Io,
Benedetto XVI e l’autodemolizione dell’Occidente
Nostra
intervista esclusiva a Marcello Pera
a cura di don Samuele Cecotti
Con la morte di Benedetto XVI, non solo ci lascia un fine teologo e un grande intellettuale europeo, ma si chiude un’epoca, quella del Concilio Vaticano II (e del travagliato post-Concilio) e forse si chiude anche l’età della Chiesa come anima di una civiltà. Con san Silvestro I la Chiesa divenne l’anima dell’Impero Romano dalla Britannia all’Egitto, dalla penisola iberica alla Siria, dall’Atlantico al Mar Nero, oggi la Chiesa guidata da Jorge Mario Bergoglio ha completamente rinunciato all’idea di plasmare, informare e guidare una civiltà. L’idea stessa di societas christiana o di Civiltà Cristiana è estranea alla deriva teologico-ideologica e pastorale incarnata dal pontificato di Francesco che pare anzi proporre il paradigma inverso con il mondo, sociologicamente inteso, elevato a luogo teologico a cui conformare Chiesa, dottrina e predicazione.
Joseph
Ratzinger, invece, come teologo e Cardinale prefetto della Congregazione per la
Dottrina della Fede, poi come Romano Pontefice, ebbe sempre a cuore l’identità
cristiana dell’Europa e della Magna Europa, non si arrese mai all’idea che la
Civiltà Cristiana fosse da archiviare come cosa superata, sempre intese
ribadire l’inseparabilità di fede e ragione, di fede e cultura, dunque il
necessario farsi civiltà del Cristianesimo.
Molto
caro al pensatore Ratzinger fu il provvidenziale incontro tra la Divina
Rivelazione e il logos greco (e il ius romano) ovvero tra la
Parola di Dio e la speculazione razionale classica capace di raggiungere le
vette della metafisica così come il rigore della dialettica e della logica
analitica, la legge morale naturale e una verace antropologia-psicologia.
Ratzinger si oppose con forza al processo di de-ellenizzazione del
Cristianesimo in atto da più di mezzo secolo nella Chiesa, ribadì anzi la
provvidenzialità dell’incontro tra classicità greco-romana e Rivelazione
biblica, incontro da cui nacque la Civiltà Cristiana.
Sul piano
morale e politico Ratzinger-Benedetto XVI denunciò il male del nichilismo che
corrode l’Occidente moderno e post-moderno, indicò nella dittatura del
relativismo la forma di un nuovo subdolo totalitarismo, insegnò con forza la
non negoziabilità (non solo sul piano morale personale ma anche su quello
pubblico giuridico e politico) di principi naturali quali la difesa della vita
umana dal concepimento alla morte naturale, il riconoscimento del matrimonio
come unione monogamica e indissolubile di un uomo e una donna aperta alla vita,
la libertà educativa dei genitori che hanno, da Dio, loro (e non lo Stato) il
compito di educare la prole. Rigoroso e forte anche il rifiuto che Ratzinger
oppose all’ideologia gender e alla pretesa di legittimare moralmente e riconoscere
giuridicamente le unioni omosessuali.
In questa
generosa e grandiosa opera, in questo intellettualmente possente tentativo di
arrestare il crollo della Civiltà Cristiana, di puntellarne le mura e di
iniziarne la ricostruzione, Ratzinger cercò sempre il dialogo con la cultura
europea e nord-americana più sensibile anche se non-cattolica. Ratzinger cercò
di costruire una proficua interlocuzione con il mondo laico e non-cattolico
sulla base di un comune amore per la verità, la giustizia e la Civiltà occidentale.
In questo quadro si inserisce l’incontro, il confronto, il dialogo e l’amicizia
con Marcello Pera, illustre filosofo e politico liberale italiano.
Al
senatore Marcello Pera, ringraziandolo per la generosa disponibilità,
rivolgiamo così alcune domande per meglio capire cosa Ratzinger abbia
rappresentato rispetto alla cultura europea e occidentale, dunque quale sia il
vuoto che la morte di Benedetto XVI lascia nella Chiesa e in Occidente.
Presidente
Pera, in Italia pochi intellettuali laici possono dire di aver conosciuto e
apprezzato Benedetto XVI come lei. Come nacque il vostro rapporto e cosa la
colpì del Ratzinger pensiero?
