Grazie ad Investigatore Biblico per queste analisi sulle nuove traduzioni bibliche CEI.
Luigi C.
26-8-25
Il versetto sesto del Salmo 63 (secondo la numerazione ebraica 63,6; nella Vulgata 62,6) si colloca all’interno di una preghiera profondamente intima. L’orante è un uomo che vive l’esperienza del deserto, della mancanza, dell’aridità. È un salmo di desiderio e di sete: l’anima cerca Dio come terra riarsa, e l’unica vera sazietà è quella che viene da Lui. Il contesto ci dice che il salmista non parla da un luogo di abbondanza materiale, bensì da una condizione di privazione, e proprio in quella condizione pronuncia le parole di fiducia e di gioia.
Il testo masoretico recita: כְּמוֹ־חֵלֶב וָדֶשֶׁן תִּשְׂבַּע נַפְשִׁי (Kemo chelev wadeshen tisebbà nafshi) che letteralmente significa: “Come di grasso e di pinguedine sarà saziata la mia anima”. Il riferimento è fortemente corporeo, concreto: il chelev (חֵלֶב) indica il grasso, la parte più succosa e preziosa dell’animale destinato al sacrificio; deshen (דֶשֶׁן) è la pinguedine, la parte grassa e nutriente. Dunque non è un generico “lauto convito” o “cibi migliori”, ma una precisa immagine sacrale e cultuale.
San Girolamo, con fedeltà al testo ebraico, traduce: “Sicut adipe et pinguedine repleatur anima mea”, ossia “Come di grasso e di pinguedine si sazi la mia anima”. È una traduzione letterale e precisa. Le versioni CEI, sia quella del 1974 (“Mi sazierò come a lauto convito”) sia quella del 2008 (“Come saziato dai cibi migliori”), hanno reso l’immagine con un linguaggio attenuato, più elegante forse, ma meno fedele. Hanno trasformato un’immagine cultuale, che rimanda al sacrificio e all’abbondanza concreta della carne offerta a Dio, in un generico pasto sontuoso.
Anche la Settanta (LXX) è fedele al dato semantico: ὡσεὶ στέατος καὶ πιότητος ἐμπλησθείη ἡ ψυχή μου (hosei steatos kai piotetos emplesthēie hē psychē mou), “Come di grasso e di abbondanza sarà riempita la mia anima”. Ancora una volta troviamo la medesima immagine: il grasso, la parte grassa e pingue, come simbolo di sazietà piena e di benedizione.
Perché è importante tradurre correttamente? Perché in questo versetto non si parla soltanto di sazietà materiale, ma si evoca il linguaggio sacrificale dell’Antico Testamento. Nel culto ebraico, il grasso delle vittime era riservato a Dio, segno della parte migliore, dell’eccedenza vitale offerta all’Altissimo. Dire allora che “l’anima sarà saziata come di grasso e di pinguedine” significa paragonare l’esperienza di Dio alla partecipazione alla parte più preziosa e riservata. Non si tratta di semplice abbondanza, ma di un nutrimento cultuale, unito al sacrificio e al dono.
Il senso teologico è profondo. L’anima del credente, che ha fame e sete di Dio, si sazia non di beni materiali, ma della comunione stessa con il Signore. È come se Dio stesso offrisse all’anima ciò che nel sacrificio era destinato a Lui solo: la parte migliore. È un’immagine di intimità e di amicizia divina, dove ciò che è più prezioso diventa nutrimento spirituale. La traduzione corretta custodisce questo legame con la liturgia antica, con l’offerta sacrificale, con il simbolismo della pienezza e della gioia cultuale.
L’errore delle traduzioni CEI sta dunque nell’aver reso un’immagine biblica forte e concreta con un’espressione troppo vaga, quasi gastronomica, perdendo il richiamo al linguaggio del culto. Se si legge il versetto così come lo hanno trasmesso il testo masoretico, la LXX e san Girolamo, allora si comprende che la vera sazietà non è quella del cibo abbondante, ma quella della comunione con Dio, che riempie l’anima come solo il grasso e la pinguedine dei sacrifici riempivano di senso il culto d’Israele. L’orante, nel deserto, proclama che è Dio stesso a nutrire la sua vita con la parte più preziosa e vitale, e per questo le labbra non possono che esultare di lode.
