Rilanciamo per i nostri lettori un appello promosso dal gruppo internazionale Preservation of Summorum Pontificum & Access to the Ancient Latin Rites, recentemente apparso su Facebook che ad oggi conta 2974 membri – ne abbiamo parlato QUI. Ecco il testo, sintetico e animato da grande buon senso, rivolto ai Pastori per scongiurare le possibili manovre volte a limitare o annichilire la portata del Summorum Pontificum.
Dopo le considerazioni dell'Appello, ne aggiungiamo ancora qualcuna dell'amico Stefano.
Luigi
La situazione precedente al Motu Proprio “Summorum Pontificum” costituiva essenzialmente una forma liturgica di segregazione, per la quale si creava una sorta di ghetto con cui si spingevano il clero e i fedeli legati o semplicemente interessati a questi riti nelle tenebre della marginalità e della discriminazione.
Ritornare a quella situazione sarebbe intollerabile per i fedeli quanto sconsiderato per la Chiesa, poiché ciò non solo ricreerebbe quella deplorevole stato di cose, ma ne aggraverebbe ulteriormente il peso, creando un rapporto con la sacra liturgia basato su un sistema classista.
La saggezza e la prudenza della situazione attuale si fondano sulla carità, l’equilibrio e l’integrazione - ed essa non può che portare sia nel breve termine, sia in una più lunga prospettiva ad una sempre maggiore armonia e comprensione reciproche. Si tratta di una luce che aiuta il trionfo della Fede sulle tenebre.
Come la storia ci ha insegnato, la discriminazione in ogni sua forma non è mai salutare per nessuno; essa porta al conflitto e alla divisione.
Perciò, desidero fare appello ai nostri pastori affinché essi prendano atto della lezione della storia, e non ripetano gli errori del passato.
Possa la luce risplendere attraverso le tenebre, e possano le porte e gli altari delle nostre chiese, cappelle e cattedrali restare sempre aperte a tutti, senza distinzione di riti e forme liturgiche!
* * *
Fin qui il testo dell’appello. A queste considerazioni ne aggiungiamo ancora qualcuna.
Una delle ragioni che spinsero Papa Benedetto XVI a restituire piena cittadinanza liturgica al messale di San Giovanni XXII, superando la logica dell’“indulto” o quella di ben delimitate “riserve indiane”, era la constatazione che «[…] nel frattempo è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma, particolarmente appropriata per loro, di incontro con il Mistero della Santissima Eucaristia» (Lettera ai vescovi del 7 luglio 2007). A 50 anni di distanza dalla riforma liturgica è evidente che la maggior parte di quanti continuano a beneficiare del motuproprio Summorum Pontificum sono «giovani persone», generalmente non ancora nate quando l’antico rito era in vigore, per le quali esso ha costituito una gioiosa scoperta, in molti casi la «porta regale» che li ha condotti ad approfondire la propria fede (e il proprio sacerdozio, nel caso di numerosi giovani preti), se non a una vera e propria conversione. Nella Chiesa c’è una varietà rituale talmente ampia, in base alla sensibilità e provenienza culturale (talora purtroppo anche in base alla creatività), che non si vede la ragione di vietare o restringere tale libertà soltanto per chi è legato al rito antico. Pur di attrarre i «giovani» (con quali risultati?) non si è esitato a introdurre nelle Messe dosi massicce di “mondanità”, dalla Messa-beat in poi. E solo di fronte a una liturgia veneranda e plurisecolare ci si vorrebbe trasformare in improvvisi censori?
Sempre l’allora pontefice, aggiungeva che «ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto» (ibidem). La presenza dell’antico rito permette uno sguardo realmente universale (dunque “cattolico”) estendendo il sensus ecclesiae non solo in senso geografico, ma anche nei confronti delle generazioni passate. Fa bene «a tutti» sottolineava l’allora pontefice: anche per chi continua a seguire la forma ordinaria, la presenza e il confronto con chi segue e celebra il rito antico (magari nella stessa parrocchia) costituisce una ricchezza, così come guardare alla tradizione della Chiesa orientale amplia il respiro della Chiesa d’Occidente.
«Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso» (ibidem). Si proibisce o si restringe ciò che è nocivo, non ciò che fa bene. L’antica tradizione liturgica della Chiesa, lungi dall’essere dannosa, costituisce un potente richiamo al Mistero in grado di affascinare anche anime che, pur lontane dalla fede, si sentono attratte dalla bellezza, splendor veritatis. È alla bellezza di questa liturgia che dobbiamo le note del Dies irae di Mozart e grandi conversioni come quella dell’ex satanista Joris Karl Huysmans. È l’insieme di questi riti, a torto considerati “superati”, ad aver ispirato la “grande bellezza” della Chiesa cattolica, le cui basiliche e cattedrali, costruite proprio nell'alveo – e in funzione – di questa liturgia, continuano a riempirsi di visitatori di qualsiasi credo (o di nessun credo) il cui cuore non resta indifferente ai capolavori della fede.
Per queste ragioni (e per molte altre che ciascuno custodisce nel segreto del proprio cuore poiché toccano la propria vita personale e il proprio itinerario di fede), con il presente appello intendiamo testimoniare al Santo Padre Francesco l’importanza dell’antica liturgia per le nostre vite e per l’intera società. La sua ricchezza spirituale e culturale può continuare a essere un potente mezzo di evangelizzazione per l’uomo del XXI secolo, che, nonostante la secolarizzazione, continua a manifestare una sete di sacro in cui l’antico rito romano può aprire una strada, facendo udire i rintocchi della nostalgia di Dio che alberga nel cuore di ogni uomo.
“Se infatti questo piano o quest’opera fosse di origine umana, verrebbe distrutta; ma, se viene da Dio, non riuscirete a distruggerli. Non vi accada di trovarvi addirittura a combattere contro Dio!” (At 5,38-39)
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