L’incontro
nacque proprio da ciò che mi aveva colpito in lui. Coltivavo studi
epistemologici (era la mia disciplina accademica) e avevo sempre avversato le
idee nelle quali, dopo una lunga parabola cominciata col neopositivismo logico,
era infine precipitata la filosofia della scienza dopo Popper. Ad esempio, la
tesi che la scelta dei grandi paradigmi scientifici non dipende in modo
decisivo da prove specifiche ma è frutto di un processo di “conversione”, che
la verità delle grandi idee scientifiche, ad esempio quelle di Galileo
confrontate con quelle di Tolomeo, è interna a ciascuna di esse perché dipende
da criteri contestuali, che i paradigmi sono perciò incommensurabili, perché
due scienziati entro due paradigmi diversi lavorano in due “mondi diversi”,
eccetera. Insomma, mi era familiare il problema del relativismo. Un giorno
dell’agosto 2004, lessi il libro Fede, verità, tolleranza di Joseph
Ratzinger, pubblicato da Cantagalli, e feci una scoperta che per me,
evidentemente ignorante di quel genere di studi, fu scioccante: che il
relativismo era una corrente di pensiero diffusa anche nella teologia
cristiana. L’autorevolezza di Ratzinger, di cui avevo letto come tanti la sua Introduzione
al cristianesimo, non mi fece dubitare che avesse ragione. Ne fui stupito e
turbato: come era possibile? Che cosa era successo, nella religione del Verbo
rivelato e incarnato, perché la verità non fosse più assoluta? Al rientro dalle
vacanze, feci altre letture e chiesi visita a Ratzinger, allora Prefetto della
Congregazione per la Dottrina della Fede. Dopo aver incontrato in un piccolo
salottino un giovane biondo che allora era il suo segretario, entrai nel suo
studio, che ricordo essere meno della metà del mio in Senato. Cominciammo a
parlare senza tanti preamboli o presentazioni, di filosofia, teologia,
cristianesimo. Ricordo gli argomenti, ma soprattutto i toni dell’interlocutore,
la sua figura, il suo garbo gentile e in particolare il suo sguardo mi
impressionarono. In vita mia, avevo avuto rapporti di familiarità con figure
come Popper, Kuhn, Feyerabend, ma benché ne avvertissi l’autorevolezza, nessuno
di loro mi aveva mai impressionato allo stesso modo. Non ebbi dubbi: Joseph
Ratzinger era un grande. Non solo perché ne sentivo la vastità e profondità
della cultura, ma per un tratto assai più prezioso: un uomo che sa stare al pari
degli altri, che discute e interroga, senza toni di cattedra. Gli occhi non
tradivano. Il sorriso non mentiva.
Restava
un problema, tuttavia. Storicamente, sono un uomo della modernità: vengo dopo
lo scisma protestante, la nascita della scienza sperimentale, il cogito
di Cartesio, l’Io di Kant, eccetera. E modernità vuol dire ragione. Anche se
non sono disposto a considerarla “l’unica nostra regola e compasso”, come
diceva Locke, non c’è dubbio che la ragione è esigente: non può ammettere
qualcosa che le sia contrario. Deve comunque dire la sua. Per capirci con un
esempio (è di Kant): anche se una voce interna, prepotente, mi dicesse: “Io
sono il tuo Dio, seguimi!”, la ragione deve avere un modo per accertarlo, o più
precisamente per accertarsi che non sia la voce di un maligno. Dunque, la mia
fede deve andare d’accordo con la mia ragione. Dopotutto, se Dio mi ha fatto
dono di entrambe, deve esserci un modo —
nascosto, difficile, faticoso quanto si vuole —, per
conciliarle. E anche qui Ratzinger è stato grande: nel suo pensiero, che ha
sempre difeso la “ellenizzazione” del cristianesimo, è il logos che si
rivela. La fede è vestita di ragione, e la ragione si perde se non riconosce che
opera su presupposti di fede. La fede non è razionale, ciò che è razionale è il
bisogno che la ragione ha della fede. Non sono mai riuscito a far credere a
Ratzinger che, anche solo per questo specifico motivo — la ragione che cerca e
produce la fede — Kant merita di essere riconosciuto come un cristiano moderno.
È vero, era un luterano, ma un luterano autentico non è un agostiniano
rigoroso? Come che sia, che tesoro di discussioni ho perduto per sempre!
“Avete
perduto una grande occasione”, mi disse una volta, quando ormai era emerito, e
noi di centro-destra avevamo perduto il governo. Gli replicai con sincerità e
anche amarezza: “è vero, ma neppure la Chiesa ci ha aiutato”. Perché di chiese
cristiane cattoliche ce ne erano già due all’epoca del suo pontificato: la sua,
del cristianesimo come salvezza, e quella dei più, secolarizzata, del
cristianesimo come giustizia. Come nell’affresco della scuola di Atene: una col
dito e lo sguardo in alto, l’altra in basso. L’una che voleva correggere il
mondo, l’altra che andava incontro e assorbiva il mondo, col pretesto di “aggiornarsi”.
