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mercoledì 8 aprile 2009

Intervista a don Nicola Bux


- Professor Bux, può definire, in poche parole, che cosa si deve intendere per Liturgia?
La Sacra Liturgia è un annuncio, che ha cambiato la mia vita ed ha da dire qualcosa anche alla sua. L’attrattiva della Bellezza è il percorso ragionevole alla Verità. La Bellezza è lo splendore della Verità. Facciamo un sillogismo: siccome la sacra e divina liturgia – che include arte e musica sacra – è Bellezza, senza Verità non c’è liturgia, culto a Dio. Se vogliamo è Gesù che lo ricorda nel vangelo di san Giovanni: “I veri adoratori, adoreranno il padre in spirito e verità”. Ma per trovare la Verità bisogna conoscere le creature. Per capire la liturgia bisogna guardare alla direzione in cui essa stessa guarda, indica, non obbliga, come Gesù che non ci obbliga a fare, però ci guida. E allora saremo felici e sicuri. Seguire questo è convertirsi. Seguendo la sacra liturgia, ad un certo punto i riti e i simboli spariranno, svelando il significato; il Mistero penetrerà allora in tutte le direzioni:sarà il cielo sulla terra, la rappresentazione del Paradiso.

-Quale posto occupa la tradizione nella Liturgia?
Mi è semplice rispondere: la tradizione sta alla Liturgia come le radici alla pianta. La tradizione si occupa del passaggio della verità attraverso la forma. Infatti, l’uomo, e quindi la Chiesa, si è interrogata nei secoli sul come celebrare il culto, cercando di riflettere in esso un barlume della bellezza infinita del Creatore e, inoltrandosi nei misteri di Dio, non può che vivere la bellezza come verità, non può vivere se non in maniera dinamica la forma. E siccome questa esprime la bellezza, in quanto verità, senza verità non c’è culto e non c’è Dio. L’oggettività della bellezza è direttamente legata alla verità. La verità si è fatta carne. Quindi, per conoscere la verità, bisogna conoscere le creature. Certamente, il limite della creatura, che tende all’Infinito, in un processo ascetico, non si porta a compimento su questa terra. Qui, sulla terra, se ne intravedono i bagliori e già quando questo avviene, basta per essere folgorati. Guardi, se la Liturgia fosse fatta di riti, di gesti e di carne – come disse Benedetto XVI nella Via Crucis del 2005 – sarebbe solo un’evasione, una cabala, “una danza vuota attorno al vitello d’oro che siamo noi stessi”.

-Lei parla nel libro di arte e di musica legati al luogo di culto. Perché?
C’è un grande nesso tra fede e arte. Gli artisti spesso intuiscono quel che è intraducibile dell’infinita bellezza dello spirito creatore. Loro dipingono, scolpiscono e traducono in musica solo ciò che è un barlume di quello splendore, che è balenato per qualche istante davanti agli occhi dello spirito. Di quest’esperienza, il credente non si meraviglia. Egli sa di essere affacciato per un attimo su quell’abisso di luce che in Dio ha la sua sorgente principale. Non si dispiace, anzi, ne gioisce. Ecco perché i veri artisti sono pronti a riconoscere i propri limiti e a riconoscersi nelle parole di Paolo, secondo il quale “Dio non dimora nei templi costruiti dalle mani dell’uomo”. Questo significa che la bellezza, nell’anima del credente, si coniuga al vero e, così, la via dell’arte, consente alle anime di essere rapite dal mondo sensibile all’eterno. Chiunque ascolti un’antifona gregoriana, non può che soggiacere alla bellezza della sua cristallina struttura. In essa si esprimono, nella costruzione musicale, i gradini che l’anima percorre nell’ascesi a Dio. E, nella coscienza di ciò, conosce la profondità più intima dell’essere pensante. Insomma, l’arte nella Liturgia non riecheggia solo la rivelazione di Dio in Gesù Cristo, ma Cristo stesso rivela, nel Suo quotidiano sacrificio sull’altare, l’uomo all’uomo.

