Ringraziamo di cuore Mattia Rossi per questo Articolo scritto per MiL.
A.C.
Uno degli aspetti più sconcertanti – verrebbe, anzi, da dire: il più sconcertante – riguardante la vita liturgico-musicale della chiesa postconciliare è il visibile, quanto impressionante, laissez faire della gerarchia.
Siamo di fronte – lo sappiamo bene – ad una totale indifferenza, che il più delle volte si tramuta, anzi, in incentivazione e incoraggiamento, verso la Babele corrente che accoglie qualsiasi forma e qualsiasi genere che, in nome di un demagogico concetto di “partecipazione attiva”, ha trasformato il repertorio sacro in una cloaca di solenni idiozie e banali mediocrità.
Non intendo dilungarmi oltre su questo aspetto: all’evidenza c’è ben poco altro da aggiungere.
Vorrei, invece, soffermarmi sulla rottura, almeno da un punto di vista storico, nella quale è incorsa la Chiesa del Novecento.
Chiariamoci: gli abusi liturgici e musicali, nella storia della Chiesa, ci sono sempre stati (e, nel seguito dell’articolo, se ne riparlerà), ma la differenza sostanziale con il passato è che mentre nelle crisi liturgico-musicali trascorse nel corso dei secoli la Chiesa è sempre intervenuta con misure bifronti (condanna, da un lato, e correzione, dall’altro), a riguardo della profonda crisi musicale in corso – che è, tengo a precisarlo, ben più grave di quelle passate – la Chiesa non ha mai accennato, né tantomeno, col pontificato corrente (“nec rubricat nec cantat”) accenna a farlo, ad una “riforma della musica sacra”.
La Chiesa, in questo campo, desiste dall’autorità, come recita il titolo.
Porterò, dunque, due evidenti esempi di due momenti storici nei quali, la Chiesa, è intervenuta riformando la musica liturgica.
1) Nell’età bassomedievale, quando il canto gregoriano aveva iniziato a percorrere la sua rapida strada del declino, la liturgia dovette fare i conti con l’ingresso, all’interno della messa, di due nuove forme: le sequenze e i tropi.
Gli jubilus (le lunghissime catene di note che seguono la sillaba finale –ia dell’alleluia) diventarono ben presto difficilmente memorizzabili.
Da qui, nacquero le sequenze.
La loro origine è narrata con precisione da Notker Balbulus, un monaco del monastero di San Gallo nato nell’840 nell’odierna Zurigo.
Egli, che deriso dagli amici per un difetto di pronuncia, dovuto alla mancanza di un dente, si affibbiò il soprannome di “balbulus” (balbuziente), fu l’autore del Liber Hymnorum, la prima raccolta di sequenze. Notker, nella prefazione del suo Liber, dichiara che ebbe, fin da giovinetto, grandi difficoltà a ricordare le lunghissime catene di note, le longissimae melodiae che caratterizzavano lo jubilus dell’alleluia: viste, allora, tali difficoltà salutò con gioia le novità apportate da un monaco francese in fuga dopo la distruzione dell’abbazia di Jumièges, ad opera dei Normanni, nell’anno 851: quel monaco aveva con sé un Antifonario in cui vi si potevano leggere «aliqui versus» in corrispondenza delle sequenze: il melisma, cioè, era suddiviso in sillabe.
L’espediente è chiaro: per facilitare la memorizzazione degli jubilus alleluiatici, vennero inseriti dei testi che, poco a poco, divennero autonomi nella loro composizione testuale e musicale.
A partire dal XII secolo, si tentò di avvicinare la sequenza alla forma dell’inno (facilmente memorizzabile e dallo scopo catechetico) introducendo la composizione in versi e la rima.
Di simile fattura furono i tropi: ugualmente delle testualizzazioni di melismi: non più sugli jubilus dell’alleluia, ma suoi vocalizzi del Kyrie e, ben presto, anche come interpolazioni degli altri brani dell’Ordinarium.
