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giovedì 2 marzo 2023

“L’Eglise, c’est moi!” Parola di Francesco #traditioniscustodes

Interessanti riflessioni pubblicate da Aldo Maria Valli.
"la celebrazione della messa secondo il Messale Romano del 1962 diventa, a seguito del rescritto, una faccenda riservata della Santa Sede, come se si trattasse della decisione circa un caso di violazione del sigillo sacramentale o di profanazione delle specie eucaristiche o di qualche altro grave delitto. Per cui, per intenderci, se il parroco di una parrocchia di periferia del Regno, tipo Timbuctù, chiedesse al suo vescovo di poter celebrare in forma straordinaria, di questa faccenda se ne dovrebbe occupare la Santa Sede (quasi che questa non abbia nulla di più importante da fare che decidere della celebrazione di una messa), reputandolo – evidentemente – un affaire che coinvolge la materia di fede o di costumi e, quindi, il bene stesso della Chiesa!".
Luigi

27-2-23
di Francesco Patruno*

È comunemente attribuita a Luigi XIV, il Re Sole, sovrano di Francia, la celebre espressione “L’État, c’est moi!”. Si discute presso gli storici se il Re l’avesse mai pronunciata. Proferita o no, essa esprimeva l’idea di un fatto e cioè che lo Stato si identificasse con la persona del Re. Una convinzione dura a morire se pensiamo che un De Gaulle, ancora nel XX sec., affermava “Je suis la France“.
Ora, spostandoci sul piano ecclesiastico, parafrasando la celebre frase che abbiamo ricordato, Francesco può ben dire che “L’Eglise, c’est moi!”. E questo con buona pace per i ventilati principi di sinodalità, di sussidiarietà e di compartecipazione.
L’ultimo motu proprio promulgato dal Vescovo di Roma nella domenica di Carnevale (20 febbraio scorso) e pubblicato nella giornata di giovedì, dal titolo Il diritto nativo, s’inquadra in questa decisa volontà di Francesco di accentrare nelle sue mani ogni decisione.

È pur vero che lo stesso, già nella sua enciclica Laudato sì, ventilava il progetto di subordinare ogni proprietà privata alla destinazione universale dei beni della terra e quindi il recente m.p. Il diritto nativo, ben si collocherebbe in questa prospettiva bergogliana. Si legge nel motu proprio: «La destinazione universale dei beni della Santa Sede attribuisce ad essi natura pubblica ecclesiastica. Gli enti della Santa Sede li acquisiscono e utilizzano, non per loro stessi, come il privato proprietario, ma, nel nome e nell’autorità del Romano Pontefice, per il perseguimento delle loro finalità istituzionali, del pari pubbliche, e quindi per il bene comune e a servizio della Chiesa Universale» Ed ancora: «I beni sono affidati alle Istituzioni e agli Enti perché, quali pubblici amministratori e non proprietari, ne facciano l’uso previsto dalla normativa vigente […], sempre per il bene comune della Chiesa» (§ 3).
Si tratterebbe di un principio, in fondo, corretto a questo riguardo e cioè che i beni temporali sono strumentali al perseguimento delle finalità della Chiesa e, quindi, del bene comune della stessa.

Così come, altrettanto corretto è il principio espresso sin dall’esordio del motu proprio, secondo cui «[i]l diritto nativo, indipendente dal potere civile, della Santa Sede di acquistare beni temporali (CJC c. 1254 e 1255) è uno degli strumenti che, con il sostegno dei fedeli, una prudente amministrazione e gli opportuni controlli, assicurano alla Sede Apostolica di operare nella storia, nel tempo e nello spazio, per i fini propri della Chiesa e con l’indipendenza che è necessaria per l’adempimento della sua missione».
Principi questi ben noti alla storia del diritto della Chiesa. Si deve, in effetti, al celebre Sinibaldo dei Fieschi, giurista destinato a salire al soglio pontificio col nome di Innocenzo IV, la convinzione che proprietari dei beni temporali della Chiesa non sarebbero né i vescovi né il clero in generale, il cui compito sarebbe limitato alla gubernatio del patrimonio. E neppure, a rigore, i poveri, giacché la loro titolarità sarebbe da intendersi “quo ad substentationem”. Per Sinibaldo, la proprietà sarebbe di Cristo, e, quindi, di tutta la aggregatio fidelium di cui Egli è capo, vale a dire la Chiesa universale. Le successive elaborazioni si sono sviluppate su questo solco.

Sotto questo rispetto, dunque, nihil novum sub sole.