Benedetto XVI ebbe il conforto di tanti che aveva chiamato a raccolta col nome
di “minoranze creative”, fu appoggiato da intellettuali laici, fu sostenuto
negli Stati Uniti dal presidente Bush. Ma il sostegno era timido, serpeggiava
la paura, la circospezione, la prudenza. Fino a che, dopo la lezione di
Ratisbona, tutto precipitò. Nessun capo di stato o di governo si alzò a
difendere Benedetto XVI, a dire che non era questione di libertà di religione
dell’islam, ma degli strumenti violenti che l’islam usava e non rinnegava.
Ancora in questi giorni mi è capitato di leggere una signora sopracciò che dice
che Ratzinger citava Manuele il Paleologo “fuori contesto”! E così per mancanza
di coraggio, paura e codardia, calcolo e furbizia, le cose andarono male. Il
Papa che aveva tenuti sull’attenti i partecipanti al collegio dei Bernardini a
Parigi, nella Westminster Hall a Londra, al Reichstag di Berlino, che aveva
condotto il laico presidente Sarkozy a dire a Roma che la Francia è cristiana,
che aveva sfidato i laici sulle radici dell’Europa in una sala del Senato
italiano, fu abbandonato. Fu costretto a spiegarsi, a giustificarsi, ad
aggiungere note a piè di pagina. Se quella era una guerra di civiltà, allora la
civiltà cristiana si ritirava. Difficile spiegare perché le cose siano andate
così. Io penso che la bomba ad orologeria innescata col Vaticano II, e che
Woytila e Ratzinger avevano cercato di disinnescare con la loro ermeneutica
della continuità, infine sia esplosa. Si sono aperte la cataratte, al punto che
oggi siamo alla Madre Terra, cioè alla rinascita del paganesimo, e al
sincretismo. Sento ancora parlare di Dio, ma poco di Cristo; sento dire che la
misericordia e il perdono prevalgono sul giudizio; non sento più l’espressione
“peccato originale”. Stiamo tornando ai bei tempi russoviani, dell’uomo buono,
angelico, incorrotto, vittima incolpevole della cultura perversa. O ai tempi di
Pelagio, dell’uomo che ce la fa con le sue sole forze. Come se la Caduta fosse
un mito. Con la colpevole complicità della chiesa, i secolaristi stanno
vincendo.
La
storia, mi scusi, è una baldracca. Va con tutti i clienti che incontra e cambia
continuamente gusti. Dunque, cambierà ancora. Ma su una riconversione a Cristo
dei popoli europei ho dei dubbi, almeno per le prossime generazioni. Temo che
dovremo berci l’amaro calice ancora per un bel po’. Viviamo un’epoca
scristianizzata e che pensa che scristianizzarsi sia un bene. Pensiamo di
essere sempre più liberi e invece la mancanza del senso del limite, del
proibito, del peccato, ci rende più schiavi. Siamo diventati creatori di
diritti fondamentali: una bella contraddizione per chi crede in questi diritti,
perché se sono fondamentali allora non possono essere creati dalle nostre
leggi. Perciò i nostri laici razionalisti devono sciogliere un dilemma e
prendere una posizione: o i diritti fondamentali dipendono dalle leggi positive
e allora sono convenzionali e interessati, come favori elettorali, e dunque non
sono diritti, oppure se sono fondamentali c’è una legge superiore alle leggi
positive.
Se si
pensa ad una cura politica, nessuna. Agostino non crede nella politica,
soprattutto non crede che la politica possa essere una strada per la salvezza.
Non ci sono ricette politiche nel Vangelo, non ci sono in Paolo, salvo
l’“ubbidite alle autorità”, non può esistere uno Stato cristiano, neanche
governanti cristiani possono costruirne uno. La ragione è semplice: non si
raggiunge, e neppure ci si avvicina, alla Città di Dio usando gli strumenti
secolari. Lo Stato serve solo a difenderci da noi stessi. Tuo dovere è credere
e convertire il tuo amore. Lo sforzo è individuale: quando diventasse
collettivo, ne trarremmo vantaggio anche politico, che però mai sarebbe
stabile, perché anche la migliore società terrena è affetta da vizi e caduca.
Ma se in positivo mai c’è certezza di un Regno sulla terra, in negativo una
certezza c’è: se trascuri lo sforzo della salvezza, se ti allontani dalla
verità, se persegui idoli secolari, allora non ci sarà neppure società decente.
Questo è il caso dell’Occidente. Così com’è, oggi, è perduto. Io ho tratto molta
ispirazione e beneficio da Ratzinger. Certamente Ratzinger è stato molto
influenzato da Agostino e Bonaventura. Confrontata al resto, la sua teologia
politica è povera, ed a ragione.
