Decimo incontro sulla Controstoria del movimento liturgico del M° Aurelio Porfiri.
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Il sinodo di Pistoia: Scipione de’ Ricci (1741-1810)
Ho parlato in precedenza di come il giansenismo abbia esercitato un forte influsso sullo sviluppo della liturgia, per non parlare della vita spirituale di tante persone. Uno dei protagonisti assoluti di questo movimento in Italia fu il vescovo Scipione de’ Ricci. Era nato a Firenze il 9 gennaio del 1741 (1). Si avvia alla carriera ecclesiastica in giovane età e si trasferì a Roma per studiare. Aveva accarezzato l’idea di divenire gesuita ma poi lasciò perdere, scoraggiato dallo stesso preposito generale che era addirittura un suo lontano parente. A Roma stessa entra in contatto con gli ambienti della chiesa nuova, in cui i padri filippini erano simpatizzanti delle idee gianseniste. Allo stesso modo frequentò il cosiddetto Circolo dell’Archetto, fatto di fiorentini come lui e su cui forse sarà bene soffermarsi un poco. Nume tutelare di questo circolo era il Monsignore Giovanni Gaetano Bottari (1689-1775), curatore della galleria delle antichità a palazzo Corsini alla Lungara, dove era anche il nume tutelare del sunnominato Circolo dell’Archetto, un cenacolo giansenista in cui circolavano suggestioni paramassoniche ed illuministe tramite anche un certo culto per l’Egitto. Di tutto questo parlava il grande storico dell’arte Maurizio Calvesi. Nella Roma di quel periodo, accanto alla grandezza della Tradizione cattolica, non erano infrequenti le tentazioni esoteriche spesso ben amalgamate all’ambiente religioso prevalente. Era un bel miscuglio in cui spesso ci si ritrovava dentro senza neanche accorgersene.
Il nostro Scipione ci fu dentro e tornato a Firenze si laureò in legge e venne ordinato sacerdote nel 1766. Erano vivi i sentimenti anti gesuiti che del resto aveva già respirato a Roma e lui si diede da fare nel diffondere il Giansenismo anche nella sua Firenze, rimanendo in contatto con importanti giansenisti francesi e promuovendo la stampa di opere che diffondessero le idee del movimento. Malgrado questo, mostrando uno zelo che forse non fu ben interpretato, lo proposero più volte per l’episcopato e la manovra riuscì nel 1780, quando fu eletto Vescovo di Pistoia e Prato e come tale fu consacrato a Roma dal cardinale Andrea Corsini. Egli si gettò con zelo in una forte opera di rinnovamento, che all’inizio prese di mira i monasteri, con la soppressione di molti di essi. In questo fu coadiuvato dal granduca Leopoldo, che vide con grande interesse l’opera del vescovo Scipione e gli diede man forte, specialmente per l’organizzazione di un Sinodo dal 18 al 28 settembre 1786. Già, perché l’opera riformatrice in senso giansenista di Scipione de’ Ricci era senza limiti, toccava la disciplina, la teologia e soprattutto la liturgia ed aveva già ben varcato i confini della sua diocesi per ottenere notorietà internazionale. Seguiamo Mario Rosa quando spiega gli esiti di questo riformismo del Ricci: “La pietas asburgica, unita al riformismo muratoriano degli anni Quaranta, offriva ora nuova linfa al riformismo giansenista ricciano: dalla semplicità degli ornamenti delle chiese al rigorismo nella musica sacra, al canto devoto nella lingua nazionale, dalla «regolata devozione» verso i santi alla «regolata» applicazione delle indulgenze – che Ricci raccomandò con una circolare del 1786 ai vicari foranei, accompagnando il Trattato delle indulgenze commissionato al giansenista ligure Vincenzo Palmieri – alla lettura della Scrittura. Contemporaneamente venivano riordinate le funzioni ecclesiastiche, incentrando su un unico altare in ogni chiesa la celebrazione delle messe per favorire la partecipazione attiva dei fedeli al sacrificio eucaristico; veniva «regolata» la pietà mariana e richiamata a una sobria pietà quella rivolta alle reliquie dei santi, mentre era ripresa la prassi della primitiva Chiesa cristiana nell’amministrazione di alcuni sacramenti, come la penitenza e l’estrema unzione, per adeguarli giansenisticamente alla «venerabile antichità». Seguì la riforma del breviario, di cui Ricci presentò uno specimen il 1° gennaio 1786, nella prospettiva di una più completa riforma a opera dell’ormai prossimo sinodo pistoiese, con l’eliminazione di diverse Lezioni, da quella di papa s. Gregorio VII a quella di s. Pio V, a quella di s. Ignazio di Loyola, sino al suggerimento dell’uso del volgare in talune pratiche devozionali pubbliche, con la traduzione del Pange lingua, del salmo 69 e del Miserere, e sino, come sembra, alla celebrazione della messa in italiano in alcune chiese della diocesi pistoiese”.
