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giovedì 13 novembre 2025

Da Dio alla Merce: come dal Cristianesimo si è generato il feticcio #300denari

Sono rimasto sbalordito nel vedere persone apparentemente normali — gente che vota, paga le tasse e usa la punteggiatura — ammettere, senza arrossire, di aver letto libri privi di contenuto solo per via del fatto che hanno scalato le classifiche. Non parlo di eccentrici che si vantano delle proprie stranezze. Intendo adulti comuni che, con disarmante serenità, confessano di aver letto centinaia di pagine di pubblicità della prossima puntata di un’auto-pubblicità.
Se dovessi fare un esempio, citerei Harry Potter - ma non vorrei entrare in rotta di collisione con i lettori che lo apprezzano. Infatti, il libro in sé è irrilevante; ciò che colpisce è la facilità con cui oggi il consumo passa per cultura. Leggere diventa una virtù in sé, un rituale di auto-esibizione. Conta il gesto, non il significato. Ed è proprio questa la nostra malattia moderna: viviamo per lo spettacolo della partecipazione. Vogliamo apparire colti, compassionevoli, radicali, spirituali — qualunque cosa, purché sia visibile.

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Il Vangelo secondo il Mercato
Karl Marx chiamava questo incantamento delle apparenze feticismo della merce: la trasformazione dei rapporti umani in rapporti tra cose. Gli oggetti sembrano portare in sé un’anima invisibile, una forza che in realtà abbiamo proiettato noi. La logica è religiosa — solo che la divinità è cambiata. Dove il Cristianesimo vedeva nella materia un segno che rimandava alla trascendenza, il capitalismo la tratta come un fine a sé. Il mondo un tempo creato da Dio ora adora ciò che crea.
G. K. Chesterton, ultimo buontempone della sanità cristiana, lo disse meglio di chiunque altro: «Il mondo moderno è pieno di antiche virtù cristiane impazzite». Staccata dalla fede, la carità diventa sentimentalismo, l’umiltà si trasforma in auto-disprezzo, e l’istinto sacramentale — il desiderio di rendere visibile l’invisibile — degenera in pubblicità. L’Eucaristia diventa e-commerce: Questo è il mio corpo, offerto per voi — aggiungi al carrello.

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Emma Bovary e lo spettacolo del desiderio
Se Marx ha dato al feticismo la sua teoria, Flaubert gli ha dato un volto. Madame Bovary non è soltanto la storia di un adulterio, ma di una donna che confonde la salvezza con la sensazione. L’educazione conventuale di Emma l’ha riempita d’immagini di passione e di paradiso, ma non di disciplina del cuore. Brama la trascendenza e trova soltanto cataloghi.
Suo marito Charles, buono e noioso, è il perfetto cristiano borghese: onesto, inoffensivo, incapace di dare un senso. Emma compensa comprandosi identità — vestiti, amanti, debiti — ognuna promettendo di rivelarle il vero sé. Non cerca tanto il piacere quanto la rivelazione. Ogni acquisto, ogni relazione, ogni gesto è una piccola messa nella chiesa delle apparenze.
Il genio di Flaubert fu capire che la tragedia della vita moderna è estetica prima che morale. Il mondo non crede più in Dio, ma non può vivere senza grazia. E allora inventa i sostituti: il profumo al posto della presenza, Parigi al posto del Paradiso. Emma muore non di peccato ma di stile — del desiderio di essere vista invece che di essere.

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Je est un autre”: l’io in esilio
Qui la teologia di Maurice Zundel offre un’eco sorprendente. In Je est un autre, il mistico svizzero scrive che il peccato non è un elenco di infrazioni, ma la nascita di un altro “io”. Nel momento in cui smetto di donarmi, divento il mio falso. Questo falso io si nutre di possesso, di controllo, di ammirazione. È l’io che non può pregare, ma solo postare.
Il peccatore di Zundel non è semplicemente colpevole; è dislocato. Vive in esilio dalla propria anima. E che cos’è il feticismo della merce se non l’industrializzazione di quell’esilio? L’idolo non si limita a sedurre l’uomo — lo ricrea. Il consumatore è il prodotto. Lo specchio assorbe il volto.
Emma Bovary è la teologia di Zundel in forma narrativa: una donna abitata da un altro sé, fatto di desiderio e di pizzi. Il veleno che beve alla fine è solo l’ultimo oggetto della sua collezione. Porta a compimento la logica del mercato — consumare fino alla scomparsa.


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Dalla parabola al cartellone
Gli antichi poeti sapevano che le parole potevano creare mondi. La radice stessa di poesia, da poiein, significa “fare”. Scrivere era portare l’essere all’esistenza. Il corvo e la volpe di La Fontaine ci ricorda che la lusinga può farci lasciare la sostanza per l’ombra. La modernità ha industrializzato quel trucco. Il corvo non ha più bisogno della volpe; basta un cartellone pubblicitario.
La nostra civiltà è una grande pubblicità — religiosa nella struttura, atea nel contenuto. Dove un tempo il monaco cantava la liturgia, oggi l’influencer ripete l’algoritmo. La “buona notizia” è ora una campagna di marketing che promette consegna in 24 ore.

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Il Regno di Mammona
Al termine di questo lungo giro, non troviamo la liberazione ma la servitù. La merce è il nuovo sacramento; il denaro, il suo Spirito Santo. Il mondo di Madame Bovary è diventato universale: desiderio infinito, debito infinito, esibizione infinita.
Resistere a quest’impero non significa disprezzare la materia, ma redimerla — vedere oltre l’etichetta del prezzo la presenza che essa nasconde. Marx e Zundel, l’ateo e il mistico, si incontrano su quel terreno sottile. Entrambi insistono che l’uomo non deve essere trattato come una cosa.
Chesterton lo aveva previsto: le virtù del Cristianesimo, recise dalla loro sorgente, impazziscono. La compassione diventa consumo, la fede diventa fandom, la speranza diventa hype. Restiamo a cantare inni alla visibilità mentre moriamo di fame di significato.
Il compito, oggi, non è solo economico ma spirituale: ricordare che ciò che rende sacro il mondo non è quanto costa, ma ciò che rivela.


François-Marie Tardo-Dino
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