L'Assemblea dei rabbini d'Italia ha comunicato che, almeno per quest'anno, non vi sarà collaborazione fra le Comunità ebraiche d'Italia e le istituzioni cattoliche per la celebrazione della Giornata dell'ebraismo (17 gennaio). È la logica conseguenza di un momento particolare che sta vivendo il dialogo interconfessionale oggi, momento i cui segni hanno cominciato a manifestarsi quando il Papa, liberalizzando la messa in latino, ha indicato nel Messale tridentino il modulo da seguire. In quella formulazione, nelle preghiere del Venerdì Santo è contenuta una preghiera che auspica la conversione degli ebrei alla «verità» della Chiesa e alla fede nel ruolo salvifico di Gesù. A onor del vero, quella preghiera, che nella prima formulazione definiva gli ebrei «perfidi», ossia «fuori dalla fede» e ciechi, era già stata «saltata» (ma mai abolita) da Giovanni XXIII. Benedetto XVI l'ha espurgata dai termini più offensivi e l'ha reintrodotta. Fin dal primo momento, l'Assemblea dei rabbini d'Italia ha preso una pausa di riflessione, sospendendo temporaneamente gli incontri interreligiosi. I mesi successivi sono stati caratterizzati da un susseguirsi di contatti, incontri e mediazioni con diversi esponenti, anche ad alto livello, del mondo ecclesiastico, alcuni dei quali si sono dimostrati sinceramente preoccupati per il futuro di un dialogo che stava procedendo in maniera fruttuosa e che registrava un allargarsi del senso di rispetto e di pari dignità delle fedi. Purtroppo, i risultati si sono dimostrati deludenti. Si sono registrate reazioni «offese» da parte di alte gerarchie vaticane: «Come si permettono gli ebrei di giudicare in che modo un cristiano deve pregare? Forse che la Chiesa si permette di espungere dal rituale delle preghiere ebraiche alcune espressioni che possono essere interpretate come anticristiane?». Altri prelati hanno ritenuto che l'atteggiamento dei rabbini italiani fosse dettato da una «ipersensibilità» ebraica ai tentativi di proselitismo, ipersensibilità non giustificata dai fatti. Invece, e questa è stata la risposta più o meno ufficiale (una risposta della Conferenza episcopale, sia pure sollecitata, è mancata), gli ebrei non hanno niente da temere: la speranza espressa dalla preghiera «Pro Judaeis» è «puramente escatologica», è una speranza relativa alla «fine dei tempi» e non invita a fare proselitismo attivo (peraltro già vietato da Paolo VI) [ah è così? ma Gesù non diceva esattamente il contrario, ossia di evangelizzare e cominciando proprio dal suo popolo? E' ovvio che un proselitismo violento o capzioso è da condannare; e si comprende anche l'ipersensibilità degli Ebrei alla luce di secoli di persecuzioni e discriminazioni. Ma proporre una conversione (che è ben diverso da imporre), anzi semplicemente pregare per essa, quale nocumento crea?].
Queste risposte non hanno affatto accontentato il Rabbinato italiano. Se io ritengo, sia pure in chiave escatologica, che il mio vicino debba diventare come me per essere degno di salvezza, non rispetto la sua identità. Non si tratta, quindi, di ipersensibilità: si tratta del più banale senso del rispetto dovuto all'altro come creatura di Dio. Se a ciò aggiungiamo le più recenti prese di posizione del Papa in merito al dialogo, definito inutile perché in ogni caso va testimoniata la superiorità della fede cristiana, è evidente che stiamo andando verso la cancellazione degli ultimi cinquant'anni di storia della Chiesa. In quest'ottica, l'interruzione della collaborazione tra ebraismo italiano e Chiesa è la logica conseguenza del pensiero ecclesiastico espresso dalla sua somma autorità. È vero, la Chiesa non si permette di correggere le preghiere ebraiche (anche se un tempo la censura ecclesiastica è stata alquanto attiva). Ma è da dire che le preghiere che qualcuno vuole interpretare come anticristiane sono in realtà contro «coloro che si inchinano agli idoli» e contro «i calunniatori e gli eretici». Perché dei cristiani dovrebbero sentirsi presi di mira? Che cosa pensano di se stessi? [le statue di Santi, Cristi e Madonne, che noi onoriamo, sono considerate 'idoli' dagli Ebrei. Questo è un dato oggettivo (ed un loro diritto) e pertanto quelle preghiere sono rivolte nei nostri confronti. Senza che nessuno se ne scandalizzi]. È vero, non sta agli ebrei insegnare ai cristiani come devono pregare o che cosa devono pensare, e nessuno fra gli ebrei o i rabbini italiani pretende di farlo. Ma è chiaro che dialogare vuol dire rispettare ognuno il diritto dell'altro ad essere se stesso, cogliere la possibilità di imparare qualcosa dalla sensibilità dell'altro, qualcosa che mi può arricchire. Quando l'idea di dialogo come rispetto (non come sincretismo e non come prevaricazione) sarà ripristinata, i rabbini italiani saranno sempre pronti a svolgere il ruolo che hanno svolto negli ultimi cinquant'anni.
per il rinnovamento liturgico della Chiesa, nel solco della Tradizione - a.D. 2008 . - “Multa renascentur quae iam cecidere”
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mercoledì 14 gennaio 2009
L'Aventino dei rabbini italiani
Il mensile Popoli dei Gesuiti pubblica il seguente intervento del rabbino di Venezia. Giusto pubblicarlo, intendiamoci, ma la nota redazionale che lo precede è un capolavoro di ipocrisia: "Il primo passo per un dialogo autentico è mettersi in ascolto delle ragioni dell'altro. Con tale convinzione, che anima la linea editoriale della nostra rivista, ospitiamo volentieri il commento del rabbino Richetti". I redattori di quella rivista infatti sembrano interessati più che a "mettersi in ascolto", a mettere in difficoltà l'attuale Pontefice, tanto vero che, ad esempio, Popoli distribuisce ai suoi abbonati l'ultimo lavoro del card. Martini che, per dire il meno, non si pone certo nella linea del Magistero papale (fonte: Magister blog). Significativo anche il fatto che il vecchio nome della rivista (quando i Gesuiti erano Gesuiti), ossia Popoli e Missione, abbia perso per strada la missione (nel 1987; fonte: gesuiti.it). A che serve infatti la missione, se (come si legge nell'intestazione del sito della rivista: v. link sopra) «La nostra opzione per i poveri deve estendersi anche alle loro culture e valori, spesso basati su una ricca e fruttuosa tradizione» e «Come compagni di Gesù inviati nel mondo di oggi, un mondo caratterizzato dal pluralismo religioso, abbiamo una particolare responsabilità nel promuovere il dialogo interreligioso»? L'ecumenismo così inteso è evidentemente l'opposto dello spirito missionario: come si potrebbe predicare una verità cattolica, se non sappiamo dove sia la verità, ammesso che ne esista una?
Ma passiamo al commento del Dott. Richetti (con alcune nostre interpolazioni in rosso).
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RispondiEliminaLa consapevolezza della Chiesa di essere portatrice della Parola che Salva, non può essere taciuta a coloro che ancora non la conoscono in virtù di una presunta mancanza di rispetto. E' un dono e come tale va trattato: lo si accetta, o lo si rifiuta!
RispondiEliminaMa senza sentimenti di rabbia o rancore per presunte ingerenze nella "sensibilità" di altre culture e tradizioni.