Grazie ad Investigatore Biblico per i tagli della liturgia Novus Ordo.
Luigi C.
21-10-25
Mi ha colpito la prima lettura che leggeremo domenica 26 ottobre 2025, tratta dal libro del Siracide, capitolo 35, versetti 15b-17 e 20-22a (Vangelo e parola del giorno 26 ottobre 2025 – Vatican News). È una pagina bella, intensa, che parla di come il Signore ascolta la preghiera del povero, che la supplica dell’umile attraversa le nubi e non desiste finché Dio non interviene. Ma, come accade non di rado, il brano è stato “mozzato” di due versetti. Mancano proprio quelli che dicono: «Le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance e il suo grido non si alza contro chi gliele fa versare?» (Sir 35,18-19).
Ogni volta che incontro questi tagli nella Parola di Dio mi prende un piccolo turbamento. Capisco il desiderio dei liturgisti di rendere la proclamazione più snella, di concentrarsi su alcuni aspetti essenziali, ma c’è un rischio: quello di trattare la Scrittura come un tessuto da ritagliare, e non come una voce viva che ci parla in tutta la sua unità. Anche un solo versetto, se tolto, può spegnere una luce o soffocare un grido.
Nel caso del Siracide, quei due versetti non sono affatto marginali. Sono, direi, il cuore concreto del brano. Il testo ci parla del Dio che ascolta la preghiera del povero, che non trascura la supplica dell’orfano e che accoglie la voce della vedova. Ma nei versetti omessi la vedova non è solo nominata: è mostrata. Le sue lacrime scorrono sulle guance, il suo grido si leva contro chi l’ha fatta piangere. Non è più un’idea, è una presenza. E in quella presenza si rivela la carne stessa della giustizia di Dio.
Questo dettaglio è decisivo: la fede biblica non è mai astratta, non parla di giustizia in generale, ma la fa scendere nella realtà di un volto, di una storia, di un dolore. Quando il Siracide descrive le lacrime della vedova, dà voce a tutto quel mondo di ingiustizie silenziose che l’uomo tende a non vedere. E Dio invece vede. Vede le lacrime, ascolta il grido, e lo pone al centro del suo giudizio.
Pensiamo a quante volte la Scrittura ci richiama a questa verità: «Non maltratterai la vedova né l’orfano» (Es 22,21), e il Deuteronomio aggiunge che Dio «fa giustizia all’orfano e alla vedova» (Dt 10,18). I profeti, da Isaia a Geremia, da Amos a Malachia, non fanno che ripeterlo: la misura della giustizia di un popolo si riconosce da come tratta i più deboli (Is 1,17; Ger 7,6; Am 2,7; Ml 3,5). Nel Nuovo Testamento, Gesù stesso raccoglie questo grido nella parabola della vedova importuna, che non si stanca di chiedere giustizia (Lc 18,1-8).
Capire allora perché quei due versetti siano importanti è facile: senza di essi la lettura rischia di perdere la sua forza profetica, quella che ci mette in crisi e ci costringe a guardare il mondo con gli occhi di Dio. Resta la preghiera del povero, sì, ma si attenua la denuncia dell’ingiustizia, la responsabilità dell’uomo verso il dolore dell’altro. È come se la liturgia, per rendere più dolce la parola, la rendesse anche meno tagliente.
Ma la Parola di Dio non va addolcita. Essa è come una spada che penetra, che divide la luce dalle tenebre, la giustizia dall’indifferenza (Eb 4,12). Quando sentiamo dire «le lacrime della vedova non scendono forse sulle sue guance?», ci è chiesto di fermarci, di riconoscere quelle lacrime nei volti che incontriamo, di non restare spettatori.
La liturgia non deve proteggerci dall’urto della Parola, ma farci entrare in esso. Perché è in quell’urto che si apre lo spazio della conversione. Ogni volta che una lettura viene semplificata, c’è il rischio che diventi più facile da ascoltare, ma meno capace di trasformarci.
La forza del Siracide, in tutta la sua interezza, sta nel legare l’offerta e la giustizia, la preghiera e la compassione. Non basta offrire a Dio sacrifici o parole: se le lacrime della vedova scendono e noi non le vediamo, il nostro culto è incompleto. La Bibbia tiene sempre insieme il rapporto con Dio e il rapporto con il fratello. L’uno è misura dell’altro. «Chi opprime il povero offende il suo Creatore, chi ha pietà del misero lo onora» (Pr 14,31). «Una religione pura e senza macchia davanti a Dio Padre è questa: visitare gli orfani e le vedove nelle loro tribolazioni e conservarsi puri da questo mondo» (Gc 1,27).
Per questo credo che ogni omissione, anche minima, debba essere guardata con timore e rispetto. Non per accusare, ma per custodire. La Parola non è nostra, non è materia da adattare: è un dono che ci supera, e ci chiede di essere accolta nella sua interezza. Quando lasciamo fuori il pianto della vedova, rischiamo di lasciare fuori la voce di Dio che parla attraverso quel pianto.
Forse, se la domenica del 26 ottobre ascoltassimo tutto il brano del Siracide, ci accorgeremmo che quella vedova ci è più vicina di quanto pensiamo. Le sue lacrime scendono sulle guance di tanti, anche oggi, e il suo grido continua a salire, non solo verso il cielo, ma anche verso di noi. Ed è proprio quel grido, accolto nella Parola e nel cuore, che può rendere la nostra preghiera autentica, la nostra offerta vera, la nostra liturgia viva.
