Riceviamo, e volentieri pubblichiamo questa lettera aperta del Sig. Cosimo Intini, regista dello spettacolo "Leo et Aquila" che si è tenuto nil 17.03.2012 nella basilica di Collemaggio (in L'Aquila) e di cui avevamo dato avviso qui e in merito al quale avevamo pubblicato una lettera di un nostro lettore.
In essa il regista argomenta il suo punto di vista e risponde alle critiche.
In premessa, la mail di accompagnamento alla lettera aperta.
In essa il regista argomenta il suo punto di vista e risponde alle critiche.
In premessa, la mail di accompagnamento alla lettera aperta.
***
Gentilissimo Direttore di Messainlatino.it,
sono Cosmo Intini, l’ideatore e regista, nonché compositore della musica dell’azione scenica “Leo et Aquila.
Ripromettendomi di far prima trascorrere nella dovuta riflessione il santo momento della Pasqua di Risurrezione, ho indugiato fino ad oggi nel chiederLe cortesemente di concedermi il diritto di rispondere ad alcune critiche che sono state mosse, attraverso il Suo blog, contro di me e la mia iniziativa artistico-spirituale che ha avuto luogo presso la Basilica di Collemaggio, in LAquila, lo scorso 17 marzo. Del resto, tengo subito a precisare che mi risolvo a ciò non certamente con astioso spirito di polemica, ma per puro desiderio di chiarimento e di verità a seguito delle numerose incomprensioni ed imprecisioni che ho riscontrato manifestarsi a mio indirizzo da parte (ahimè) di alcuni “fratelli nella fede! Sono certo che Ella, con la dovuta correttezza, converrà utile ed opportuno permettermi di far ascoltare ai Suoi lettori la mia versione dei fatti, che intendo qui proporre con l’unico auspicio di ricondurre gli animi ad un po’ di serenità.
Allego pertanto qui alla presente una "lettera aperta", confidando nel fatto che Ella, dopo averne compreso e valutato gli intenti, non mi vorrà rifiutare di divulgare.
La saluto cordialmente.
Cosmo Intini
sono Cosmo Intini, l’ideatore e regista, nonché compositore della musica dell’azione scenica “Leo et Aquila.
Ripromettendomi di far prima trascorrere nella dovuta riflessione il santo momento della Pasqua di Risurrezione, ho indugiato fino ad oggi nel chiederLe cortesemente di concedermi il diritto di rispondere ad alcune critiche che sono state mosse, attraverso il Suo blog, contro di me e la mia iniziativa artistico-spirituale che ha avuto luogo presso la Basilica di Collemaggio, in LAquila, lo scorso 17 marzo. Del resto, tengo subito a precisare che mi risolvo a ciò non certamente con astioso spirito di polemica, ma per puro desiderio di chiarimento e di verità a seguito delle numerose incomprensioni ed imprecisioni che ho riscontrato manifestarsi a mio indirizzo da parte (ahimè) di alcuni “fratelli nella fede! Sono certo che Ella, con la dovuta correttezza, converrà utile ed opportuno permettermi di far ascoltare ai Suoi lettori la mia versione dei fatti, che intendo qui proporre con l’unico auspicio di ricondurre gli animi ad un po’ di serenità.
Allego pertanto qui alla presente una "lettera aperta", confidando nel fatto che Ella, dopo averne compreso e valutato gli intenti, non mi vorrà rifiutare di divulgare.
La saluto cordialmente.
Cosmo Intini
A quanti con appassionata dedizione
cercano nuove “epifanie” della bellezza
per farne dono al mondo
nella creazione artistica.
(Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti)
cercano nuove “epifanie” della bellezza
per farne dono al mondo
nella creazione artistica.
(Lettera del Papa Giovanni Paolo II agli artisti)
4 aprile 1999, Pasqua di Risurrezione
Lettera aperta di un artista ai “fratelli nella fede”
Gentilissimo Direttore di “Messainlatino.it”,
sono Cosmo Intini, l’ideatore e regista, nonché compositore della musica dell’azione scenica “Leo et Aquila”.
