Grazie a Ivo Musajo Somma per questa recensione al volume di Rosa Matteucci sulla ricerca della Fede fino alla conoscenza della Messa di sempre.
Luigi C.
Invito
alla lettura: Rosa Matteucci, Cartagloria, Adelphi, Milano 2025
Confesso che di Rosa Matteucci non avevo mai letto nulla, eppure quel titolo, Cartagloria, come si può ben capire, faceva accendere una spia nella mia mente. La descrizione sul sito dell’editore Adelphi confermava il mio interesse accennando, tra l’altro, a un itinerario di ricerca interiore della protagonista, culminato nientemeno che «con la scoperta del rito tridentino».
Quando poi ho ricevuto il messaggio di un vecchio amico che me lo consigliava caldamente, ho rotto ogni indugio e mi sono buttato nella lettura dell’ultimo romanzo di una scrittrice che si segnala davvero per la finezza dello stile e per un uso sapiente della lingua italiana.In toni che oscillano sempre tra il tragico e il comico, la Matteucci racconta una storia ampiamente autobiografica, che prende avvio durante la sua infanzia: bisogna precisare che non si tratta del solito cinismo tanto di moda in questi tempi di compiaciuta disperazione, ma di una forma di autoironia che permette di cogliere il comico nelle più diverse esperienze della vita, tragedia compresa, senza che con ciò il dolore venga meno. La protagonista/autrice, nata in provincia di Orvieto, vive da bambina il drammatico tracollo della sua famiglia, un tempo facoltosa e rispettata e ora caduta in uno stato di abiezione che la nobiltà dei natali rende se possibile ancora più penoso. L’apice della catastrofe sopraggiunge proprio nel momento in cui la bambina dovrebbe prepararsi a ricevere la prima Comunione, ma lo stato quasi allucinato di tutti i suoi familiari fa sì che nessuno se ne occupi. Il padre, folle dissipatore del patrimonio familiare, eppure sinceramente amato; la madre, donna di straordinaria bellezza, ma alquanto anaffettiva; i nonni, come spaesati davanti a ciò che sta accadendo: tutti sembrano sotto l’effetto di un sortilegio, avviluppati dalla maledizione che si abbatte sulla loro casa e, di conseguenza, non tengono in minima considerazione il desiderio della bimba di potersi accostare alla prima Comunione come tutti i suoi coetanei. Da qui un senso di esclusione, marginalità, inadeguatezza che avrebbe accompagnato la protagonista nell’età adulta, ma allo stesso tempo una tensione verso la trascendenza, un anelito al sacro inestinguibile, quasi doloroso, a lungo inappagato.
Negli anni seguenti la protagonista vive le esperienze spirituali più disparate: si va dal buddismo della Soka Gakkai alla frequentazione di quelle che si rivelano due laide fattucchiere; dall’incontro con uno strano eremita esorcista all’immancabile viaggio in India in cerca di sé, con i libri di Mircea Eliade e René Guenon nello zaino. A questo riguardo bisogna segnalare le imperdibili pagine dedicate al grande pellegrinaggio del Kumbh Mela, un impressionante ammassamento di uomini e animali nel quale «Molti crollano svenuti, ma non rovinano a terra perché i corpi sono talmente accalcati che si cade sempre in piedi»; ripensandoci, l’autrice commenta: «Ancora oggi mi stupisco di come [ne] sia uscita viva» (p. 65). A segnare un punto di svolta nelle vicissitudini esistenziali della protagonista sarà la morte del padre, seguita da un pellegrinaggio a Lourdes che la condurrà, pur controvoglia e insofferente, a una straordinaria esperienza mistica.
Giunta quasi per disperazione ad andare regolarmente a Messa, l’autrice si scontra con il grigiore del rito nato dalla riforma liturgica postconciliare: inascoltabili canzoncine, segni di pace, l’ostia nelle mani, il Padre nostro cambiato, «un elenco di luoghi comuni figli della lebbra relativistica, un repertorio di insulse ovvietà buone soltanto per sepolcresse imbiancate». Il colpo di grazia sarebbe arrivato di lì a poco, con l’intronizzazione in San Pietro della divinità amazzonica Pachamama. Era troppo. «Non ho accettato i cambiamenti, non ci ho neanche provato, semplicemente ho smesso di andare a quelle che per il mio sentire non sono celebrazioni sacre nel senso di rito di adorazione, ringraziamento, riparazione e petizione, bensì stramberie sulfuree» (p. 116).
