Codex Iuris Canonici auctoritate IOANNIS PAULI PP. II promulgatus |
Come tutti voi, siamo rimasti basiti dai mirati e studiati tentativi con cui tre vescovi e uno studioso in occasione dell'Assemblea Generale Straordinaria della CEI (forse in qualche commissione, forse in seduta plenaria, ma poco importa, visto il malevolo impegno profuso) hanno cercato di delegittimare il Motu Proprio Summorum Pontificum.
Per quanto riguarda l'aspetto "pastorale", non spendiamo parole perché la teoria del Girardi è quanto mai scollegata con la realtà. Come si può ritenere "non pastorale" un Messale (o rectius, di una forma liturgia) che per (almeno) 500 anni ha sfamato generazioni di fedeli e che tutt'ora, pur nella versione modificata del 1962 soddisfa l'anelito ieratico e spirituale di moltissimi fedeli che ne fanno rischietsa di loro spontanea volontà? E poi, se proprio vogliamo essere così fiscali, nemmeno la "messa" neocatecumenale è conforme alla volontà dei padri conciliari! Eppure nessuno - tranne noi - osa criticarla e dichiararla illegittima, ecc.. ecc.. come di recente è stato fatto nei confronti del Messale di San Giovanni XXIII.
Sull'aspetto giuridico-canonistico, invece, pur avendo analizzato l'infondatezza e manifesta illogicità delle argomentazioni canonistiche svolte contro la validità del motu proprio, abbiamo preferito affidarci ad un iurisperitus che ne sa: l'Avv. Fabio Adernò, dottore in Diritto Canonico. Egli, raccogliendo il nostro quaesitum, ci ha cortesemente inviato il suo responsum, che ci ha autorizzato a pubblicare.
Non intendiamo apporre glossa alcuna perché per la chiarezza del contenuto e la limpidezza espositiva rendo il testo immediatamente comprensibilissimo e ogni sintesi ne depaupererebbe la portata.
Unica nota con cui possiamo indegnamente chiosare il commento dell'Avv. Adernò, è che mirabilmente alcune sue considerazioni squisitamente giuridiche sul M.P. mostrano riflessi anche pastorali: questo perché nella mente del supremo Legislatore il bonum che egli aveva a cuore era il bene dei fedeli.
Unica nota con cui possiamo indegnamente chiosare il commento dell'Avv. Adernò, è che mirabilmente alcune sue considerazioni squisitamente giuridiche sul M.P. mostrano riflessi anche pastorali: questo perché nella mente del supremo Legislatore il bonum che egli aveva a cuore era il bene dei fedeli.
Roberto
P.s. il sottolineato è nostro.
Spett.le
Redazione,
sento
vivo il dovere di accogliere la Vostra richiesta e di intervenire sulla questione delle presunte discussioni
avvenute nell’ultima assemblea plenaria dei Vescovi italiani – conclusasi, come
sappiamo, con l’approvazione (sarebbe interessante leggere i verbali con le proporzioni
dei voti pro e contra) del decreto di modifica della Prece Dominica e dell’Inno
Angelico – che pare abbiano appalesato (sembra, comunque, in minima parte)
una qual certa insofferenza nei confronti del fenomeno della diffusione della
celebrazione della Santa Messa nella c.d. “forma straordinaria” e, addirittura,
qualcuno dei Presuli sia giunto anche a ipotizzare sulla “mancanza di
fondamento giuridico” del M.P. Summorum
Pontificum.
Inutile,
in questa più che edotta sede, fare premesse circa la più recente storia
ecclesiastica, quantomeno a partire da quel 7 luglio 2007 in cui Benedetto XVI
promulgò la Lett. Ap. motu proprio data “Summorum
Pontificum”.
Tuttavia
preciso che le seguenti considerazioni sono di ordine strettamente tecnico, e
sono volte a dissipare i dubbi che possano esser sorti nei lettori in merito
all’argomento trattato. Non è, dunque, una risposta diretta ad una posizione
esplicitata – che peraltro, oggettivamente, non c’è – ma un tentativo di
spegnere, sul nascere, una inutile polemica.
Non
è mai bello essere autoreferenziali, ma questa volta non posso esimermi.