Ripromettendomi di far prima trascorrere nella dovuta riflessione il santo momento della Pasqua di Risurrezione, ho indugiato fino ad oggi nel chiederLe cortesemente di concedermi il diritto di rispondere ad alcune critiche che sono state mosse, attraverso il Suo blog, contro di me e la mia iniziativa artistico-spirituale che ha avuto luogo presso la Basilica di Collemaggio, in L’Aquila, lo scorso 17 marzo. Del resto, tengo subito a precisare che mi risolvo a ciò non certamente con astioso spirito di polemica, ma per puro desiderio di chiarimento e di verità a seguito delle numerose incomprensioni ed imprecisioni che ho riscontrato manifestarsi a mio indirizzo da parte (ahimè) di alcuni “fratelli nella fede”! Sono certo che Ella, con la dovuta correttezza, converrà utile ed opportuno permettermi di far ascoltare ai Suoi lettori la mia versione dei fatti, che intendo qui proporre con l’unico auspicio di ricondurre gli animi ad un po’ di serenità.
Il primo punto che vorrei affrontare riguarda la contestata liceità di rappresentare in una Chiesa uno spettacolo artistico. Sono del tutto d’accordo con chiunque si faccia carico di vigilare affinché il luogo sacro e di culto sia utilizzato senza dare occasione ad abusi o, peggio, a profanazioni. Proprio in quanto condivido la necessità di far un continuo riferimento alle norme canoniche, personalmente ritengo dunque opportune le restrizioni sottolineate e ribadite nel Documento della Congregazione per il Culto Divino (in data 5 Novembre 1987), con specifico riferimento all’uso che nelle Chiese deve esser fatto dei diversi generi di musica. Dopo aver precisato che, in quanto al loro carattere, i generi musicali possono suddividersi in “sacri, religiosi e non religiosi”, il predetto Documento dice infatti testualmente: “Non è legittimo programmare in una chiesa l’esecuzione di una musica che non è di ispirazione religiosa e che è stata composta per essere eseguita in contesti profani precisi, sia essa classica. o contemporanea. di alto livello o popolare: ciò non rispetterebbe il carattere sacro della chiesa, e la stessa opera musicale eseguita in un contesto non connaturale ad essa” (3.8). Premesso ciò, dando dunque per scontata l’improponibilità di concerti “non religiosi” all’interno di un luogo di culto, a riguardo comunque di eventuali esecuzioni di musiche che non siano direttamente inerenti alle celebrazioni liturgiche (che non siano cioè di carattere precipuamente “sacro”), sempre nel medesimo Documento si contempla la possibile evenienza anche dei così definiti “concerti spirituali”: “…tali perché la musica eseguita in essi può considerarsi religiosa, per il tema che essa tratta, per i testi che le melodie rivestono, per l’ambito in cui tali esecuzioni avvengono” (1.2). Sempre a proposito di questi “concerti spirituali”, più avanti (3.9) si specifica ancora che: “La musica sacra, cioè quella che è stata composta per la liturgia, ma che per motivi contingenti non può essere eseguita durante una celebrazione liturgica, e la musica religiosa, cioè quella che si ispira al testo della Sacra Scrittura o della Liturgia o che richiama a Dio, alla Vergine Maria, ai Santi, o alla Chiesa,…possono avere il loro posto nella chiesa…(in quanto) possono servire o favorire la pietà o la religione. Esse hanno una loro particolare utilità:
a) per preparare alle principali feste liturgiche, o donare ad esse una più grande festosità, al di
fuori delle celebrazioni;
b) per accentuare il carattere particolare dei diversi tempi liturgici;
c) per creare nelle chiese un ambiente di bellezza e di meditazione, che aiuti e favorisca, anche in
coloro che sono lontani dalla Chiesa, una disposizione a recepire i valori dello spirito”.
Alla luce di tutto ciò, non vedo dunque alcuna illiceità intanto nell’esecuzione delle musiche dell’azione scenica “Leo et Aquila” nella Basilica di Collemaggio, le quali sono state composte completamente per “rivestire” il sacro testo cantato, peraltro in latino; testo il quale è liberamente desunto dall’Antico, dal Nuovo Testamento e dalla Patristica (Genesi, Giobbe, Salmi, Proverbi, Siracide, Isaia, Geremia, Osea, Abacuc, Matteo, Apocalisse, Pseudo Dionigi, Isidoro di Siviglia, S.Tommaso d’Aquino). E quando dico “liberamente” (termine che mi è stato contestato), intendo semplicemente dire: “accostando fra loro i diversi passi, in maniera libera seppur logica, a servizio del contesto drammaturgico che occorreva delineare, ma senza variare nemmeno di uno iota o di un apice il sacro testo stesso”!!!