I punti che invece, più di altri, manifestano la volontà accentratrice di Francesco e appaiono in distonia con i suoi ventilati principi di sinodalità, sussidiarietà, compartecipazione e corresponsabilità sono i primi due paragrafi del motu proprio che così si esprimono:

«Tutti i beni, mobili e immobili, ivi incluse le disponibilità liquide e i titoli, che siano stati o che saranno acquisiti, in qualunque maniera, dalle Istituzioni Curiali e dagli Enti Collegati alla Santa Sede, sono beni pubblici ecclesiastici e come tali di proprietà, nella titolarità o altro diritto reale, della Santa Sede nel suo complesso e appartenenti quindi, indipendentemente dal potere civile, al suo patrimonio unitario, non frazionabile e sovrano» (§ 1).

«Nessuna Istituzione o Ente può pertanto reclamare la sua privata ed esclusiva proprietà o titolarità dei beni della Santa Sede, avendo sempre agito e dovendo sempre agire in nome, per conto e per le finalità di questa nel suo complesso, intesa come persona morale unitaria, solo rappresentandola ove richiesto e consentito negli ordinamenti civili» (§ 2).

Queste disposizioni esplicitano quanto era già stato anticipato dallo stesso Francesco con il precedente m.p. Sulle Persone giuridiche strumentali della Curia Romana dello scorso 5 dicembre, in cui si leggeva: «Benché tali enti abbiano una personalità giuridica formalmente separata ed una certa autonomia amministrativa, si deve riconoscere che essi sono strumentali alla realizzazione dei fini propri delle Istituzioni curiali al servizio del ministero del Successore di Pietro e che, pertanto, anch’essi sono, se non diversamente indicato dalla normativa che li istituisce in qualche modo, enti pubblici della Santa Sede. Poiché i loro beni temporali sono parte del patrimonio della Sede Apostolica, è necessario che essi siano sottoposti non solo alla supervisione delle Istituzioni curiali dalle quali dipendono, ma anche al controllo e alla vigilanza degli Organismi economici della Curia Romana».

Spiega Carlo Marroni su Il Sole24Ore in un articolo dello scorso 24 febbraio: «La questione, di per sè, non avrebbe bisogno neppure di essere chiarita: un palazzo o un deposito bancario appartengono alla Santa Sede – governo della Chiesa Universale – e non a quell’ente o quell’ufficio. Se il Papa è dovuto intervenire evidentemente (ma anche questo era noto) così non è stato. Ogni dicastero o Ente collegato si è tenuto ben stretto il suo tesoretto, con gestioni spesso confusionarie o peggio, come accaduto per la Segreteria di Stato con l’immobile di Londra. Il Papa ormai quasi due anni fa ha stabilito che tutte le disponibilità finanziarie – stimate in circa 2 miliardi complessivi – dovessero essere trasferite all’Apsa, e questa le avrebbe fatte gestire – sotto precise direttive contemplate in un Documento di Politica di Investimenti della Santa Sede e dello Stato Città del Vaticano, approvato la scorsa estate. Ma questi trasferimenti non ci sono stati, solo la Segreteria di Stato ha provveduto, e neppure subito».

È indubbio che, nel corso del tempo, i vari Dicasteri di Curia, così come gli enti collegati alla Santa Sede, benché la proprietà potesse appartenere a quest’ultima, spesso e volentieri avevano generato quelli che il giornalista chiama “tesoretti”, la cui amministrazione aveva dato talora luogo a gestioni poco trasparenti ed opache.

I casi dell’acquisto dell’immobile londinese o quello relativo al collasso finanziario dell’Istituto Dermopatico dell’Immacolata (IDI) sono esemplari in questo frangente.

Tuttavia, non si può non ravvisare il risvolto della medaglia.

Una siffatta rivendicazione accentratrice della Santa Sede, in effetti, vista la mole di beni, mobili ed immobili, comprese le disponibilità finanziarie, rischia di trasformarsi in un vero e proprio sistema gestorio non dissimile, a ben vedere, da quello proprio del feudalesimo di epoca medievale. Con tutti i profili problematici di quel sistema, che ne segnarono la crisi. Ricordo a questo proposito che il vassallo otteneva dal suo signore il feudo o beneficio di cui non diveniva proprietario, ma mero amministratore, potendone trarre le utilità che il sovrano gli aveva riconosciuto. Ma quel sistema che, pur all’inizio funzionò piuttosto bene, cominciò a manifestare delle crepe sino poi ad infrangersi, dal momento che dette luogo – a lungo andare – o a rivendicazioni di proprietà del vassallo o al disinteresse di questi nella buona amministrazione del feudo (salvo per quel che riguardava il proprio particolare interesse).

A mio convincimento, forse, sarebbe stato più opportuno disporre misure per un efficientamento dei controlli, che pur erano stati fissati nel m.p. del 5 dicembre scorso.