-Che cosa intende per riforma della Liturgia?
La Liturgia è un processo vitale e dinamico, che non può essere ri-formato. E’ un processo vivo, ineluttabile, necessario. Ecco il vero senso della ri-forma, che non è una sorta di ri-formulazione, ma è un processo continuo. Ecco perché la Liturgia si muove, non sta mai ferma. Il compito di trasmettere qualcosa da una generazione all’altra, non è proprio, forse, nella tradizione? Il Concilio Vaticano II ha ordinato una riforma dei libri liturgici, ma non ha proibito i precedenti. Ciò sarebbe estraneo allo spirito stesso della Chiesa. Il concesso stesso di tradizione, spesso è concepito in maniera errata. La tradizione, in realtà, è il passaggio della verità attraverso la forma.

-Che cosa connota in modo sostanziale la Liturgia?
La verità, il Mistero, che rinnova continuamente la Liturgia. L’azione umana si esplica nel rendere gli strumenti umani docili al Mistero. Benedetto XVI fece questo esempio: talvolta il restauratore di un dipinto, con il proposito ottimo di restaurarlo, aggredisce l’opera e ne stravolge perfino l’assetto. La Liturgia deve consentire all’uomo di coltivare il suo stupore. E’ dallo stupore che nasce la fede, il senso del mistero, che è l’humus della fervente preghiera.
Quale segno più alto è lo sguardo del celebrante alla Croce. Il popolo di Dio, di riflesso, guarderà dove il sacerdote guarda e questo sguardo diverrà collettivo e si sposerà ad un cosmo che tutto genuflesso si prostrerà davanti a Dio, che si fa pane di Vita Eterna.

-Qual è, quindi, il compito del sacerdote nella Liturgia?
E’ il sacerdote stesso che lo dice: “Ti ringraziamo, Signore, per averci ammessi alla tua presenza a compiere il servizio sacerdotale”. Un volta, il sacerdote doveva dire alcune preghiere prima della Messa, doveva lavarsi le mani, dire ancora preghiere prima di indossare ogni indumento sacro.
Tutto questo non è stato abolito, è stato accantonato. Il sacerdote è chiamato ad esprimere la sua relazione e quella della comunità con Dio. Egli è un ponte e, come tale, deve rimanere umile e soprattutto cosciente che celebrando l’Eucaristia partecipa al mistero “che era fin da principio”.
A mio parere, il sintomo evidente della de-formazione della Liturgia è dato dalla diversa posizione del sacerdote nella seconda parte della messa. A differenza di tutti riti orientali che sin dall’antichità l’hanno conservata tuttora. Il primato, quando si partecipa alla Liturgia, deve essere dato a Dio. E’ Suo il primato; è Egli stesso che dice: “Non siete voi che avete scelto me, ma io che ho scelto voi”. La Liturgia deve considerare che c’è un ‘prima’, che è Cristo, il Verbo che si è fatto carne. Santa Teresa d’Avila diceva che la preghiera non inizia se non ci accorgiamo della sua Presenza.

-Il Concilio insiste sulla partecipazione dei fedeli. Come dobbiamo intenderla?
Diceva Maria Callas che, in un contesto in cui non c’è rispetto per la sacralità dell’arte, non avrebbe potuto eseguire un’opera lirica. Questo rispetto del sacro dobbiamo intenderlo come devozione. Mi spiego: è questa una parola dannata all’oblio e confusa con il devozionismo. Significa, invece, la dedizione dell’essere umano a Dio, che culmina nell’offerta di sé, della propria vita. San Paolo la descrive come “offrire i propri corpi in sacrificio vivente”. Il corpo sta ad indicare la persona. Il sacrificio, per gli ebrei, consisteva nell’atto dello sgozzamento delle vittime animali: una cosa sacra, perciò sacrificio. L’Apostolo, ora, dice che il sacrificio non è più questo, ma l’offerta totale di se stesso a Dio, che include mente e cuore, parola e vita, perciò lo chiama – nell’originale greco – loghikè latrìa, cioè culto razionale, che coinvolge la caratteristica fondamentale dell’essere, che è la ragione. Questa è la devozione vera, a cui deve giungere la partecipazione di cui tanto si parla per i fedeli; ma innanzitutto il prete deve celebrare con devozione, guardando e pensando a Colui che è stato trafitto per dare la vita. Questo libro, spero di averlo scritto mosso da sincera devozione e al fine di indicare a molti a fare altrettanto.