Invitato
a parlare nel 2013 ad un convegno sull’applicazione del M.P. al Rito Ambrosiano
(cf. http://chiesaepostconcilio.blogspot.com/2013/02/fabio-aderno-profili-giuridici-e.html)
ebbi modo di soffermarmi sulla natura giuridica della disposizione di Benedetto
XVI, ritenendo che trattavasi, insieme, di “Legge universale e speciale” a
mente del can. 8 CIC, emanata dal Sommo Pontefice in forza del can. 838 §§ 1 e
2 CIC.
In
quella stessa circostanza sollevavo io stesso la problematica connessa
all’infelice espressione circa la “non abrogazione” del Messale c.d. di
Giovanni XXIII (1962), sostenendo – senza che oggi abbia mutato opinione – che
sarebbe stato più opportuno affermare che il Messale Romano (non solo quello
del 1962) era piuttosto “inabrogabile” poiché conteneva delle consuetudini venerabili
e un apparato normativo ab immemorabili,
che nell’Ordinamento canonico gode da sempre di singolari privilegi di stabilitas.
Se
è vero quanto si riferisce sul post del Vostro blog Messainlatino (http://blog.messainlatino.it/2018/11/cei-va-abrogata-la-messa-antica-papa.html),
non si può dire che erri tecnicamente
parlando l'Arcivescovo di Gorizia nell’affermare che non corrisponde al vero
che il Messale del 1962 non fu mai abrogato (cf. SP, art. 1); ma da una mera
constatazione di un dato storico a sostenere che il Summorum Pontificum non abbia un fondamento giuridico e che, pertanto, debba essere revocato, il salto ci sembra davvero eccessivo.
constatazione di un dato storico a sostenere che il Summorum Pontificum non abbia un fondamento giuridico e che, pertanto, debba essere revocato, il salto ci sembra davvero eccessivo.
Il
fondamento giuridico di un atto – siccome la sua interpretazione – si evince
sia dal testo sia dal contesto (cf. can. 17), e il contesto è l’intera premessa
al Motu Proprio, ma anche la lettera
d’accompagnamento ai Vescovi del Pontefice promulgante, il quale, come suo
stile, ha sempre operato in una onesta comunione
intraepiscopale.
Il
testo, sebbene contenga – come dicevamo – qualche espressione infelice (come,
ad esempio, l’uso dell’aggettivo “romana” riferito alla liturgia, quando invece
sarebbe stato più corretto adoperare l’aggettivo “latina”), non è viziato né
nella forma, né nella sua sostanza e né nel suo fine, che è – lo ribadiamo con
forza – un fine di pacificazione intraecclesiale, e non già un gesto parenetico
e sentimentalistico, come qualcuno potrebbe oziosamente ritenere.
Del
resto, se l'Arcivescovo di Gorizia avesse avuto questa opinione all’epoca della
promulgazione del M.P., essendo egli in quegli anni Ausiliare di Milano, ci
chiediamo come mai non abbia rappresentato le sue perplessità al Santo Padre già
a quel tempo e lo faccia solo oggi, a ben 11 anni dall’entrata in vigore del Summorum Pontificum, proprio mentre le
statistiche indicano che le celebrazioni nella forma c.d. straordinaria si
stanno moltiplicando in tutto il mondo.
È
opportuno riconoscere il beneficio del dubbio a tali indiscrezioni, poiché non
c’è un verbale a cui attingere per risalire ai contenuti effettivi
dell’intervento di S.E. Mons. Radaelli, e vogliamo credere che siano state
mosse magari solo delle perplessità sulla diffusione delle celebrazioni in Rito
antico e non si sia arrivati a sostenere che il M.P. possa essere destituito
di forza giuridica. Anche perché sarebbe paradossale teorizzare una cosa simile
ad oggi, dopo decenni di diffusione e persistenza delle celebrazioni nella
forma antica, e per dipiù con la presenza, nella Curia Romana, di una
Commissione Pontificia – l’Ecclesia Dei –
dotata di facoltà specialissime ad instar
Dicastarii in materia rituale e da cui dipendono diversi istituti e
congregazioni fioriti, con moltissime giovani vocazioni, in questi ultimi decenni.
