Gentilissimo Dott. Casalini,
Vorrei rivolgermi ai
numerosissimi lettori di “Messa in latino” per condividere alcune riflessioni
suscitate dalla lettura dell’articolo del prof. Andrea Grillo, pubblicato sul
blog “Come se non” (15.09.2025), e ripreso su altri siti. In quest’articolo il
prof. Grillo contesta l’uso dell’espressione “forma straordinaria del Rito
Romano”, qualificandola molto negativamente come una “finzione” e un “sofisma”
e, su questa base, ribadisce la sua posizione ben nota di assoluta contrarietà
alle celebrazioni liturgiche secondo i Libri liturgici precedenti alla riforma
liturgica seguita al Concilio Vaticano II. Nihil novi sub sole! Nel
dibattito molto vivo su questo argomento illustri liturgisti e alti prelati
hanno espresso già le loro obiezioni alle argomentazioni del prof. Grillo.
Vorrei, pertanto, limitarmi a pochi rilievi.
1. Anzitutto, sono colpito dall’implacabile avversità del prof. Grillo all’uso del Ritus Romanus antiquior, espressione più appropriata dopo il MP Traditionis Custodes di “forma straordinaria” e forse più felice: nella lingua latina antiquior significa anche e principalmente “più importante”. Le sue argomentazioni sono molto rispettabili e, quasi sempre, espresse con un tono misurato. Tuttavia, non si può non percepire una sorta di odium theologicum che dispiace in un’epoca storica in cui pace e concordia appaiono priorità da perseguire in ogni ambito della convivenza degli uomini. L’appello alla pace, con cui Leone XIV ci ha salutati, ci ha commossi e sentiamo il bisogno di declinarla anche nella vita della Chiesa e nella celebrazione della liturgia. Queste contrapposizioni così aspre – queste sì – mi appaiono fuori della storia e dei segni dei tempi!
2. Pochi
mesi si è concluso il Pontificato di Francesco che è ricordato da molti come un
Papa “pastorale” nel senso più nobile del termine. Ed è proprio la motivazione
pastorale che, forse più di ogni altra, spinge ad aderire con magnitudo
cordis alle intuizioni e alle disposizioni di Benedetto XVI contenute nel
MP Summorum Pontificum che anche Traditionis Custodes condivide,
pur lamentando una prassi scorretta. In altre parole, vorrei dire che, se in
un’aula d’insegnamento o di ricerca di un ateneo pontificio sono formulate
teorie e ipotesi teologiche, la loro bontà va misurata anche sul terreno
pastorale, ossia nel vissuto dei fedeli. Ebbene, non sempre o raramente i
teologi di professione sono a contatto profondo con le anime, a differenza dei
pastori. E proprio dal punto di vista pastorale i frutti della celebrazione del
Ritus Romanus Antiquior sono prosperi e consolano i pastori che hanno a
cuore la salvezza delle anime. In questa forma liturgica i fedeli che a essa
sono legati trovano alimento per la loro fedeltà matrimoniale, per la loro
testimonianza di vita cristiana in ambienti spesso ostili al Vangelo, per il
discernimento vocazionale, per la pratica delle virtù e la tenacia nel
combattimento spirituale, per la solidarietà verso i poveri e gli sventurati. Salus
animarum! Da questo punto di vista, molti pensieri teorici cambiano. Non ci
fa ha forse insegnato Papa Francesco che la realtà è superiore all’idea? E la
storia, alla quale il prof. Grillo fa appello, non ha dimostrato che, quando
quel principio illustrato in Evangelium Gaudii viene sovvertito, le
ideologie diventano opprimenti e, persino nella Chiesa, i fratelli perseguitano
i fratelli? Proprio Papa Francesco con il grido, diventato una delle cifre del
suo Pontificato, “todos, todos, todos”, non ci ha chiesto di rimuovere ogni
ostacolo perché nessun battezzato si senta extraneus in domo matris suae?
Alla luce di queste considerazioni, ritengo la posizione assunta dal prof.
Grillo molto discutibile e, oramai, un po’ tediosa.
3. Un’ultima
considerazione per chi ha avuto la benevolenza di leggere fino a questo punto.
Nell’articolo del prof. Grillo trovo sottesa una pericolosa concezione
hegeliana della storia: tra continuità e discontinuità, come egli stesso
dichiara, la storia, nel nostro caso quella liturgica, avanza migliorandosi
perché in sintonia “con i tempi”. È proprio vero che la storia proceda sempre
verso il bene oppure, come ci insegna il De civitate Dei, in essa si
mescolano bene e male e, dunque, un discernimento si impone sulla storia
stessa? San Paolo VI ha affermato lapidariamente come sapeva fare solo lui con
straordinaria incisività, con il suo stile degno di Seneca: “Non tutto ciò che
è nuovo è buono, non tutto ciò che è buono è nuovo”.
Qualora anche il prof.
Grillo leggesse queste mie riflessioni, gli giungano i miei saluti rispettosi.
Ai lettori di “Messa in latino” che ne condividono l’orientamento,
l’incoraggiamento a non allontanarsi, come dichiara l’autore dello scritto
apologetico A Diogneto, dal posto di combattimento assegnato dalla
Sapienza di Dio.
Suo obb.mo in Iesu et
Maria
Don
Roberto Spataro, sdb – SThD; LittD. Segretario emerito della Pontificia
Academia Latinitatis