Mi si obietterà che con “Leo et Aquila” si è per l’appunto trattato non di un semplice “concerto”, ma di un’azione scenica: per di più con la presenza, oltre che di una scenografia, anche di una coreografia. Per quel che riguarda la prima, chiunque abbia assistito all’evento avrà notato trattarsi di una scenografia mirante all’essenziale ed allo stilizzato, in perfetta consonanza con l’intento simbolicamente e meditativamente austero che si intendeva perseguire. Sulla scena vi erano solamente un albero ed una fonte ottagonale, rispettivamente simboli tradizionali dell’albero del Paradiso (nonché della croce) e del fonte battesimale, i quali si inserivano nel contesto drammaturgico del quale erano protagonisti il leone e l’aquila, a loro volta simboli tradizionali della regalità terrena e celeste del Cristo Gesù. Oltretutto, come si sarà evinto sempre durante la partecipazione all’evento, la fine dell’azione era suggellata dall’evidenziazione scenica di un logo, su cui compariva la frase “Iesus Homo Dominus Deus”, ottenuto dalla sovrapposizione acrostica delle iniziali delle parole di tale frase stessa, il quale ribadiva quale fosse il contenuto sotteso a tutta l’azione scenica. Come si può dedurre, il tutto mirava dunque esclusivamente alla meditazione su Nostro Signore ed alla Sua lode; e ciò per il tramite di strumenti estetici (auditivi e visivi) quali sono quelli artistici, la cui prerogativa precipua è ovviamente quella di esprimersi attraverso un linguaggio evocativo ed interpretativo piuttosto che discorsivo: ma, in questo caso, pur sempre doverosamente spirituale e religioso.
Medesimo spirito ha informato la coreografia, la quale è stata utilizzata, sempre in maniera simbolica, per rendere maggiormente visibile il testo per l’appunto, come dicevo, tutto cantato in latino. Ben consapevole del pericolo che l’arte coreutica, più di ogni altra arte, possa facilmente ridursi a grossolana evocazione di carnalità, si è convenuto che la parte danzata seguisse in maniera strettamente didascalica i contenuti dei passi biblici e patristici. Sebbene fosse stato distribuito il “libretto” (con il testo latino e la traduzione italiana a fronte) a beneficio di una miglior comprensione di tali contenuti, lo scopo non era ad ogni modo solo esplicitare ulteriormente la lettera del testo, ma anche lo spirito di esso attraverso l’indubitabile corrispondenza che sussiste tra “segno e realtà”, affidandosi alle prerogative di “edificazione” che i segni per l’appunto posseggono. A descrivere il processo interiore per cui i “segni” contribuiscono alla conversione del cuore è Sant'Agostino: “La presentazione della verità mediante segni ha il potere di accendere ed accrescere quell'ardente amore per il quale noi, come fiamme che obbediscono alle leggi della natura, gravitiamo verso l'alto e contemporaneamente verso le profondità, cercando un luogo di riposo. Presentate in questo modo, le cose ci commuovono ed attivano le nostre emozioni molto di più che se venissero esposte con la mera ragione. (...) Credo che le emozioni vengano accese meno facilmente mentre l'anima è assorta nelle cose materiali, ma quando essa viene condotta a segni materiali delle realtà spirituali, e da questi poi verso le cose che i segni rappresentano, allora l'anima si rafforza nell'atto stesso di passare dagli uni alle altre, appunto come la fiamma di una fiaccola che, muovendosi, arde sempre più intensamente (Epistola, 55, 11, 21)”. Dunque, in “Leo et Aquila” la danza vuole essere intesa quale una sorta di “icona in movimento”, quale oscillazione tra