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martedì 17 novembre 2009

Echi tridentini: Luigi Meneghello (1922-2007) "Libera nos a malo"

Luigi Meneghello (1922-2007), scrittore anomalo, appartato, lontano dai successi mondani e dalle classifiche di vendita, è però (ormai) universalmente considerato fra le menti più lucide e le voci più sorprendenti della letteratura italiana del secondo Novecento. 
Nativo di Malo (nel Vicentino), partigiano un po’ sui generis (protagonista, nelle azioni e nelle narrazioni, di una resistenza del tutto estranea alla “vulgata” filocomunista), vissuto poi per più di trent’anni in Gran Bretagna come docente universitario, dichiaratamente agnostico e senza rimpianti palesi, pubblica il suo primo libro (per quanto mi riguarda, il suo capolavoro) nel 1963. 
Il titolo, Libera nos a malo, gioca fra la citazione del Pater noster e l’allusione al nome del paese natale (Malo, appunto). “Ironicamente e dolorosamente ambiguo”, per dirla con Domenico Porzio, parte da una ricognizione affettuosa dei suoi luoghi, la sua gente, il suo dialetto, e procedendo per analogie spesso sorprendenti giunge a delineare un ritratto lucido, partecipe e distaccato insieme, della condizione umana. Linguisticamente e foneticamente si presenta come un pastiche che fonde – con originalità e humour spesso irresistibile – la lingua nazionale col dialetto (anzi, le varianti di registro del dialetto), non senza deviazioni verso la sua nuova lingua, l’inglese, e – nel caso che qui direttamente ci interessa – il latino dei canti e delle preghiere dell’infanzia. 

 Rinviando tutti a una lettura integrale di Libera nos a malo, facilmente rintracciabile in Oscar Mondadori (collana Scrittori del Novecento), vorrei qui presentare quattro brani (alle pagine 100, 204-05, 212-13, 228-29 dell’edizione citata). 
Nel primo si fa riferimento al letamaio, necessario (e pericoloso) pozzo nero in cortile (il sistema fognario nei paesi era all’epoca di là da venire). 
Ne secondo si descrive deliziosamente la differenza delle Messe che venivano celebrate in una parrocchia, e della diversa tipologia dei fedeli (a seconda dell'orario) che vi partecipavano.
Nel terzo son riportate alcune parole dialettali che sarà bene tradurre: deàle, gùcia, bùcola e tacolìn stanno per ditale, ago, orecchino, portamonete. 
Nel quarto nomi e soprannomi apparentemente inverisimili ma verissimi impreziosiscono un tessuto fonetico curioso ed efficace.
*
«Libera nos a maluàmen. Non sono molti anni che il mio amico Nino s’è reso conto che non si scrive così. Gli pareva una preghiera fondamentale e incredibilmente appropriata: è raro che una preghiera centri così un problema. 
Liberaci dal luàme, dalle perigliose cadute nei luamàri, così frequenti per i tuoi figliuoli, e così spiacevoli: liberaci da ciò che il luàme significa, i negri spruzzi della morte, la bocca del leone, il profondo lago! Liberaci dalla morte ingrata: del gatto nel sacco che l’uomo sbatte a due mani sul muro; del cane in Piazzola a cui la sfera d’acciaio arroventata fuoriesce fumando dal sottopancia; del maiale svenato che urla in cima al cortile; del coniglio muto, del topo di chiavica che stride tra il muro e il portone nel feroce trambusto dei rastrellatori. 
Libera, Signore, i tuoi figli da questo luàme, dalla sudicia porta dell’Inferno!»
*
«Messa prima, messa del primo, messa granda, messa ultima. C’era anche una messa del fanci-ulo, ma ho l’impressione che l’avessero appena inventata, un’innovazione artificiosa. Invece le altre messe erano incorporate nelle strutture stesse della società, e facevano parte dell’ambiente come le ore del giorno e della notte. 
La messa del primo cadeva d’inverno tra la notte e il giorno, d’estate in quel margine luminoso del giorno quando il primo sole batte sulle imposte chiuse delle finestre e rallegra le strade vuote. Era la messa della gente che ha da fare: ranghi serrati delle madri di famiglia, figlie primogenite, osti e bottegai della vecchia generazione, famigliole devote e laboriose. 
La messa granda era per le famiglie di chiesa, per i puristi agiati del centro, per le frotte patriarcali dei contadini. (...) 
La messa ultima, alle undici, era la versione elegante per i borghesi del centro, signorine e giovanotti, coppie modernizzate, persone anziane non di chiesa, signori, autorità. (...) 
Ma la messa più bella era l’altra, la prima. Messa prima, nel grembo insonnolito della notte, la preistoria favolosa del tempo chiamato domenica. Le stelle fuori, i primi canti dei galli; dentro, la penombra dorata e l’alone giallo delle candele. Un piccolo popolo di fedeli, poveri, usi ai lavori duri; un prete forse rozzo anche lui, che predica poco e semplicemente. Una religione che viene prima del resto, e si alza coi braccianti, i montanari, le serve, la gente che comincia a lavorare all’alba.»
*
«C’erano le candele, le lampade fioche, i veli neri delle donne, l’acquasanta, le sedie impagliate, l’incenso, le cantilene, gli altari dei santi, il corpo nudo di Gesù ferito che baciavamo il Venerdì Santo, i paramenti dei preti, la bella lingua misteriosa di certe preghiere. Alcune sequenze parevano incantate: Turris davidica Turris eburnea Domus aurea Foederis arca Ianua coeli... 
Le cose di questa religione si associavano con le altre cose della vita, l’autunno brumoso, il freddo di Natale, l’arsura dell’estate; le campane indicavano, oltre che le ore del giorno, l’ora di bagnarsi gli occhi alla pompa in corte contro la cecità, l’ora di bere un dito di vino bianco contro i morsi dei serpenti in primavera, e l’ora di riunirsi per il Terzetto dei Morti in cucina dalla nonna. I grandi si mettevano in cerchio, le luci erano basse, la pignatta delle castagne cotte fumava sul focolare. (...) 
L’incantevole e il divertente si alternavano, specie nel culto dei Santi, con le loro diverse personalità e abilità. Era molto potente presso di noi Sant’Antonio, persona ordinata e di buona memoria, che faceva trovare la roba a chi la perdeva. Occorreva però un intermediario che conoscesse bene l’incantagione necessaria a farlo intervenire. Si chiamava i sequèri. Mia zia Lena la conosceva benone: si aggirava per la stanza recitando: “Sequèri miràcula...” e tutto il resto, con intensa concentrazione; e alla seconda o alla terza volta Sant’Antonio era costretto a tirar fuori deàle o gùcia, bùcola o tacolìn.»
*
«Quando venne qui la Madonna pellegrina, la portarono poi a Marano in processione notturna. Tra qui e Marano c’è campagna, con strade strette e sinuose che scendono nei torrenti, Proa, Timonchio, Jòlgora. Intorno, i campi che paiono sterminati, dove a cento metri dalla strada ci si sente in una campagna arcaica e inesplorata, fuori dal mondo delle carte topografiche e delle strade asfaltate. La processione sfilava al lume delle fiaccole, e i contadini cantavano: Parce Domine! Parce populo tuo! Pareva che i Roàn, i Rana, le Marie Scusèle, le Gègie Cane supplicassero davvero il Signore di risparmiarci. Parce populo tuo! Ne in aeternum irascaris nobis! Non stare arrabbiato con Sgualdo, con Vacaretto, con Pométi bèi! Risparmia il tuo piccolo popolo di Malo in marcia verso Marano, in mezzo alla buia campagna!» 

