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martedì 1 luglio 2025

Masciullo. "Data Ecumenica della Pasqua? Seri Dubia al riguardo" #papaleonexiv

Riceviamo e pubblichiamo.
QUI il video.
Luigi C.


Questa è la traduzione italiana dell’articolo comparso su The Remnant Newspaper, 12 giugno 2025.

Lo scorso 7 giugno 2025, il Santo Padre Leone XIV ha tenuto, in Sala Clementina, il discorso conclusivo del Simposio Ecumenico “Nicea e la Chiesa del Terzo Millennio”. Tale simposio ha come obiettivo l’unità cattolico-ortodossa e si è tenuto presso la Pontificia Università San Tommaso d’Aquino. Com’è noto, nel 2025 si commemorano i 1700 anni del Concilio Ecumenico di Nicea Primo, tenutosi nel 325 per volontà dell’Imperatore Costantino e della madre sant’Elena. In quell’occasione, fu stilata una professione di fede “ufficiale”, che è poi divenuta più nota come preghiera del Credo, e che sarà perfezionata in occasione del Concilio di Costantinopoli (381).
Durante questo discorso conclusivo, il Papa ha ricordato e sintetizzato agli uditori quali siano stati i tre temi portanti del Simposio. Il primo è la fede di Nicea. Riprendendo quanto affermato nel Documento pubblicato dalla Commissione Teologia Internazionale, Leone ha affermato che ciò che cattolici e ortodossi hanno in comune «è molto più forte, quantitativamente e qualitativamente, di ciò che ci divide». Attenzione agli avverbi utilizzati, che non sono casuali: quantitativamente e qualitativamente. Ci torneremo a breve. Questi elementi comuni sarebbero la fede in Dio come Trinità, la natura umana e divina di Cristo, la salvezza mediante la Redenzione di Cristo, il Battesimo, la successione apostolica, la Resurrezione dei morti e la vita eterna. Tuttavia, da questo Documento non emerge con chiarezza se il Battesimo e la Redenzione siano gli unici mezzi necessari per conseguire la salvezza.

Il secondo tema portante è quello della sinodalità. Secondo i partecipanti del Simposio, il Concilio di Nicea Primo avrebbe avviato il “cammino sinodale” della Chiesa, evidenziando così l’importanza del dialogo ecumenico e della sinodalità come condivisione. Circa il corretto significato della parola sinodalità e del possibile significato adottato da Papa Leone XIV, ho già parlato in parte in questo articolo (vedi anche QUI). Non approfondirò la questione in questa sede, anche se molto bisognerebbe dire sull’ideologia e sulla rivoluzione sinodalista della Chiesa, purtroppo in corso da decenni, ben da prima dell’elezione di Francesco e che costituisce una delle dimensioni portanti dell’attuale crisi della Chiesa cattolica.

Il terzo tema portante – sarà analisi del presente articolo – è la data della Pasqua. Cito testualmente quanto ha detto il Papa:

«Come sappiamo, uno degli obiettivi del Concilio di Nicea era quello di stabilire una data comune per Pasqua al fine di esprimere l’unità della Chiesa in tutta l’oikoumene. Purtroppo, le differenze nei rispettivi calendari non permettono più ai cristiani di celebrare insieme la festa più importante dell’anno liturgico, causando problemi pastorali all’interno delle comunità, dividendo le famiglie e indebolendo la credibilità della nostra testimonianza del Vangelo. Sono state proposte diverse soluzioni che consentirebbero ai cristiani, rispettando il principio di Nicea, di celebrare insieme la “Festa delle Feste”. In quest’anno, quando tutti i cristiani hanno celebrato la Pasqua nello stesso giorno, vorrei riaffermare la disponibilità della Chiesa Cattolica alla ricerca di una soluzione ecumenica che favorisca una celebrazione comune della resurrezione del Signore e, di conseguenza, dia maggiore forza missionaria alla nostra predicazione del “nome di Gesù e della salvezza che nasce dalla fede nella verità salvifica del Vangelo”».