Vieppiù,
anche alla luce del c.d. “indulto” concesso da Giovanni Paolo II nel 1984, si
rafforza la tesi della “resistenza” di un uso liturgico, anche se formalmente soppiantato da un altro (del
resto, se non fossero diversi e si trattasse di un mero testo riformato, così
come fu il Messale di Pio V nei secoli fino alle modifiche rubricali di
Giovanni XXIII, non ci si agiterebbe tanto); una liturgia, appunto, che è
rimasta comunque in uso in modo costante e giammai interrotto, alle volte in
modo esplicito (e.g.: validamente il
caso della Fraternità S. Pio X, che ad oggi gode dell’alta considerazione dal
Santo Padre; e anche lecitamente:
l’Amministrazione Apostolica di Campos e le altre realtà legate al “mondo della
tradizione”) altre in modo para-catacombale (si ricordi, ad esempio, la Chiesa
polacca, la Chiesa cinese fedele a Roma, le Chiese cattoliche dell’area
balcanica, così come tutti i sacerdoti e vescovi prigionieri di guerra dei
regimi comunisti, che celebravano la Messa “a memoria”).
Appellarsi
ad una presunta mancata non-abrogazione del Messale precedente per sostenere
che il M.P. non sia valido è giuridicamente funambolico, oltre ad essere un
sofisma.
E
ciò per il semplice motivo che il Summorum
Pontificum non si basa sul presupposto della non-abrogazione o della abrogazione
del Messale precedente – che poi, bisognerebbe ricordare che tra il Messale del
1962 e quello del 1970 c.d. di Paolo VI ce ne fu un altro, nel 1965, quasi del
tutto obliato – perché la disposizione di Benedetto XVI non contrappone il
Messale del 1970 (con le sue successive modifiche) a quello precedente (anche
perché, nel nostro Ordinamento, esiste anche l’istituto della abrogazione implicita quando si riordina
ex integro una materia).
La
disposizione contenuta nel Summorum Pontificum,
al contrario, si fonda sull’esigenza
– ritenuta talmente significativa da diventare legge universale e speciale – di
non abbandonare il tesoro della tradizione e di integrare, con la sua custodia,
le lacune d’impoverimento che una frettolosa semplificazione degli anni
dell’immediato post-concilio hanno creato. Del resto, se andiamo alla mens del Legislatore, ricordiamo che lo
stesso card. Raztinger, nel 1985, confessava a Messori nel suo libro-intervista
Rapporto sulla Fede: «L’esperienza ha
mostrato come il ripiegamento sull’unica categoria del “comprensibile a tutti”
non ha reso le liturgie davvero più comprensibili, più aperte, ma solo più
povere.» (cap. IX).
Inoltre,
il vero fondamento del Summorum
Pontificum risiede nel considerare l’antica liturgia – in tutte le sue
espressioni – come un qualcosa di persistente, duraturo, stabile… un qualcosa da
cui gran parte del popolo cristiano, composto da chierici e laici, in fondo, non
si è mai voluto del tutto allontanare, avvertendo come anelito essenziale
quella tensione al ritorno alle radici, alla mistagogia liturgica che non ha
bisogno di tante parole per essere interiorizzata e che, al contempo, avvolta
nella sacralità dell’unica vera “lingua di Dio”, non esige l’appalesamento del mistero, con un
dissacrante e fatale disvelamento del Sacro.
Ritenere,
al contrario, che il Summorum Pontificum
si fondi soltanto sulla
non-abrogazione del Messale del 1962 è considerare in modo miope l’operazione
di liberalizzazione d’un qualcosa che non è solo un sentimento, ma è appunto un
diritto, coerente con quanto stabilisce anche l’ultimo Concilio e il Codice di
Diritto Canonico vigente (cf. cann. 213-214).
Mi
piace a tal proposito, ricordare, tra gli altri, la Lett. Ap. Sacrificium laudis di Paolo VI del 15
agosto 1966, nella quale si rammenta l’esigenza di non perdere non solo il
latino ma anche la bellezza del rito e degli uffici corali.
A
sostegno di ciò è bene ricordare che l’argomento a contrario sul fondamento giuridico del MP perde quota e, di
fatto, si nullifica già dal momento in cui si apprende che esistono due forme
(una ordinaria e una straordinaria) della medesima Lex orandi (cf. SP, art. 1) a ragione dell’antichità e della venerabilità del Rito
antecedente l’ultima riforma; per cui, il fatto che il Messale di Giovanni
XXIII sia stato abrogato o non abrogato è del tutto ininfluente – da un punto
di vista prima ancora sostanziale che formale – sull’efficacia e sulla validità
del Summorum Pontificum, perché
entrambi i Messali coesistono nell’attuale vigente ordinamento liturgico della
Chiesa latina: «sunt enim duo usus unici ritus romani», perché «Hae duae
expressiones “legis orandi” Ecclesiae, minime vero inducent in divisionem
“legis credendi” Ecclesiae» come leggiamo chiaramente nel MP, subito prima alla
frase in cui si afferma la non abrogazione («Proinde Missae Sacrificium, iuxta
editionem typicam Missalis Romani a B. Ioanne XXIII anno 1962 promulgatam et
numquam abrogatam, uti formam extraordinariam Liturgiae Ecclesiae, celebrare
licet.»).