realtà materiale e segno spirituale, tra realismo e misticismo; ove il corpo umano possa affrancarsi dalle lascivie degradanti a cui la quotidianità odierna ci ha costretto, per riscoprirlo nell’unica e medesima luce che permetteva al Poverello d'Assisi di amare tutte le cose di questo mondo. Come testimonia Tommaso da Celano, S. Francesco effettivamente “…in ogni opera loda l'Artefice, tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore e, attraverso questa visione letificante, intuisce la causa e la ragione che le vivifica (…) Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono (Vita seconda di S.Francesco d’Assisi, CXXIV, 165)”. Questo carattere contemplante e laudativo, che la danza può incarnare in maniera alternativa alla frenesia ed alla cupidigia idolatrica delle sue degenerate e degradanti forme secolarizzate, è quello stesso a cui si allude nei Salmi: “Lodino il suo nome con danze” (149,3); ed anche “Lodatelo con il timpano e le danze” (150,4). Si sa infatti che “…Dio dimora tra le lodi del suo popolo” (22,3), in quanto Egli “…uscirà in mezzo alle danze di quelli che gioiscono” (Ger 31,4), poiché “…è un Dio di movimento e di danza” (Sof 3,17), ed è così che Egli ha mutato “…il mio dolore in danza” (Sal 30,11). L’immagine della danza, infine, è usata anche in senso metaforico per designare la gioia dei tempi messianici: “Allora la vergine si rallegrerà nella danza, i giovani gioiranno insieme ai vecchi; io muterò il loro lutto in gioia, li consolerò, li rallegrerò liberandoli del loro dolore” (Ger 31, 13); e S.Basilio, nella sua Epistola a Gregorio, afferma che la danza è “l'unica occupazione degli angeli in cielo e fortunati quegli uomini che potevano imitarli sulla terra; gli apostoli e i martiri sono guerrieri vincitori che danzano dopo la battaglia”. Proprio alla luce di tutto ciò, non è stata pertanto ravvisata da parte nostra alcuna illiceità nemmeno nel proporre una coreografia entro il contesto sacro di Collemaggio! Comunque sia, seppure nella storia passata della Chiesa si possono ricordare anche alcuni esempi di danze liturgiche (come ad esempio durante il Medioevo a Sens, in Francia, ove la notte di Pasqua l’arcivescovo onorava il suo appellativo di “presule” - etimologicamente prae silit = colui che inizia il ballo o che balla davanti - conducendo una danza rituale nel chiostro e poi nel coro, innanzi all’altare), ebbene oggi, a seguito dei tanti abusi perpetrati in passato, non è più così! Se la danza non può però costituirsi quale danza liturgica (cosa che noi non intendiamo affatto perseguire), perlomeno, obbedendo agli stessi parametri a cui si sottopone la musica, può essere riconosciuta quale danza religiosa; la cui esistenza è del resto contemplata anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1674). A noi sta soltanto di discernere se la nostra danza intenda esser buona e portatrice di vita, in un corpo che sia “…quale ostia viva, santa, gradita a Dio” (Rom 12,1); oppure se porti alla morte (cfr. episodi biblici di Nadab e Abihu, Erodiade o il vitello d’oro). Il nostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è Signore e agisce come vuole; di certo non sta all’uomo giudicarlo, ma soltanto farne buon uso! Così come del resto deve esser nostro scrupolo far buon uso dei segni simbolici: e quando dico “simbolico” intendo alludere a tutto ciò che solo può permettere di osare un qualunque discorso attorno all’ineffabile! Mi è stato eccepito di esser ricorso ad immagini “mitologiche” di dubbia matrice (in odore di new age o di squadra e compasso): convengo che