Grazie ad Investigatore Biblico per queste sue analisi sulle nuove traduzioni CEI.
Luigi C.
19-8-25
Il passo di Matteo 9,15 si apre su una domanda molto concreta: i discepoli di Giovanni e i farisei osservano il digiuno, mentre i discepoli di Gesù non lo fanno. Gesù risponde con un’immagine antica e profonda, che attraversa tutta la Scrittura: “μή δύνανται οἱ υἱοὶ τοῦ νυμφῶνος…”. La traslitterazione ci aiuta a gustarne la sonorità: mē dýnantai hoi huioì toû nymphônos .Letteralmente: “Possono forse i figli della camera nuziale…”.
San Girolamo traduce con fedeltà: «filii sponsi». Non parla di semplici “invitati a nozze”, come invece riportano le versioni CEI del 1974 e del 2008, ma di figli, di intimi dello sposo. La differenza è sostanziale. L’“invitato” è un ospite esterno, partecipa per un momento; il “figlio dello sposo” è invece generato da quella unione, è legato in modo vitale allo Sposo e partecipa della sua gioia.
La cosa fondamentale è notare l’ebraismo, la radice semitica dell’espressione del testo originale “figlio dello sposo” (o della camera nuziale), che nelle versioni Cei manca, ma non è certamente sfuggito a San Girolamo.
Tutta la Bibbia conferma questo linguaggio. In Osea Dio dice al suo popolo: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza» (Os 2,21). Isaia annuncia: «Come gioisce lo sposo per la sposa, così il tuo Dio gioirà per te» (Is 62,5). Giovanni Battista proclama: «Chi possiede la sposa è lo sposo; ma l’amico dello sposo, che è presente e l’ascolta, esulta di gioia alla voce dello sposo» (Gv 3,29). Paolo afferma ai Corinzi: «Vi ho promessi a un unico sposo, per presentarvi come vergine casta a Cristo» (2Cor 11,2). Non è quindi un’immagine poetica, ma una chiave teologica che attraversa la rivelazione e che trova in Gesù il suo compimento.
San Girolamo osserva, commentando il Vangelo:
«Cristo è lo Sposo e la Chiesa è la Sposa. Da questa unione spirituale sono nati gli Apostoli; essi non possono piangere, mentre vedono lo Sposo nella camera nuziale. Ma quando le nozze saranno finite e verrà il tempo della passione e della risurrezione, allora i figli dello Sposo digiuneranno».
(Commento al Vangelo di Matteo, PL 26, 51).
Crisostomo, con realismo pastorale, spiega:
«Il presente è un tempo di gioia e di festa; perciò ora non si può introdurre la tristezza… Egli parla qui secondo questa logica… e mostra anche che quanto i discepoli facevano non era per golosità, ma secondo un disegno provvidenziale».
(Omelie sul Vangelo di Matteo, Omelia XXX, PG 57, 357).
Sant’Ambrogio sottolinea che i “figli dello Sposo” non sono esterni:
«Poiché sono figli dello Sposo, essi ricevono una gioia spirituale e non possono essere nel lutto, finché lo Sposo rimane in mezzo a loro».
(Commento al Vangelo secondo Luca, V, 33; PL 15, 1625).
Agostino, nel commento al Vangelo di Giovanni, completa il quadro:
«Non può esserci lutto dove è presente lo Sposo. Ma quando la Sposa sarà tolta, allora i figli dello Sposo digiuneranno, perché desidereranno il suo ritorno».
(Trattati sul Vangelo di Giovanni, Trattato XIV, 2; PL 35, 1497).
È dunque chiaro che tradurre con “invitati a nozze” non rende giustizia alla densità del testo. La parola greca “υἱοί” (huioì) non è un termine generico: nella mentalità semitica indica appartenenza, intimità, identità condivisa. Non siamo invitati occasionali, ma figli generati dal legame sponsale di Cristo con la Chiesa.
Questo non è un dettaglio secondario: diversi biblisti hanno mostrato che molti passi evangelici rivelano di essere traduzioni quasi letterali da un originale semitico. Il linguista e biblista francese Jean Carmignac, studioso di Qumran e profondo conoscitore dell’ebraico e dell’aramaico, giunse alla conclusione che i Vangeli sinottici siano stati redatti dapprima in aramaico o ebraico, e solo in un secondo momento tradotti in greco. Nel suo celebre studio La naissance des Évangiles synoptiques (1984), Carmignac sottolinea che troppe espressioni dei Vangeli risultano incomprensibili o ambigue in greco, ma diventano immediatamente chiare se retrotradotte in aramaico.