Dunque dicevamo del Sinodo di Pistoia nel 1786. Ad esso parteciparono alcuni noti teologi giansenisti, come Vincenzo Palmieri (1753-1820) e soprattutto Pietro Tamburini (1737-1827), entrambi con forti contatti negli ambienti oratoriani. Pietro Tamburini, importante accademico e sacerdote, ebbe un ruolo importante nel Sinodo e si scontrò spesso, come del resto gli altri giansenisti, con coloro che rappresentavano il bastione dell’ortodossia cattolica, e cioè - non vi sorprendete - i buoni padri gesuiti di cui abbiamo già detto sopra che nel frattempo non se la passavano di certo bene. Ma cosa voleva questo Sinodo? Alla fine chiedeva la subordinazione della Chiesa allo stato, il concilio come superiore al Papa, idee giansenistiche nei Sacramenti e riforme radicali di tipo liturgico. Insomma Roma non poteva lasciar correre, in quanto si andava a toccare tanti punti importanti della sua prassi teologica e disciplina.
E in effetti reagì per mano di Giannangelo Braschi (1717-1799), che fu eletto Papa nel 1775 con il nome di Pio VI, elezione che avvenne con la promessa di non ricostituire la Compagnia di Gesù, sciolta da Clemente XIV nel 1773 e che sarà ricostituita da Pio VII soltanto nel 1820. A Pio VI, poverino, toccherà un periodo storico veramente complicato, si pensi alla Rivoluzione Francese, e lui stesso morirà da prigioniero. Ma certo le idee gianseniste non furono preoccupazione da poco, in quanto andavano a toccare punti fondamentali della dottrina e doveva tenere conto della forte reazione che queste avevano provocato anche nei suoi predecessori. Questo lo spinse a promulgare il 28 agosto 1794 un documento di enorme importanza, la Bolla Auctorem Fidei, con cui condanna alcune tesi gianseniste e che sarà poi considerata come testo di riferimento nei manuali di teologia successivi. In una introduzione alla stessa reperibile su internet leggiamo: “Il Pontefice Romano, che nel 1782 aveva dovuto subire gli attacchi del canonico Joseph Valens Eybel nell’opuscolo Cosa è il papa? (condannato quattro anni dopo dallo stesso Pio VI con il Breve Super soliditate petræ), è colpito da analoghe aggressioni d’ispirazione giansenista espresse dal Sinodo diocesano di Pistoia, svoltosi dal 18 al 28 settembre 1786 sotto la guida di Scipione de’ Ricci, vescovo di Pistoia e Prato. Risultati vani i tentativi di riportare il dissidente nell’alveo dell’ortodossia cattolica, con la Bolla Auctorem fidei del 28 agosto 1794 Pio VI condannerà molte proposizioni approvate da tale Sinodo e contenute nel volume Atti e decreti del concilio diocesano di Pistoia dell’anno 1786, Pistoia 1788. A causa della difficile situazione nella quale si trovava l’Europa, la diffusione della Bolla non fu permessa in Toscana, a Napoli, a Venezia, nella Spagna e nell’Impero”. A cosa sarà utile questa Bolla? A ribadire i pericoli nella infiltrazione delle idee gianseniste. Nell’introduzione della Bolla Pio VI fa riferimento all’ostinazione di Scipione de’ Ricci dicendo: “avendo rivolto il pensiero, per Nostra esortazione, alla convocazione di un Sinodo diocesano, con sfacciata ostinazione lo convocò secondo la propria opinione, tanto che derivò un danno maggiore da dove poteva aversi un rimedio a diverse piaghe. Infatti, appena questo Sinodo Pistoiese uscì dalle tenebre nelle quali per qualche tempo era rimasto nascosto, non ci fu persona di autentica e pia religione e di valida sapienza che non si avvedesse immediatamente che il proposito deliberato degli autori era stato quello di riunire in un sol corpo i semi delle guaste dottrine che avevano sparse in tanti libelli, di resuscitare errori già condannati, di derogare la fede e l’autorità di quei decreti che avevano espresso le condanne”. Poco più in là proseguiva dicendo: “Essi conoscevano bene l’arte maliziosa propria degli innovatori, i quali, temendo di offendere le orecchie dei cattolici, si adoperano per coprire sotto fraudolenti giri di parole i lacci delle loro astuzie, affinché l’errore, nascosto fra senso e senso (San Leone M., Lettera 129 dell’edizione Baller), s’insinui negli animi più facilmente e avvenga che – alterata la verità della sentenza per mezzo di una brevissima aggiunta o variante – la testimonianza che doveva portare la salute, a seguito di una certa sottile modifica, conduca alla morte. Se questa involuta e fallace maniera di dissertare è viziosa in qualsiasi manifestazione oratoria, in nessun modo è da praticare in un Sinodo, il cui primo merito deve consistere nell’adottare nell’insegnamento un’espressione talmente chiara e limpida che non lasci spazio al pericolo di contrasti”. Insomma, il metodo che poi sarà imputato ai modernisti e a certi documenti magisteriali degli ultimi 60 anni.