Ben presto, entrambe queste “novità” divennero terreno fertile per il proliferare di tutto un repertorio letterario svincolato dalle esigenze sacre che, di liturgico, dunque, conservava ben poco.
A porgere un freno, come la storia ci ha insegnato, è stato il Concilio di Trento con l’eliminazione di tutti i tropi e della centinaia e centinai di sequenze al di fuori delle cinque ancor oggi conosciute: Victimae Paschali, Veni Sancte Spiritus, Stabat Mater, Lauda Sion e Dies Irae.
2) Il secondo esempio che porto riguarda la musica sacra italiana dell’Ottocento.
Nel secolo del Risorgimento, anche la musica liturgica italiana era musica operistica.
O meglio: la musica operistica, allora modaiola, diventava anche musica liturgica.
Al contempo, dunque, l’organo italiano venne concepito, in quegli anni, come una grande orchestra capace di incarnare il gusto melodrammatico popolare.
Nacquero dei registri particolari (propri, dunque, solamente degli organi italiani) che si richiamavano all’orchestra: trombe, fagotti, oboe, corno inglese, clarino, viole, violini, flutta, ottavino, campanelli, timpani, e molti altri ancora.
E’ quella che la storia della letteratura organistica definisce la “democratizzazione” dell’organo: esso diventa una piccola orchestra e la chiesa diventa una sorta di teatro per i poveri, ai quali era precluso quello vero.
La produzione liturgica si arricchisce di “arie” e “cavatine” per l’offertorio o l’elevazione, “polke” e “marcette” per il post-communio o, anche, vere e proprie “Sinfonie”.
Da questa situazione, sembra quasi superfluo citare quale fu la medicina, derivò il motu proprio di Pio X Inter sollicitiudines del 1903 il quale mise al bando la musica operistica dalla liturgia e ufficializzò l’inizio del movimento ceciliano di riforma della musica sacra.
E oggi?
Indubbiamente la situazione musicale è ben più grave: notava già tempo fa Valentino Miserachs Grau che, mentre nel passato si aveva a che fare con composizioni, sia pur non liturgiche, ma almeno formalmente corrette, oggi, al contrario, siamo di fronte a paginette che, molto spesso, ignorano l’abc della composizione musicale.
La prassi corrente nelle nostre parrocchie, ormai, è quella di rendere la vita impossibile a chi celebra o suona/canta fedelmente e lodare ed esaltare qualsiasi boiata, allontanare dalla liturgia professionisti della musica sacra in nome del più becero clericalismo e incentivare qualsiasi forma di improvvisazione e demagogico infantilismo.
I risultati sono sotto i nostri occhi, ma – ahimè – ho avuto modo di constatare più volte quanti pochi siano ad accorgersi dell’anormalità e della gravità della situazione liturgica attuale.
Soprattutto in rapporto al trascorrere del tempo: quanto più si procederà su questa strada tremendamente in discesa, tanto più si allargherà la forbice e diventerà impossibile porvi rimedio.
Sarebbe ora (anzi, sono più di quarant’anni che sarebbe ora, ma, sinceramente, non mi sembra proprio aria con l’attuale pontificato) che la chiesa cominciasse a mettere mano seriamente alla musica sacra quale specchio fedele di una più ampia ‘ars celebrandi’.
Fermo restando, ovviamente, che tra una sequenza medievale e un “Symbolum 77” o tra una Marcia di padre Davide da Bergamo e un “Quando bùssero allà tuà porta”, se dovessi scegliere, non avrei alcun dubbio.
Mattia Rossi
Esatto......w Rossi....purtroppo tutto e di piu'....chitarrine comprese.
RispondiEliminaL'autore dell'articolo ha perfettamente ragione e senza dire che ha omesso di scrivere delle musiche eseguite con chitarra ecc,tanto da sembrare non in chiesa,ma al festival di San Remo. Poi c'è un altro aspetto deleterio,ossia la esecuzione di musica NON sacra nelle chiese:mi ricordo l'ira suscitata nella chiesa dei frati di via Valerani in occasione della esecuzione dei Quadri di una esposizione....No comment!
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