La ricerca di una data comune della Pasqua (o ecumenica, come si suol dire) non è una novita di Papa Prevost, ma un ritornello che periodicamente ritorna di attualità, e che quest’anno – per le ovvie ragioni esposte – diviene particolarmente risonante. Secondo i sostenitori, la ricerca di una data comune sarebbe “necessaria” per ritrovare l’unità perduta tra cattolici e cosiddetti ortodossi e per dare slancio missionario alla Chiesa.

Il Dicastero per la Promozione dell’Unità dei Cristiani aveva già rilasciato, il 22 ottobre 2022, una Dichiarazione sul tema, in occasione dell’Incontro Internazionale delle Religioni Mondiali. Tale incontro era stato organizzato – per inciso – dalla Comunità Sant’Egidio. A capo del Dicastero vi era, come vi è ancora, il cardinale ratzingeriano Kurt Koch (all’origine di un documento ben più rilevante per le sue conseguenze rivoluzionarie, come abbiamo evidenziato QUI). All’inizio, molti cristiani celebravano la Pasqua insieme agli ebrei, il 14 di Nissan, a prescindere dal giorno della settimana. Erano chiamati quartodecimani. Altri, invece, cosiddetti protopaschiti, celebravano la domenica successiva alla Pesach ebraica. Nicea Primo ufficializzò questi ultimi. In seguito, Papa Gregorio XIII, riformando il calendario (1582), fece adottare alla Chiesa un nuovo calcolo pasquale, discostandosi così dall’Oriente, rimasto legato all’antico calendario giuliano.

Oggi gli ecumenisti vorrebbero proporre, come si fece a Nicea Primo, una nuova data congiunta della Pasqua, con la speranza di festeggiarla non solo insieme agli scismatici orientali, ma persino insieme agli ebrei (i quali però non credono nella Resurrezione di Gesù Cristo). Le soluzioni proposte sono differenti: c’è chi vuole una data fissa come avviene per Natale e altre feste (seconda domenica di aprile), c’è chi vuole usare Gerusalemme come riferimento per il calcolo, infine c’è chi vuole introdurre un nuovo calendario, detto meleziano, che sarebbe identico al calendario gregoriano, ma con calcolo giuliano per la Pasqua.

La domanda che ci poniamo è molto semplice: la data comune della Pasqua è davvero necessaria per raggiungere l’unità dei cristiani? E di quale tipo di unità si sta parlando? Durante il Primo Concilio di Nicea (325), la definizione di una data comune per la celebrazione della Pasqua fu un’esigenza dottrinale e disciplinare, profondamente connessa all’unità della fede e della Chiesa. In un’epoca in cui il cristianesimo veniva appena consolidandosi dopo le persecuzioni, era necessario affermare l’autorità della Chiesa cattolica contro ogni frammentazione liturgica e dottrinale. La diversità delle date pasquali, specie tra i quartodecimani e i protopaschiti, metteva infatti in discussione l’unicità del Mistero pasquale e rischiava di indebolire la coesione visibile del Corpo ecclesiale. Era, dunque, un problema di coesione interna alla Chiesa cattolica. Il Concilio di Nicea Primo operò non per cercare un compromesso, ma per stabilire una norma univoca, conforme alla verità della fede e fondata sull’autorità della Chiesa. La determinazione della domenica successiva al primo plenilunio di primavera come data per la Pasqua fu un atto di governo volto a custodire l’unità liturgica come riflesso visibile dell’unità della fede.

Diversa è la situazione odierna, in cui la ricerca di una data comune vuole appiattire la dottrina sulla diplomazia. In molti casi, questa ricerca appare segnata da una logica di concertazione tra Chiese separate, che non riconoscono più la piena autorità della Sede primaziale di Pietro. Questo approccio rischia di confondere l’unità della celebrazione con un’apparente unità di fede, che in realtà ancora non esiste. La vera unità non si costruisce sul compromesso liturgico, ma sul ritorno alla piena comunione nella sola e intera fede cristiana e cattolica.