Poi il Papa passa ad indicare alcune proposizioni che si trovavano nei documenti del Sinodo di Pistoia o ispirate dallo stesso e che venivano condannate come eretiche, come la prima: “La proposizione che asserisce che «in questi ultimi secoli si è diffuso un generale oscuramento sulle verità più importanti della Religione e che sono la base della fede e della morale della dottrina di Gesù Cristo»”. Il Papa non poteva naturalmente prevedere che queste idee sulla pretesa “purezza originaria” avrebbero cavalcato per secoli e, rafforzate dalle idee romantiche dell’eldorado, sarebbero state alla base di tanti sforzi in senso modernistico e si sarebbero infine insediate nel cuore stesso della nostra fede attraverso la liturgia. Ecco perché dobbiamo stare ben vigili ai pericoli del Giansenismo, che sono sempre una spada di Damocle che pende sulle nostre teste.
Ma il documento di Pio VI è tutto da leggere, proprio perché ci mette in guardia contro i pericoli di una deriva dottrinale che, con l’intento di servire la fede, si configura invece come il più infame tradimento. Per esempio quando nella proposizione ottava si parla del regime gerarchico della Chiesa: “Relativamente all’accenno che l’esercizio dei diritti vescovili non possa essere impedito o limitato da alcuna superiore potestà ogni qualvolta il Vescovo a proprio giudizio stimerà essere ciò meno utile al maggior bene della sua Chiesa; INDUCE NELLO SCISMA E NELLA SOVVERSIONE DEL REGIME GERARCHICO; ERRONEA”. Come questa proposizione ci fa pensare ad alcune situazioni nel mondo, in cui la Chiesa è di fatto sottomessa a governi dittatoriali e deve sottostare a leggi e restrizioni che ne impediscono la legittima azione apostolica.
Nella proposizione XV viene detto: “La dottrina che propone la Chiesa «da considerarsi come un Corpo mistico che si forma di Gesù Cristo, che ne è il Capo, e dei fedeli che ne sono le membra per una unione ineffabile, per cui diventiamo mirabilmente con Lui un solo sacerdote, una sola vittima, un solo adoratore perfetto di Dio Padre in Spirito e Verità; Intesa in questo senso, che al Corpo della Chiesa non appartengano se non i fedeli che sono adoratori perfetti in Spirito e verità; ERETICA”. Perché la Chiesa, come ben sappiamo, è anche refugium peccatorum, non è il rifugio dei perfetti. Questa è la pretesa di tante eresie e rende il messaggio cristiano un obiettivo quasi irraggiungibile per tutti. Ma Cristo si è abbassato a tutti noi proprio per rialzarci a Lui, ci chiede lo sforzo di sollevarci dalla nostra miseria perché sa per primo quanto noi possiamo essere profondamente guasti e miserabili.
Ci sarebbero tante altre cose da leggere in questo Sillabo ante litteram, un documento che mette dei giusti paletti per evitare che le deviazioni potessero crescere a dismisura. In effetti il vescovo Scipione, soprattutto dopo la Bolla di Pio VI, tentò un recupero del suo rapporto con la Chiesa di Roma, e si riappacificò con il successore di Pio VI, papa Pio VII nel 1805. Come detto non fu un percorso lineare e non lo sarà sino alla sua morte, che avverrà nel 1810. Mario Rosa così sintetizzerà la sua figura: “Assorbita da un lato nel silenzio sul versante dello stesso giansenismo, segnata dall’altro da una spesso astiosa polemica da parte della storiografia ecclesiastica cattolica, la figura di Ricci fu recuperata solo negli anni Venti dell’Ottocento, non nel quadro della storiografia italiana, ma a opera di uno studioso e uomo politico belga di orientamenti liberali, Louis de Potter, con una Vie de Scipion de Ricci (1825), elaborata nel corso di una lunga dimora in Toscana, attraverso una prima indagine archivistica tra le carte Ricci e le testimonianze di collaboratori e di corrispondenti ancora viventi, tra i quali Grégoire: un’opera che ebbe il merito di diffondere l’immagine riformatrice, anticuriale e illuminata di Ricci nel corso dell’Ottocento e di tener viva l’attenzione riguardo al problema del giansenismo sino alla formazione dello Stato unitario. Infatti è solo dopo l’Unità d’Italia che, con il deposito delle Carte Ricci nell’Archivio di Stato di Firenze, ripresero le ricerche con la pubblicazione delle sue Memorie (Firenze 1865), arricchite da importanti appendici documentarie a cura di Agenore Gelli, un patriota del Risorgimento che puntava a riabilitarne la figura nell’ambito della Chiesa cattolica, non senza echi giobertiani, come espressione del «necessario accordo della civiltà colla religione»”. Certamente, come fa notare il Rosa, si tenta di conciliare l’opera del Giansenismo con l’ortodossia Cattolica. Ma questo non è possibile, essendo il Giansenismo un pervertimento della fede che, pur presentando questioni interessanti, offre le risposte sbagliate.
(1) Per i dati biografici faccio riferimento alla voce di Mario Rosa del 2016 sulla Treccani.
Scipione Ricci va ricordato come un grande distruttore di opere d'arte sacra nella sua diocesi
RispondiEliminaè quindi il patrono ideale per i moderni costruttori di chiese