oggigiorno l’abuso è tale da invitare alla prudenza! Ma la prudenza non deve significare la rinuncia a quelli che ritengo rappresentare gli unici strumenti validi per cercare di rielevare la decaduta arte odierna; la quale, da mero immanente momento d’evasione ed autoesaltazione egoica, a mio modo di sentire deve recuperare la sua originale trascendente connotazione (est)etica: ovvero di orante e laudativa rappresentazione sia “del bello” che “del vero” metafisico! Ed è proprio questa capacità di “unificazione” a costituirsi come la proprietà esclusiva del simbolo: ed a tutti i livelli! Come è già nella parola (dal greco “syn-bolon”), il “simbolo è ciò che permette l’unione trascendente: tra il visibile e l’invisibile, tra la terra ed il Cielo, tra ogni complementarietà che ambisca all’unità”. L’adozione del linguaggio simbolico è ciò che non solo ha reso grande l’arte cristiana antica e medievale, ma, come coglieva S.Agostino nella summenzionata sua Epistola, è proprio quanto ne ha reso più efficace il suo intento di lode e preghiera. In quanto artista, mi sono ripromesso con “Leo et Aquila” di perseguire con maggior decisione l’adozione di quel gesto simbolico che miri al trascendente, e che oggi purtroppo difetta sia alla musica che alla danza o al teatro. Certo il leone e l’aquila sono animali spesso protagonisti di racconti mitologici, ma sono proprio per questo anche simboli: e del resto il mito non è altro che un “ricorso ad immagini” per riuscire ad esprimere verità altre, poste cioè nel “Mistero”, bel al di là delle capacità umane di discorsività logica. In lingua greca le parole “mythos” e “logos” si equivalgono in quanto entrambe traducono “parola, discorso, racconto”. Certamente in ambito cristiano, grazie al Prologo del Vangelo di S.Giovanni, il Logos ha assunto connotazioni più elevate nel suo venire a riferirsi al Cristo Gesù; ma nel “mythos” permane ancora la possibilità, allorché depurato dai suoi antecedenti pagani, di costituirsi quale servitore ossequioso della verità cristiana qualora esso si prefigga di costituirsi quale “racconto-leggenda” del Logos. E quando dico “leggenda” (dal gr. “logos” e poi anche dal lat. “lego”), intendo tale termine non nel senso di “irreale, fantastico”, bensì in quello più propriamente etimologico di “ciò che va letto e interpretato tra le righe”, ossia “ciò che va cercato e visto nell’invisibile”!
(Continua - fine prima parte)
L’Aquila, 18 aprile 2012 Cosmo Intini
Gentilissimo Direttore di “Messainlatino.it”,
sono Cosmo Intini, l’ideatore e regista, nonché compositore della musica dell’azione scenica “Leo et Aquila”.
Ripromettendomi di far prima trascorrere nella dovuta riflessione il santo momento della Pasqua di Risurrezione, ho indugiato fino ad oggi nel chiederLe cortesemente di concedermi il diritto di rispondere ad alcune critiche che sono state mosse, attraverso il Suo blog, contro di me e la mia iniziativa artistico-spirituale che ha avuto luogo presso la Basilica di Collemaggio, in L’Aquila, lo scorso 17 marzo. Del resto, tengo subito a precisare che mi risolvo a ciò non certamente con astioso spirito di polemica, ma per puro desiderio di chiarimento e di verità a seguito delle numerose incomprensioni ed imprecisioni che ho riscontrato manifestarsi a mio indirizzo da parte (ahimè) di alcuni “fratelli nella fede”! Sono certo che Ella, con la dovuta correttezza, converrà utile ed opportuno permettermi di far ascoltare ai Suoi lettori la mia versione dei fatti, che intendo qui proporre con l’unico auspicio di ricondurre gli animi ad un po’ di serenità.
