno 1524, chino come fra Cristoforo sui bubboni dei malati, assistendo i quali anche lui ha contratto la peste. Testimone, come tanti, del carattere soprannaturale della carità di Cristo. Il Foglio, 12 gennaio 2011
Bene o male, credenti e non, lo abbiamo sentito più volte. Forse tutti ricordiamo quelle parole di san Paolo: “se anche parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, sarei come bronzo che rimbomba o come cembalo che strepita” (1 Cor 13,1)
Ma cos’è l’amore? La risposta cristiana è molto chiara: “La carità, essendo una partecipazione dell’uomo all’amore stesso di Dio, trascende l’ordine naturale e tutte le capacità umane. Perciò l’uomo non può dare a sé la carità. Essa è unicamente dono di Dio…la carità è nell’uomo in forza della giustificazione e del dono della grazia santificante, mediante il quale Dio rende l’uomo partecipe della sua vita”. Che la carità sia, come la fede, dono, non significa però che l’uomo non abbia un ruolo: egli è chiamato a meritarla e a disporsi ad essa, tramite le opere buone, i sacramenti, la preghiera...
Ecco che nella concezione cristiana l’uomo, da solo, non può fare nulla, ma con la grazia di Dio, invece, può trascendere la sua limitatezza, il suo egoismo, la sua miseria. Arrivando a compiere opere straordinarie, assolutamente più che umane, soprannaturali. Mi sembra che questa affermazione trovi conferma nella storia, in particolare in quella, affascinante, della carità visibile in lotta con le grandi malattie che nei secoli hanno funestato l’umanità del nostro continente.
Penso alla lebbra, nell’alto medioevo e sino al XII secolo; alla peste, micidiale portatrice di morte, nel basso medioevo; alla sifilide, causa di circa 20 milioni di morti nel primo trentennio del Cinquecento. Tutte e tre queste malattie hanno una caratteristica: sono contagiose, a parte la prima, e deturpano completamente il corpo, che diviene mostruoso, deforme, ripugnante. Tutto ciò rende l’amore verso i lebbrosi, gli appestati, i sifilitici, assolutamente poco umano. I monatti di Manzoni ce lo ricordano…
Ancora oggi, in India o in Africa, il lebbroso viene per lo più allontanato, scacciato, anche dai suoi stessi familiari. E’ un maledetto, e perde ogni diritto. Non è “umano”, infatti, abbracciare un lebbroso. Non è “naturale” andargli incontro e baciarlo. Eppure, oggi, anche in Africa e in Asia esistono centinaia di lebbrosari: fondati, pressoché sempre, da missionari. Da uomini in cui la carità di Cristo ha operato sino al punto di renderli capaci di imprese inimmaginabili.
L’Europa del XII secolo può vantare circa 19000 lebbrosari. C’è senza dubbio chi teme ed emargina queste figure ripugnanti, ma c’è anche chi, come San Francesco, pur provando inizialmente umano ribrezzo, li abbraccia, li bacia, li lava e li raccomanda ai suoi frati. A curarli non sono personaggi stipendiati dallo Stato, ma per lo più volontari, persone che danno la propria vita per il prossimo, vivificati dalla fede. Quale eroismo!
Ma è tutto l’ospedale moderno che nasce così: dall’opera volontaria di santa Elena e di santa Fabiola, di san Giovanni di Dio e di san Camillo de Lellis, persone in cui la carità di Dio opera veri e propri prodigi. Mi limiterò qui a ricordare brevemente la storia di un altro eroe della carità, piuttosto sconosciuto, esempio a mio modo di vedere straordinario di ciò che la carità di Dio può operare nell’uomo: Ettore Vernazza, fondatore della compagnia del Divino Amore.
E’, costui, un ricco e potente notaio genovese del XV secolo, discepolo di santa Caterina da Genova. Rimasto vedovo, dedica la sua vita a Dio e al suo prossimo, insieme a personaggi che diverranno dogi, senatori, papi. In particolare, la sua azione di instancabile organizzatore, è quella di creare i cosiddetti ospedali degli incurabili, prima a Genova (1497), poi a Roma, Napoli ecc…
Chi sono, a quest’epoca, gli “incurabili”? Sono i sifilitici. La sifilide entra in Italia, probabilmente, al seguito degli eserciti di Carlo VIII e delle migliaia di meretrici che lo accompagnano. E’ una malattia trasmessa per contagio sessuale, che colpisce prima le parti intime, poi tutto il corpo, sino ad intaccare la psiche e il sistema neurologico. “Propiziata da Venere, scrive il Cosmacini, e micidiale come Marte”.
