Nel dibattito relativo al suicidio medicalmente assistito si
levano anche voci di autorità e studiosi cattolici aperti a concessioni che
strizzano l’occhio alla parte suicidaria. Com’è possibile che esponenti
autorevoli del cattolicesimo arrivino a tanto? Certamente ciò è dovuto a
un’evoluzione della cultura ecclesiastica, della quale sarebbe interessante
ricostruire qualche tappa.
A tal fine, tra le molte piste che si potrebbero percorrere, oggi provo a seguire quella magistralmente segnata negli studi del professor Romano Amerio, specialmente tramite il suo capolavoro “Iota unum” (qui citato dall’edizione “Lindau”). Lo “Iota” si preoccupava effettivamente di raccogliere le principali “variazioni” avvenute nel pensiero e nel Magistero cattolico in vent’anni di riforme post-conciliari.
Prendo come riferimento due capitoli, tra i molti che
l’autore dedica a temi specifici: quello relativo all’esaltazione del corpo
(somatolatria) e quello relativo ai suicidi. Credo che siano due temi utili a
descrivere l’ennesima ‘variazione’ in corso, quella bioetica.
Agganciandosi a questioni precedenti, Amerio introduce il
problema somatolatrico con queste parole: “se la sessualità è sembrata
frequentemente la forma stessa della persona umana, molto più generale è
l’assecondamento del culto della corporeità,
di cui la civiltà contemporanea ha fatto una parte saliente della vita
dell’uomo” (216). Siamo in tal modo introdotti in una questione epocale:
l’avanzamento del primato corporale, non solo nella sua espressione sessuale,
ma in genere come esaltazione dell’oggetto corporeo in se stesso. Si tratta di
un forte cambio di paradigma, ovviamente non neutro. Anzi, l’emergere del culto
corporale opera in aperto contrasto con i principi spirituali, perché “avanzando
la somatolatria indietreggiano per necessaria conseguenza il principio
penitenziale e l’esigenza ascetica propri della religione cattolica” (225). E
quanto sia il discredito in cui sono caduti digiuno e penitenza è fatto
evidente a tutti, né mi dilungherò a cercarne prove. Mi soffermo invece
sull’approfondimento teologico non secondario che “Iota” precisa al lettore,
muovendo dall’analisi del senso del digiuno: “il digiuno nella religione
cattolica ha un fondamento prettamente dogmatico: è un’applicazione speciale
del dovere della mortificazione e questo discende a sua volta dal dogma della
corruzione originale. Soltanto se la natura non è guasta e concupiscente, i
suoi impulsi sono fidentemente da secondare anziché da reprimere”. Non una moda
o una sensibilità guidano il credente nella pratica del digiuno o negli atti
penitenziali, bensì la consapevolezza di dover costantemente combattere in se
stesso il riemergere di passioni corruttrici. E ancora, non l’ostentazione o lo
sfoggio di volontà lo portano a indugiare nella mortificazione, bensì la
semplice consapevolezza che “la penitenza esteriore è necessaria alla penitenza
interiore” (227). Commenta Amerio: “la riforma della disciplina del digiuno
sembra mutare l’essenza della restrizione togliendole il carattere di
afflizione della carne, prima così aperto e proclamato anche dalla liturgia,
per lasciarle puramente quello di regolarità morale” (228), col duplice rischio
che i fedeli (1°) confondano il piano dell’impegno etico con quello dell’ascesi
spirituale e (2°) si illudano di poter riuscire vittoriosamente in quello,
avendo trascurato questa.
Ci basti sulla somatolatria, errore che interessa almeno
doppiamente il dibattito sul suicidio medicalmente assistito. Da un lato
l’esaltazione del corpo rende quanto mai assurdo comprendere il senso e il
mistero di una vita piegata da malattie e condannata all’inazione e alla
denigrazione fisica; dall’altro il prolungato indebolimento dello spirito non
aiuta certo a sopportare le prove e le sofferenze che la Provvidenza permette
ai pazienti.
E ora un affondo sulla questione del suicidio, sempre nelle
parole di Romano Amerio. Iniziamo dalle definizioni teologiche: “la dottrina
comune della Chiesa ravvisava nel suicidio un triplice male: un difetto di
fortezza morale, giacché il suicida cede alla sventura; una ingiustizia,
giacché egli pronuncia contro di sé una sentenza di morte in causa propria e
non avendo titolo; un’offesa alla religione, giacché la vita à un divino
servizio dal quale niuno può da sé stesso affrancarsi” (389). Questa dottrina a
detta del filosofo svizzero sarebbe mutata e variata essa pure, e ne porta un
caso particolare: “a questa persuasione è andata subentrando l’altra: che
esistano valori supremi di ordine terreno ai quali sia lecito e bello immolare
volontariamente la vita” (Ibidem). Non è direttamente il caso che ci riguarda,
ma in fondo colpisce al cuore la questione: se esistano cioè dei valori a cui
valga la pena sottoporre il grande dono della vita. Generalmente il
cattolicesimo della Tradizione (quello che tiene fede all’origine) risponde in
modo negativo a tale ipotesi. Il cattolicesimo aperto al Progresso trova invece
di volta in volta almeno qualche motivo per dire un sì. Infine Amerio richiama
un problema centrale, laddove accusa la cultura contemporanea di aver “accolto
in crescente dismisura l’idea dell’irresponsabilità del suicida. Essa ha
completamente ripudiato la morale stoica per la quale il suicidio è
l’espressione somma della libertà morale dell’uomo e l’apice della virtù” (390).
E questo aspetto non è secondario: se per gli antichi (stoici) il suicidio era
un atto di somma libertà (per ciò sommamente condannato dalla Chiesa, madre e
maestra anche dell’educazione della libertà dei suoi figli), oggi si
riconoscono molti casi in cui il suicidio è conseguenza di una debolezza
psichica e mentale. Questo fatto, che ha portato per esempio a guardare con
benignità alla possibilità di celebrare le esequie del suicida, interpella
comunque duramente le situazioni di suicidio medicalmente assistito. Esse
pongono l’aspirante suicida – stoicamente risoluto o freudianamente inetto che
sia – in una situazione di impotenza a darsi la morte, spostando così la
responsabilità di azione sul medico, cioè su colui che si prevede essere sano,
moralmente libero e capace nelle sue azioni. Non si capisce dunque in che senso
la parte sana, anziché dar fondo ai propri saperi e competenze per sostenere
l’ammalato nell’accettazione della vita, dovrebbe invece rendersi consapevole
omicida e tener la parte agli istinti autodistruttivi del paziente.
Mi fermo qui. Il mio non è uno studio, ma un breve esercizio
col quale ho provato a ridisegnare una delle molte vie per le quali siamo
giunti – dentro e fuori la Chiesa – al lassismo morale odierno.
È evidente che, al di à del caso estremo preso in esame,
serve una decisa restaurazione di principi filosofici e teologici classici –
principi che ci ammaestrano, ma anche prassi che ci educano! In alternativa non
stupisce il declino, anzi ci sarà da attendersi una piega dei nuovi teologi
verso aperture sempre più spinte al compromesso morale.
Di questo passo però ‘cattolico’ rischia di rimanere un
attributo che qualifica l’accidente e non la sostanza: non più la sostanziale
difesa della vita, soprattutto in contesti di minaccia sociale e di abusi
lobbistici sfrenati; bensì una variabile accidentale di impatto precauzionale,
che fa dei cattolici il gruppo culturale al traino, generalmente disponibile ai
valori della modernità, solo restando sempre un po’ più restrittivi nelle
applicazioni e un po’ più lenti nei tempi di attuazione.
Don Marco Begato