Il primo punto che vorrei affrontare riguarda la contestata liceità di rappresentare in una Chiesa uno spettacolo artistico. Sono del tutto d’accordo con chiunque si faccia carico di vigilare affinché il luogo sacro e di culto sia utilizzato senza dare occasione ad abusi o, peggio, a profanazioni. Proprio in quanto condivido la necessità di far un continuo riferimento alle norme canoniche, personalmente ritengo dunque opportune le restrizioni sottolineate e ribadite nel Documento della Congregazione per il Culto Divino (in data 5 Novembre 1987), con specifico riferimento all’uso che nelle Chiese deve esser fatto dei diversi generi di musica. Dopo aver precisato che, in quanto al loro carattere, i generi musicali possono suddividersi in “sacri, religiosi e non religiosi”, il predetto Documento dice infatti testualmente: “Non è legittimo programmare in una chiesa l’esecuzione di una musica che non è di ispirazione religiosa e che è stata composta per essere eseguita in contesti profani precisi, sia essa classica. o contemporanea. di alto livello o popolare: ciò non rispetterebbe il carattere sacro della chiesa, e la stessa opera musicale eseguita in un contesto non connaturale ad essa” (3.8). Premesso ciò, dando dunque per scontata l’improponibilità di concerti “non religiosi” all’interno di un luogo di culto, a riguardo comunque di eventuali esecuzioni di musiche che non siano direttamente inerenti alle celebrazioni liturgiche (che non siano cioè di carattere precipuamente “sacro”), sempre nel medesimo Documento si contempla la possibile evenienza anche dei così definiti “concerti spirituali”: “…tali perché la musica eseguita in essi può considerarsi religiosa, per il tema che essa tratta, per i testi che le melodie rivestono, per l’ambito in cui tali esecuzioni avvengono” (1.2). Sempre a proposito di questi “concerti spirituali”, più avanti (3.9) si specifica ancora che: “La musica sacra, cioè quella che è stata composta per la liturgia, ma che per motivi contingenti non può essere eseguita durante una celebrazione liturgica, e la musica religiosa, cioè quella che si ispira al testo della Sacra Scrittura o della Liturgia o che richiama a Dio, alla Vergine Maria, ai Santi, o alla Chiesa,…possono avere il loro posto nella chiesa…(in quanto) possono servire o favorire la pietà o la religione. Esse hanno una loro particolare utilità:
a) per preparare alle principali feste liturgiche, o donare ad esse una più grande festosità, al di
fuori delle celebrazioni;
b) per accentuare il carattere particolare dei diversi tempi liturgici;
c) per creare nelle chiese un ambiente di bellezza e di meditazione, che aiuti e favorisca, anche in
coloro che sono lontani dalla Chiesa, una disposizione a recepire i valori dello spirito”.
Alla luce di tutto ciò, non vedo dunque alcuna illiceità intanto nell’esecuzione delle musiche dell’azione scenica “Leo et Aquila” nella Basilica di Collemaggio, le quali sono state composte completamente per “rivestire” il sacro testo cantato, peraltro in latino; testo il quale è liberamente desunto dall’Antico, dal Nuovo Testamento e dalla Patristica (Genesi, Giobbe, Salmi, Proverbi, Siracide, Isaia, Geremia, Osea, Abacuc, Matteo, Apocalisse, Pseudo Dionigi, Isidoro di Siviglia, S.Tommaso d’Aquino). E quando dico “liberamente” (termine che mi è stato contestato), intendo semplicemente dire: “accostando fra loro i diversi passi, in maniera libera seppur logica, a servizio del contesto drammaturgico che occorreva delineare, ma senza variare nemmeno di uno iota o di un apice il sacro testo stesso”!!!
Mi si obietterà che con “Leo et Aquila” si è per l’appunto trattato non di un semplice “concerto”, ma di un’azione scenica: per di più con la presenza, oltre che di una scenografia, anche di una coreografia. Per quel che riguarda la prima, chiunque abbia assistito all’evento avrà notato trattarsi di una scenografia mirante all’essenziale ed allo stilizzato, in perfetta consonanza con l’intento simbolicamente e meditativamente austero che si intendeva perseguire. Sulla scena vi erano solamente un albero ed una fonte ottagonale, rispettivamente simboli tradizionali dell’albero del Paradiso (nonché della croce) e del fonte battesimale, i quali si inserivano nel contesto drammaturgico del quale erano protagonisti il leone e l’aquila, a loro volta simboli tradizionali della regalità terrena e celeste del Cristo Gesù. Oltretutto, come si sarà evinto sempre durante la partecipazione all’evento, la fine dell’azione era suggellata dall’evidenziazione scenica di un logo, su cui compariva la frase “Iesus Homo Dominus Deus”, ottenuto dalla sovrapposizione acrostica delle iniziali delle parole di tale frase stessa, il quale ribadiva quale fosse il contenuto sotteso a tutta l’azione scenica. Come si può dedurre, il tutto mirava dunque esclusivamente alla meditazione su Nostro Signore ed alla Sua lode; e ciò per il tramite di strumenti estetici (auditivi e visivi) quali sono quelli artistici, la cui prerogativa precipua è ovviamente quella di esprimersi attraverso un linguaggio evocativo ed interpretativo piuttosto che discorsivo: ma, in questo caso, pur sempre doverosamente spirituale e religioso.