E’ la lebbra, meglio, la peste dell’età rinascimentale. E’ un male dilagante. “Le persone, dichiara un testimone dell’epoca, si coprivano di grandi vesciche, pustole e ascessi su tutto il corpo ed erano talmente trasformate che guardarle era cosa orribile e spaventosa”.
Gli ospedali dell’epoca rifiutano questi “incurabili”, maleodoranti, contagiosi, fetidi. Vernazza, invece, si dedica a loro e invita a guardarli “come se fossero non uomini, ma quasi portatori in sé della persona stessa di nostro Signore”.
Instancabile nella preghiera e nell’azione, questo notaio che avrebbe potuto fare ben altra vita, si occupa anche degli orfani, dei poveri vergognosi, degli schiavi, e di costruire il Lazzaretto di Genova, colpita dalla peste. Proprio qui morirà, il 24 giugno 1524, chino come fra Cristoforo sui bubboni dei malati, assistendo i quali anche lui ha contratto la peste. Testimone, come tanti, del carattere soprannaturale della carità di Cristo. Il Foglio, 12 gennaio 2011
Ogni commento è superflluo.
RispondiEliminaGrazie Agnoli.
Se tutti i cattolici prendessero coscienza dell opera di questi figli della chiesa...
RispondiEliminaUno degli strumenti pedagogici più efficaci è quello che nel Medioevo si chiamava l'"exemplum", vale a dire la presentazione di uno o più episodi ben caratterizzati, anche se naif, come nel caso del manzoniano "miracolo delle noci". Esattamente la tecnica delle parabole, adottata da Gesù per poter comunicare contemporaneamente al livello degli indotti, capaci di cogliere la "storia" e il senso morale (come applicarne l'insegnamento nel proprio modo di agire ) e a quello degli acculturati, in grado di comprendere il senso allegorico e trarne frutto intellettuale. Sembra sorprendente, ma uno dei fondatori del "Manifesto", "glorioso" giornale di intellettuali dissidenti dal PCI, a chi gli chiedeva chi fosse il miglior comunicatore da lui conosciuto rispose: "Gesù Cristo".
RispondiEliminaSolitamente le prediche che ascolto in Chiesa sono poco efficaci perchè il sacerdote si limita a tradurre il brano letto in concetti, sia pure a un livello di non estrema complicazione. Però così si finisce per restare a mezz'aria: discorso troppo astratto per gli uni, poco stimolante in quanto "scontato" per gli altri. Non riesco a comprendere perchè non vengano utilizzati in maggior copia riferimenti alla vita concreta: aneddoti, casi di vita, perfino riferimenti alla cronaca ( sia pure senza arrivare al gossip o alle invettive politiche variamente indirizzate a seconda degli orientamenti di chi parla ). Temo che i sacerdoti leggano poco romanzi e novelle e vedano pochi film, autentiche miniere per chi vuole conoscere i casi della vita quotidiana e gli intrichi psicologici in cui versa anche la gente comune. Piero Bargellini, scrittore cattolico che fu anche il sindaco di Firenze ai tempi dell'alluvione ( 1966 ) scrisse, mi pare, un "libro deglin esempi" : perchè non compilarne altri, più aggiornati e in gran numero?
Un elemento importante di questa "marcia verso la concretezza" sarebbe appunto l'introduzione di episodi della vita dei santi. Qui bisogna fare una notazione: i santi che piacciono, specialmente ai giovani, sono quelli tosti e coriacei, capaci di "lottare sul terreno". Io personalmente da piccolo fui conquistato dalla figura di don Bosco per il suo spirito sacrificio nello studio, nonostante la povertà della famiglia, e poi l'impegno a favore dei ragazzi disagiati, fra mille assilli economici e burocratici. Purtroppo oggi è largamente diffuso un francescanesimo di maniera, che fa del santo di Assisi una figura acquarellata, ecologista e animalista ante litteram, piuttosto hippy, sul genere del film di Zeffirelli, figurativamente e coloristicamente splendente, ma poco corrispondente alla durezza dell'autentica vita di san Francesco: così si vedo una santa Chiara fra "mille papaveri rossi", i fraticelli lieti ( più da beoti che da santi ) sotto un acquazzone da far venire polmonite e tubercolosi, diciamo quasi fossero sotto una calda doccia rigenerante, e nulla sulle stimmate e la cecità, che non saranno state pasticcini. In effetti il film si conclude al momento culminante della vita del santo: si incontrano Innocenzo III e un san Francesco seraficamente impegnato in un discorso assolutamente pelagiano sulla "originale bontà dell'uomo" contrapposta all'immagine negativa legata al peccato originale, in stile "postconciliarmente corretto", di fronte a cui il papa del "De contemptu mundi" scende dal trono come illuminato dall'idea dell'"apertura" e dell'"aggiornamento".