A quel punto non rimane, extrema ratio, che la ricerca di una chiesa dove venga celebrata la liturgia nel rito romano tradizionale. La ricerca, come osserva l’autrice, è tutt’altro che facile: «Ho imparato che alla messa Vetus ordo si va alla stregua di carbonari, e per di più ogni volta non si sa se la messa ci sarà ovvero se sia stata soppressa» (p. 117). Ora però la scrittrice vive a Genova e, con un po’ di pazienza, non le riesce troppo difficile trovare la messe de toujours, prima a Lavagna e poi nella chiesa abbaziale di S. Stefano, nel centro di Genova. Si tratta di un punto d’arrivo, alla fine di un cammino tormentato, e al contempo di un nuovo inizio, non facile. Ancora una volta un ambiente sconosciuto nel quale si sente estranea e inadeguata, ma insieme la nuova certezza «di aver assistito a una celebrazione della Verità nel senso più profondo e inafferrabile della parola» (p. 125), mentre, col passare delle settimane, la “messa in latino” comincia a disvelarsi «nella sua prodigiosa sacralità, nella sua ricchezza di trascendenza, nella sua divina grazia donata con amore indescrivibile tramite parole umane» (p. 129). Grazie all’imprescindibile messalino da banco, l’autrice comincia a prendere dimestichezza prima con la messa letta e poi, con crescente, gioioso stupore, con la messa cantata; impara a conoscere le parti dell’ordinario, il complesso rituale, modi e tempi delle genuflessioni. Le onde del mare in tempesta l’hanno miracolosamente portata in un luogo nel quale «l’anima riceve nutrimento e luce».
Una nota di colore: a una persona intelligente e dotata di un grande senso dello humour non potevano sfuggire quelle tipologie umane talvolta un po’ originali che frequentano le chiese tradizionaliste… absit iniuria verbis, ma è semplicemente un dato di fatto (arcinoto!), ed è molto spassoso vedere come occhi esterni possono guardare noi e i nostri vicini di panca. Non manca neppure l’astio feroce e irrefrenabile verso i fedeli che fanno rumore, rispondono male alle orazioni, cantano a squarciagola a sproposito.
L’approdo alla liturgia tradizionale non rappresenta per la Matteucci un fugace momento di crisi mistica, ma, come ella stessa ha avuto occasione di osservare, è il compimento di una faticosa e consapevole ricerca di Dio avviata fin dall’infanzia, in un anelito verso la trascendenza che deve necessariamente portare a un vero atto di fede, se si vuole che il cammino compiuto abbia significato. Cosa che non è certo facile nel clima di apostasia e “morte di Dio” che avvelena la nostra società, nella quale dirsi cristiani è divenuto un atto di autentica trasgressione. La storia sembra in apparenza non avere lieto fine, dal momento che la messa nel rito tradizionale frequentata dall’autrice viene soppressa dalle autorità ecclesiastiche. «Oggi sono orfana di grazia e speranza, mi sono dovuta lasciare dietro le spalle una forza onnipresente e benefica, che mi aveva accolta e mi nutriva di amore» (p. 145). Se da un lato auspichiamo vivamente che l’autrice abbia di nuovo potuto trovare rifugio e conforto nella frequentazione della liturgia tradizionale (a Genova e dintorni non dovrebbe mancare la possibilità), d’altra parte teniamo a sottolineare che la conclusione del libro non è affatto all’insegna della disperazione. Sembra incredibile, per un romanzo pubblicato nell’Italia del 2025 da un editore di primo piano, eppure la storia si conclude con lo sguardo levato verso la Croce e la santa Vergine. Si può chiedere di più a un autore contemporaneo di successo? L’itinerario spirituale (e insieme l’elaborazione dei tanti lutti) della protagonista/autrice si compie nell’intuizione liberante del significato conferito a tutta la nostra esistenza da Cristo crocefisso: all’uomo tocca portare la sua croce, «perché alla fine croce e libertà sono la stessa cosa» (p. 151), ma non senza il conforto della Madre di Dio. «Lei è la Vergine Santa, la Ianua caeli, l’Assunta in cielo, eppure così presente dentro la mia vita» (p. 153).
Ivo Musajo Somma