È
evidente, dunque, facendo un’interpretazione coerente e fedele ai criteri di
cui al citato can. 17 («Le leggi ecclesiastiche sono da intendersi secondo il
significato proprio delle parole considerato nel testo e nel contesto; che se
rimanessero dubbie e oscure, si deve ricorrere ai luoghi paralleli, se ce ne
sono, al fine e alle circostanze della legge e all'intendimento del
legislatore.») che l’inciso «numquam abrogatum» sia da intendersi non già come
la negazione di un fatto (ininfluente ai fini della disposizione), bensì come
la presa di coscienza («ob venerabilem et antiquum eius usum debito gaudeat
honore») da parte del Legislatore Supremo che quel Rito è “sopravvissuto” nella
vita Ecclesiae e che, a ragione
dell’affermazione contenuta nel paragrafo precedente nel quale si specifica che
la Lex orandi ordinaria è il Messale
edito nel 1970 («Missale Romanum a Paulo VI promulgatum ordinaria expressio
“Legis orandi” Ecclesiae catholicae ritus latini est.»), si contempla l’uso di
questa forma, di questo usus antiquior,
extra-ordinario modo («Missale autem
Romanum a S. Pio V promulgatum et a B. Ioanne XXIII denuo editum habeatur uti
extraordinaria expressio eiusdem “Legis orandi” Ecclesiae »).
Se
così non fosse, l’inciso sul Messale del 1962 non sarebbe stato preceduto
dall’avverbio «Proinde» tradotto in lingua italiana con «perciò», introducendo,
dunque, un concetto consequenziale ad una specifica e ben definita premessa.
Invocare
principi di formalità legalista risulta assai rischioso, sia per la natura
stessa dell’Ordinamento canonico, sia perché avventurarsi su quei terreni – appellandosi
magari a sofismi in punta di diritto, specie in questi tempi di crisi in cui il
sistema giuridico si va a configurare sempre più come qualcosa a tratti archeologico
a tratti sovrastrutturato, anziché esser coessenziale e necessario alla vita
della Chiesa – rischia di essere un pericoloso boomerang.
Così
come se è vero che qualcuno ha invocato una presunta incoerenza dei contenuti
del MP con le intenzioni dei Padri Conciliari del Vaticano II (e qui, poi,
bisognerebbe stabilire dove e quando il Concilio abbia imposto ciò che
realmente contiene il Messale c.d. di Paolo VI) va ricordato, insieme al
principio ermeneutico della continuità
che costituisce l’indirizzo cardine del pontificato di Benedetto XVI, che, in
alcune recenti disposizioni e atti della legislazione ecclesiastica centrale, quello stesso intangibile e iconizzato Concilio – nei suoi documenti e non solo
nelle sue “intenzioni” – risulta spesso esser stato, ictu oculi, del tutto vaporizzato nel nulla.
Concludendo,
la tesi per la quale la mancata non-abrogazione del Messale precedente la
riforma del 1970 depotenzi o, peggio ancora, annulli la vis del MP Summorum
Pontificum è tesi del tutto peregrina e priva di qualsivoglia fondamento logico
e giuridico poiché, com’è stato dimostrato e ampiamente si può continuare a
dimostrare, l’Ordinamento canonico non vive di comparti stagni, ma di armonia
nella complessità, e anche di “canoni discordanti” che, tra loro, “concordano”
a ragione dell’essenziale fondamento ontologico e del fine ultimo e suprema Lex del Diritto della Chiesa,
che è la salus animarum (cf. can.
1752).
Non
risulta pertanto ammissibile una simile teoria, neppure in via ipotetica,
poiché le stesse premesse e le ragioni sulle quali si fonda non sono congruenti
con l’atto che si intende criticare e minare.
Sperando
di aver contribuito a dirimere una questione che, quantunque inconsistente,
potrebbe apparire a molti come allarmante, ringrazio per l’attenzione.
Con grata stima,
Avv.
Fabio Adernò, JCD