Medesimo spirito ha informato la coreografia, la quale è stata utilizzata, sempre in maniera simbolica, per rendere maggiormente visibile il testo per l’appunto, come dicevo, tutto cantato in latino. Ben consapevole del pericolo che l’arte coreutica, più di ogni altra arte, possa facilmente ridursi a grossolana evocazione di carnalità, si è convenuto che la parte danzata seguisse in maniera strettamente didascalica i contenuti dei passi biblici e patristici. Sebbene fosse stato distribuito il “libretto” (con il testo latino e la traduzione italiana a fronte) a beneficio di una miglior comprensione di tali contenuti, lo scopo non era ad ogni modo solo esplicitare ulteriormente la lettera del testo, ma anche lo spirito di esso attraverso l’indubitabile corrispondenza che sussiste tra “segno e realtà”, affidandosi alle prerogative di “edificazione” che i segni per l’appunto posseggono. A descrivere il processo interiore per cui i “segni” contribuiscono alla conversione del cuore è Sant'Agostino: “La presentazione della verità mediante segni ha il potere di accendere ed accrescere quell'ardente amore per il quale noi, come fiamme che obbediscono alle leggi della natura, gravitiamo verso l'alto e contemporaneamente verso le profondità, cercando un luogo di riposo. Presentate in questo modo, le cose ci commuovono ed attivano le nostre emozioni molto di più che se venissero esposte con la mera ragione. (...) Credo che le emozioni vengano accese meno facilmente mentre l'anima è assorta nelle cose materiali, ma quando essa viene condotta a segni materiali delle realtà spirituali, e da questi poi verso le cose che i segni rappresentano, allora l'anima si rafforza nell'atto stesso di passare dagli uni alle altre, appunto come la fiamma di una fiaccola che, muovendosi, arde sempre più intensamente (Epistola, 55, 11, 21)”. Dunque, in “Leo et Aquila” la danza vuole essere intesa quale una sorta di “icona in movimento”, quale oscillazione tra realtà materiale e segno spirituale, tra realismo e misticismo; ove il corpo umano possa affrancarsi dalle lascivie degradanti a cui la quotidianità odierna ci ha costretto, per riscoprirlo nell’unica e medesima luce che permetteva al Poverello d'Assisi di amare tutte le cose di questo mondo. Come testimonia Tommaso da Celano, S. Francesco effettivamente “…in ogni opera loda l'Artefice, tutto ciò che trova nelle creature lo riferisce al Creatore. Esulta di gioia in tutte le opere delle mani del Signore e, attraverso questa visione letificante, intuisce la causa e la ragione che le vivifica (…) Attraverso le orme impresse nella natura, segue ovunque il Diletto e si fa scala di ogni cosa per giungere al suo trono (Vita seconda di S.Francesco d’Assisi, CXXIV, 165)”. Questo carattere contemplante e laudativo, che la danza può incarnare in maniera alternativa alla frenesia ed alla cupidigia idolatrica delle sue degenerate e degradanti forme secolarizzate, è quello stesso a cui si allude nei Salmi: “Lodino il suo nome con danze” (149,3); ed anche “Lodatelo con il timpano e le danze” (150,4). Si sa infatti che “…Dio dimora tra le lodi del suo popolo” (22,3), in quanto Egli “…uscirà in mezzo alle danze di quelli che gioiscono” (Ger 31,4), poiché “…è un Dio di movimento e di danza” (Sof 3,17), ed è così che Egli ha mutato “…il mio dolore in danza” (Sal 30,11). L’immagine della danza, infine, è usata anche in senso metaforico per designare la gioia dei tempi messianici: “Allora la vergine si rallegrerà nella danza, i giovani gioiranno insieme ai vecchi; io muterò il loro lutto in gioia, li consolerò, li rallegrerò liberandoli del loro dolore” (Ger 31, 13); e S.Basilio, nella sua Epistola a Gregorio, afferma che la danza è “l'unica occupazione degli angeli in cielo e fortunati quegli uomini che potevano imitarli sulla terra; gli apostoli e i martiri sono guerrieri vincitori che danzano dopo la battaglia”. Proprio alla luce di tutto ciò, non è stata pertanto ravvisata da parte nostra alcuna illiceità nemmeno nel proporre una coreografia entro il contesto sacro di Collemaggio! Comunque sia, seppure