[“Libera nos a maluàmen” è naturalmente la riduzione popolaresca della conclusione del Pater noster in latino. Ma non sfugga, nel secondo capoverso, l’adattamento delle metafore che caratterizzano l’offertorio della Messa dei Defunti: “De ore leonis” e “De profundo lacu”.] 

 [Nel terzo brano vengono riprese alcune delle litanie della Madonna, recitate in chiusura del Santo Rosario. Ma interessante mi pare soprattutto il riferimento al “sequeri”, filastrocca popolare utilizzata per sette secoli nella società contadina come formula per ritrovare oggetti smarriti (ma non solo: per ritrovare la fede, ad esempio; o la salute, o la grazia di Dio). Lo strano nome deriva dall’incipit di un responsorio dedicato a Sant’Antonio da Padova, scritto intorno al 1235 dal beato Giuliano da Spira. Eccone il testo originale e una traduzione italiana: «Si quaeris miracula mors, error, calamitas, demon, lepra fugiunt aegri surgunt sani. Cedunt mare, vincula; membra, resque perditas, petunt et accipiunt juvenes et cani. Pereunt pericula, cessat et necessitas, narrent hi qui sentiunt, dicant Paduani. Cedunt mare, vincula… Gloria Patri… Cedunt mare, vincula… »

(Se cerchi i miracoli, ecco messi in fuga la morte, l’errore, le calamità e il demonio; ecco gli ammalati divenir sani. Il mare si calma, le catene si spezzano; i giovani e i vecchi chiedono e ritrovano la salute e le cose perdute. S’allontanano i pericoli e scompaiono le necessità: lo attesti chi ha sperimentato la protezione del Santo di Padova.)]
[Nell’ultimo brano viene riportato il testo di un bellissimo canto processionale gregoriano, eseguito soprattutto in tempo di Quaresima, e in particolare nel corso delle Rogazioni di primavera.]
Giuseppe

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