A me personalmente piacciono i santi di matrice tridentina, non tanto per tendenze nostalgiche, quanto per l'esempio di forza che danno: forza contro se stessi e forza contro il mondo ostile. Mi vengono qui in mente sant'Ignazio di Loyola con le sue mille peregrinazioni, San Camillo de Lellis, dedito alla cura dei malati, il Curato [...]
Uno degli strumenti pedagogici più efficaci è quello che nel Medioevo si chiamava l'"exemplum", vale a dire la presentazione di uno o più episodi ben caratterizzati, anche se naif, come nel caso del manzoniano "miracolo delle noci". Esattamente la tecnica delle parabole, adottata da Gesù per poter comunicare contemporaneamente al livello degli indotti, capaci di cogliere la "storia" e il senso morale (come applicarne l'insegnamento nel proprio modo di agire ) e a quello degli acculturati, in grado di comprendere il senso allegorico e trarne frutto intellettuale. Sembra sorprendente, ma uno dei fondatori del "Manifesto", "glorioso" giornale di intellettuali dissidenti dal PCI, a chi gli chiedeva chi fosse il miglior comunicatore da lui conosciuto rispose: "Gesù Cristo".
RispondiEliminaSolitamente le prediche che ascolto in Chiesa sono poco efficaci perchè il sacerdote si limita a tradurre il brano letto in concetti, sia pure a un livello di non estrema complicazione. Però così si finisce per restare a mezz'aria: discorso troppo astratto per gli uni, poco stimolante in quanto "scontato" per gli altri. Non riesco a comprendere perchè non vengano utilizzati in maggior copia riferimenti alla vita concreta: aneddoti, casi di vita, perfino riferimenti alla cronaca ( sia pure senza arrivare al gossip o alle invettive politiche variamente indirizzate a seconda degli orientamenti di chi parla ). Temo che i sacerdoti leggano poco romanzi e novelle e vedano pochi film, autentiche miniere per chi vuole conoscere i casi della vita quotidiana e gli intrichi psicologici in cui versa anche la gente comune. Piero Bargellini, scrittore cattolico che fu anche il sindaco di Firenze ai tempi dell'alluvione ( 1966 ) scrisse, mi pare, un "libro deglin esempi" : perchè non compilarne altri, più aggiornati e in gran numero?
Un elemento importante di questa "marcia verso la concretezza" sarebbe appunto l'introduzione di episodi della vita dei santi. Qui bisogna fare una notazione: i santi che piacciono, specialmente ai giovani, sono quelli tosti e coriacei, capaci di "lottare sul terreno". Io personalmente da piccolo fui conquistato dalla figura di don Bosco per il suo spirito sacrificio nello studio, nonostante la povertà della famiglia, e poi l'impegno a favore dei ragazzi disagiati, fra mille assilli economici e burocratici. Purtroppo oggi è largamente diffuso un francescanesimo di maniera, che fa del santo di Assisi una figura acquarellata, ecologista e animalista ante litteram, piuttosto hippy, sul genere del film di Zeffirelli, figurativamente e coloristicamente splendente, ma poco corrispondente alla durezza dell'autentica vita di san Francesco: così si vedo una santa Chiara fra "mille papaveri rossi", i fraticelli lieti ( più da beoti che da santi ) sotto un acquazzone da far venire polmonite e tubercolosi, diciamo quasi fossero sotto una calda doccia rigenerante, e nulla sulle stimmate e la cecità, che non saranno state pasticcini. In effetti il film si conclude al momento culminante della vita del santo: si incontrano Innocenzo III e un san Francesco seraficamente impegnato in un discorso assolutamente pelagiano sulla "originale bontà dell'uomo" contrapposta all'immagine negativa legata al peccato originale, in stile "postconciliarmente corretto", di fronte a cui il papa del "De contemptu mundi" scende dal trono come illuminato dall'idea dell'"apertura" e dell'"aggiornamento".
A me personalmente piacciono i santi di matrice tridentina, non tanto per tendenze nostalgiche, quanto per l'esempio di forza che danno: forza contro se stessi e forza contro il mondo ostile. Mi vengono qui in mente sant'Ignazio di Loyola con le sue mille peregrinazioni, San Camillo de Lellis, dedito alla cura dei malati, il Curato [...]