nella storia passata della Chiesa si possono ricordare anche alcuni esempi di danze liturgiche (come ad esempio durante il Medioevo a Sens, in Francia, ove la notte di Pasqua l’arcivescovo onorava il suo appellativo di “presule” - etimologicamente prae silit = colui che inizia il ballo o che balla davanti - conducendo una danza rituale nel chiostro e poi nel coro, innanzi all’altare), ebbene oggi, a seguito dei tanti abusi perpetrati in passato, non è più così! Se la danza non può però costituirsi quale danza liturgica (cosa che noi non intendiamo affatto perseguire), perlomeno, obbedendo agli stessi parametri a cui si sottopone la musica, può essere riconosciuta quale danza religiosa; la cui esistenza è del resto contemplata anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica (n. 1674). A noi sta soltanto di discernere se la nostra danza intenda esser buona e portatrice di vita, in un corpo che sia “…quale ostia viva, santa, gradita a Dio” (Rom 12,1); oppure se porti alla morte (cfr. episodi biblici di Nadab e Abihu, Erodiade o il vitello d’oro). Il nostro corpo è il tempio dello Spirito Santo che è Signore e agisce come vuole; di certo non sta all’uomo giudicarlo, ma soltanto farne buon uso! Così come del resto deve esser nostro scrupolo far buon uso dei segni simbolici: e quando dico “simbolico” intendo alludere a tutto ciò che solo può permettere di osare un qualunque discorso attorno all’ineffabile! Mi è stato eccepito di esser ricorso ad immagini “mitologiche” di dubbia matrice (in odore di new age o di squadra e compasso): convengo che oggigiorno l’abuso è tale da invitare alla prudenza! Ma la prudenza non deve significare la rinuncia a quelli che ritengo rappresentare gli unici strumenti validi per cercare di rielevare la decaduta arte odierna; la quale, da mero immanente momento d’evasione ed autoesaltazione egoica, a mio modo di sentire deve recuperare la sua originale trascendente connotazione (est)etica: ovvero di orante e laudativa rappresentazione sia “del bello” che “del vero” metafisico! Ed è proprio questa capacità di “unificazione” a costituirsi come la proprietà esclusiva del simbolo: ed a tutti i livelli! Come è già nella parola (dal greco “syn-bolon”), il “simbolo è ciò che permette l’unione trascendente: tra il visibile e l’invisibile, tra la terra ed il Cielo, tra ogni complementarietà che ambisca all’unità”. L’adozione del linguaggio simbolico è ciò che non solo ha reso grande l’arte cristiana antica e medievale, ma, come coglieva S.Agostino nella summenzionata sua Epistola, è proprio quanto ne ha reso più efficace il suo intento di lode e preghiera. In quanto artista, mi sono ripromesso con “Leo et Aquila” di perseguire con maggior decisione l’adozione di quel gesto simbolico che miri al trascendente, e che oggi purtroppo difetta sia alla musica che alla danza o al teatro. Certo il leone e l’aquila sono animali spesso protagonisti di racconti mitologici, ma sono proprio per questo anche simboli: e del resto il mito non è altro che un “ricorso ad immagini” per riuscire ad esprimere verità altre, poste cioè nel “Mistero”, bel al di là delle capacità umane di discorsività logica. In lingua greca le parole “mythos” e “logos” si equivalgono in quanto entrambe traducono “parola, discorso, racconto”. Certamente in ambito cristiano, grazie al Prologo del Vangelo di S.Giovanni, il Logos ha assunto connotazioni più elevate nel suo venire a riferirsi al Cristo Gesù; ma nel “mythos” permane ancora la possibilità, allorché depurato dai suoi antecedenti pagani, di costituirsi quale servitore ossequioso della verità cristiana qualora esso si prefigga di costituirsi quale “racconto-leggenda” del Logos. E quando dico “leggenda” (dal gr. “logos” e poi anche dal lat. “lego”), intendo tale termine non nel senso di “irreale, fantastico”, bensì in quello più propriamente etimologico di “ciò che va letto e interpretato tra le righe”, ossia “ciò che va cercato e visto nell’invisibile”!
(Continua - fine prima parte)
L’Aquila, 18 aprile 2012 Cosmo Intini
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