Tra gli enti collegati alla Santa Sede, peraltro, suscettibili di rientrare nel motu proprio del 20 febbraio, bisognerà annoverare probabilmente anche il Sovrano Militare Ordine di Malta, dal momento che si tratta di un ordine religioso-cavalleresco canonicamente alle dipendenze della Santa Sede? È vero che l’ordine è “Sovrano” per antico privilegio di papa Pasquale II (anche se a seguito della nuova Costituzione lo sarebbe di meno: v. qui), ma è pur sempre un ente dipendente dalla Santa Sede e, quindi, collegato a questa. Ed il m.p. espressamente si riferisce anche ai beni degli “Enti Collegati alla Santa Sede”. Non è chiaro, quindi, se lo S.M.O.M. rientrerà nell’applicazione di quel m.p. ovvero ne sarà esentato in ragione del suo statuto speciale.

Ma questo è solo uno degli aspetti, che dovrebbe essere chiarito.

Dicevo che questo provvedimento si colloca nel più generale solco di accentrato portato avanti da Francesco durante il suo regno.

Basti pensare alla recente Cost. ap. In ecclesiarum Communione dello scorso 6 gennaio, con la quale è stata ridisegnata la struttura del Vicariato di Roma. A titolo esemplificativo, mentre la precedente normativa del 1998 di Giovanni Paolo II, Ecclesia in Urbe, stabiliva all’art. 25 § 2 che «I Direttori di tutti gli Uffici, come i Parroci della Diocesi di Roma, sono nominati dal Cardinale Vicario previa mia approvazione; i Vicedirettori e gli altri Addetti sono nominati dal Cardinale Vicario», oggi, la nuova Costituzione francescana all’art. 19 § 2 indica un complesso iter per la nomina dei parroci che vede a coronamento la circostanza che «[i]l Cardinale Vicario, compiuto l’iter, mi sottopone per l’eventuale nomina i candidati all’ufficio di Parroco, e nomina i Viceparroci». Se, per la nomina dei parroci di una parrocchietta romana di periferia deve intervenire direttamente il Vescovo di Roma, a fronte della circostanza che in precedenza questa era effettuata dal Cardinal Vicario previa approvazione papale, si ha chiara la percezione di quell’accentramento di cui si diceva.

Sempre nello stesso sentiero accentratore, può leggersi il recente rescritto ex audientia del 21 febbraio scorso sulla celebrazione della messa in forma straordinaria. Mentre nella Lett. Ap. Traditionis Custodes del 2021, si attribuiva all’art. 2 alla «esclusiva competenza» del Vescovo diocesano, in qualità di «moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata», di «autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica» e si riservava alla Santa Sede il potere di esprimersi circa la facoltà dei presbiteri ordinati dopo la pubblicazione della Lettera Apostolica di poter celebrare la messa in forma straordinaria, il nuovo rescritto ha stabilito che costituisce una «dispensa riservata alla Sede Apostolica»:«l’uso di una chiesa parrocchiale o l’erezione di una parrocchia personale per la celebrazione eucaristica» informa straordinaria;
«la concessione della licenza ai presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del Motu proprio Traditionis custodes di celebrare» in rito antico ed, addirittura, con una disposizione innovativa rispetto allo stesso testo della Traditionis Custodes, «[q]ualora un Vescovo diocesano avesse concesso dispense nelle due fattispecie sopra menzionate è obbligato ad informare il Dicastero per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti che valuterà i singoli casi».

Insomma, la celebrazione della messa secondo il Messale Romano del 1962 diventa, a seguito del rescritto, una faccenda riservata della Santa Sede, come se si trattasse della decisione circa un caso di violazione del sigillo sacramentale o di profanazione delle specie eucaristiche o di qualche altro grave delitto. Per cui, per intenderci, se il parroco di una parrocchia di periferia del Regno, tipo Timbuctù, chiedesse al suo vescovo di poter celebrare in forma straordinaria, di questa faccenda se ne dovrebbe occupare la Santa Sede (quasi che questa non abbia nulla di più importante da fare che decidere della celebrazione di una messa), reputandolo – evidentemente – un affaire che coinvolge la materia di fede o di costumi e, quindi, il bene stesso della Chiesa!

O, infine, si pensi anche alla Lett. Ap. Authenticum Charismatis del 2020, con cui si è reso vincolante il parere – in passato consultivo – della Sede Apostolica nel riconoscimento di nuove comunità di vita consacrata in ambito diocesano.

Tutti questi provvedimenti sono esemplificativi di come Francesco, pur tediandoci sulla sinodalità, sulla compartecipazione, sussidiarietà, ecc., di fatto disattenda quelle sue stesse indicazioni, adottando, al contrario, provvedimenti di chiaro stampo accentratore. Ho esemplificato alcuni provvedimenti di questi ultimi anni, ma ne potrei citare anche altri, visto che si tratta ormai di un chiaro orientamento del regno di Francesco. Il Vescovo di Roma, alla fin dei conti, può dirsi piuttosto tradizionalista, se non addirittura, indietrista, da questo punto di vista: quando si tratta di accentrare poteri e decisioni, non esita a riesumare forme e strumenti del passato. Chapeau.

*dottore di ricerca in scienze canonistiche ed ecclesiastiche