-E’ importante, quindi, la forma, nella Liturgia?
Se il bello è lo splendore del Vero – lo dice Sant’Agostino – la Liturgia non può essere che una celebrazione del Vero: è vivere il Mistero della presenza di Dio in una realtà fisica. Allora, tutto, durante la celebrazione della Santa Messa, deve riecheggiare questa Bellezza, deve orientarsi alla Suprema Croce del Salvatore. E’ proprio dalla Croce, nel momento in cui Dio si china sul Figlio, che si è fatto “peccato” – come dice San Paolo – lì e solo da lì inizia la Redenzione. Ecco perché è importante la centralità della Croce sull’altare e lo sguardo nella preghiera ad essa rivolto.

-Perché il Papa scrive il Motu Proprio?
Il nostro Santo Padre, con questo atto, consente ai figli della Chiesa che desiderino esprimere il culto con l’antico rito che è giusto chiamare, come fa Martin Mosebach, gregoriano, la possibilità di farlo liberamente. Cosa peraltro mai negata dal Concilio Vaticano II. E’ sintomatico che il defunto patriarca ortodosso di Mosca, all’indomani della pubblicazione del Motu proprio, abbia plaudito dicendo che il ripristino della tradizione, avvicina i cristiani tra loro.
Questo esprime la grande liberalità con cui agisce Benedetto XVI, nel vero e unico spirito di reale ecumenismo……nel solco della figliolanza alla Santa Madre Chiesa. Il vero paradosso è che quest’atto liberale venga interpretato come sopruso. Ci sarebbe da chiedersi: i liberali, oggi, sono intolleranti e reazionari? La riabilitazione dell’antico rito serve a ridar vigore al nuovo che si inaridirebbe senza l’antico. Per comprendere questo, basta leggere il Discorso di Benedetto XVI alla Curia Romana sulla continuità del Concilio con la tradizione (22 dicembre 2005).

-E’ in corso una “battaglia” sulla Liturgia?
Se c’è stata una “battaglia” sulla Liturgia – che ancora oggi è terreno di scontro – evidentemente qualcosa di sostanziale nel tempo è mutato. E’ una situazione da riequilibrare e le due forme liturgiche devono trovare oggi conciliazione. Ricordiamo quanto scriveva Benedetto XVI nel Discorso ai Vescovi francesi del 14 settembre 2008: “Il culto liturgico è l’espressione più alta della vita sacerdotale ed episcopale, come anche dell’insegnamento catechetico. Nel ‘Motu Proprio’ Summorum Pontificum sono stato portato a precisare le condizioni di esercizio di tale compito, in ciò che concerne la possibilità di usare tanto il messale del Beato Giovanni XXIII quanto quello di Paolo VI. Alcuni frutti di queste nuove disposizioni si sono già manifestati, e io spero che l’indispensabile pacificazione degli spiriti sia, per grazia di Dio, in via di realizzarsi”.

Dossier a cura di Danilo Quinto - Agenzia Fides 7/4/2009; via Papa Ratzinger blog

2 commenti:

  1. Risposta di alcuni liberali interrogati sul punto: i liberali sono intolleranti con chi è intollerante; per esempio non danno le chiese ai lefebvriani perché sanno che i lefebvriani, al posto loro, non darebbero le chiese ai progressisti.
    Sed contra: non tutti i tradizionalisti sono intolleranti, mentre lo sono senz'altro i liberali che non tollerano tutti i tradizionalisti (inclusi, cioè anche quelli tolleranti).

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  2. Bell'intervento. Ma allora non avevamo noi ragione quando asserivamo che più opportuno (e semplice) sarebbe ripristinare gli altari originari anziché traslare croce e cendele sulla nuova mensa?

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