Se lei
vuol fare del liberalismo un bersaglio, è necessario, per colpire nel segno,
identificarlo con precisione. Che cosa si intende per liberalismo? Una dottrina
politica a salvaguardia della dignità e libertà dell’uomo contro la
interferenza della società e dello Stato. Il liberalismo, perciò, è contrario
allo Stato assolutistico e anche paternalistico, ed è favorevole ai diritti
inalienabili dell’uomo. Questi sono diritti, come la uguaglianza nel valore
dell’uomo, la sua irriducibilità a solo mezzo, la sua libertà di pensiero e di
devozione, che sono fondamentali nel senso che non sono creati da alcuna
autorità politica, ma da essa rispettati come limite della propria azione. Come
si giustificano? È nota la posizione del liberalismo classico di Locke: i
diritti fondamentali si giustificano perché noi siano creati e siamo proprietà
di Dio e a lui siamo sottomessi, e Dio non può aver voluto che, riguardo a “life,
liberty, and property”, alcuni uomini fossero sottomessi ad altri
o avessero valore inferiore a quello degli altri. Perché? Perché Dio ci ama e
noi dobbiamo essere degni del suo amore. Questo liberalismo, chiaramente,
discende e si iscrive in una cornice cristiana, di cui accetta il primo
insegnamento: Dio è caritas, amore che si dà alle sue creature, e noi
dobbiamo onorarlo. In questo liberalismo vige, palesemente, la priorità del
dovere (verso Dio) sui diritti. È il tuo dovere verso Dio che fa nascere
il mio diritto di essere rispettato da te. È il mio dovere di non sopprimere
una creatura di Dio che fa nascere il mio diritto alla vita. Eccetera.
Ora, si
cambi qualcosa in questa cornice. Si sopprima il ruolo di Dio o lo si metta da
parte. Che cosa diventano più i diritti fondamentali dell’uomo? Nient’altro che
richieste di individui o di gruppi concesse e tutelate dallo Stato. Potrà
chiamarli ancora fondamentali, ma non sono più gli stessi: sono libertà o
licenze garantite. Come tali, si moltiplicano, perché non hanno più un limite
che le freni: sono desideri, poi richieste, poi rivendicazioni, infine leggi.
Il regime politico che tollera e consente tutto questo si chiama ancora
liberalismo, ma si tratta di un’usurpazione concettuale. È quella che è in
corso in Europa e nell’Occidente. Dove scompare il cristianesimo, il
liberalismo si trasforma in anarchia etica, la vera “dittatura del relativismo”,
come la chiamavano papa Wojtila e papa Ratzinger. E viceversa. Non è la prova
migliore che liberalismo e cristianesimo sono concettualmente congeneri? E che
un liberale autentico dovrebbe difendere il cristianesimo? Quando Agostino dice
che lo Stato ha bisogno di un vincolo sociale religioso, non è come se dicesse
ai liberali di oggi: almeno tornate alle vostre origini?
Tra i
miei libri ce n’è uno a cui tengo molto: Diritti umani e cristianesimo.
Ovviamente, nessuno, soprattutto fra gli uomini di Chiesa, intende leggerlo.
Non mi lamento. Ma se uno lo scorre, lì vedrà che rendo omaggio a quei Papi per
essere stati profetici. Non sono più di moda, capisco. Ma come venire a capo
del loro argomento, che se si definiscono i diritti dell’uomo come proprietà
dell’uomo allora questi diventano diritti positivi degli Stati, che danno e
negano? Questo, secondo me, oggi accade anche per responsabilità della Chiesa.
Quando la Gaudium et Spes dichiara di “proclamare i diritti umani in
nome del Vangelo” prende anch’essa una scorciatoia pericolosa: dimentica che
bisogna prima passare dai doveri dell’uomo verso Dio. Solo questi doveri fanno
la cernita dei diritti ammissibili. Altrimenti, non c’è modo di fermare aborto,
eutanasia, matrimoni omosessuali, eccetera. Mi piace in proposito ricordare
Mazzini: “certo, esistono i diritti; ma dove i diritti di un individuo vengono
a contrasto con quelli di un altro, come sperare di conciliarli, di metterli in
armonia, senza ricorrere a qualche cosa superiore a tutti i diritti?”. Credo
che questa priorità dei doveri sui diritti Ratzinger l’avesse ben chiara, ma
non sempre lo ha scritto chiaramente.
Mi
attendo che Ratzinger diventi santo per aver compiuto un miracolo … collettivo
e se lo sarà, sarà solo per questo: aver frenato e invertito l’autodemolizione
dell’Occidente cristiano. Era il suo impegno, è sempre stata la sua missione.
Che Iddio, quando e come vorrà, gli garantisca il successo.
Grazie,
Presidente!
don
Samuele Cecotti