Un’eventuale data comune di Pasqua, oggi, sarebbe lecita e auspicabile solo se subordinata alla verità della fede e all’autorità della Chiesa, non come gesto diplomatico. La Pasqua non può diventare strumento di una pastorale adattata ai tempi, ma deve restare testimonianza dell’unico Mistero redentivo di Cristo, nel solco della Tradizione apostolica.

Per capire i gravi rischi della soluzione ecumenica della Pasqua, dobbiamo tornare per un attimo a quanto affermato dal Documento della Commissione Teologica Internazionale: «ciò che abbiamo in comune è molto più forte, quantitativamente e qualitativamente, di ciò che ci divide». Si è molto diffusa oggi, anche tra i cattolici più conservatori, l’idea secondo cui esista una gerarchia di verità della fede tale che alcune sarebbero più necessarie o importanti di altre. In questo senso, credere nella Trinità sarebbe più importante di credere nell’Immacolata Concezione di Maria o nel Primato Petrino. In realtà, le verità di fede (attenzione: anche quelle eventualmente non definite dogmaticamente) sono tutte altrettanto importanti e necessarie per professare la fede cattolica.

Ciò che sussiste tra le verità di fede non è un rapporto di importanza o necessità per dirsi cristiani, quanto un rapporto di derivazione logica. Il lettore mi consenta di fare una piccola ricapitolazione. Alla base di tutto vi sono due verità teologiche naturali: (1) Dio esiste; (2) Dio è provvido. Secondo quanto è scritto: “Senza la fede è impossibile essergli graditi; chi, infatti, si avvicina a Dio, deve credere che egli esiste e che ricompensa coloro che lo cercano” (Ebrei 11, 6).

Queste due verità teologiche naturali (significa che tutti gli uomini, con il solo uso della ragione e senza essere cristiani, possono arrivare a conoscerle) trovano la propria perfezione nelle verità teologiche soprannaturali, cioé rivelate da Dio e inconoscibili senza la grazia della Rivelazione. Da esse discendono due gruppi di sette verità di fede fondamentali, che complessivamente formano i 14 articoli del Credo apostolico. Si consideri questo schema sulla base di quanto insegna san Tommaso d’Aquino nella Summa Theologiae II-II, qq. 1-7.

Da ciascuno di questi articoli di fede (dogmatici) derivano una serie di verità di fede, delle quali alcune sono state dogmatizzate (cioé definite solennemente dalla Chiesa, specialmente quando rischiavano di venire eclissate da posizioni eterodosse diffuse), altre invece no. Il Credo niceno-costantinopolitano esplicita quelle verità di fede che procedono logicamente e teologicamente in maniera immediata dagli articoli del Credo apostolico.

Per esempio, se nel Credo apostolico si professa la fede nella Chiesa cattolica, nel Credo niceno si specifica che la Chiesa è “una, santa, cattolica e apostolica”: la fede nelle quattro note essenziali della Chiesa si fondano (logicamente, appunto) sulla fede nell’esistenza e nella necessità della stessa Chiesa cattolica. Ma da questo articolo del Credo niceno derivano implicitamente altri dogmi, per esempio dall’unità deriva il dogma del Primato petrino e dell’infallibilità pontificia a determinate condizioni, oppure dalla nota della santità deriva tutta la dottrina dogmatica del sacramento dell’Ordine; e così via.

Si crea così un castello sistematico e ordinato delle verità di fede, tutte qualitativamente importanti e necessarie per avere la fede cristiana, cattolica e apostolica. Lo ribadiamo: non è un rapporto gerarchico di importanza e necessità, ma una dipendenza di derivazione logica. A ben vedere, in passato ci sono stati teologi che avevano già avanzato l’idea secondo cui alcune verità di fede sarebbero più importanti e necessarie di altre. Questa dottrina, tuttavia, è stata condannata dal Magistero pontificio con un nome ben preciso: latitudinarismo. Tra queste condanne, ricordiamo quelle contenute nella Mirari vos di Gregorio XVI (1832) e soprattutto nel Sillabo degli errori moderni del beato Pio IX (1864).

Questa parola viene dal latino latitudo, cioè “larghezza”: il latitudinarismo è il processo che tende ad “allargare i confini” della Chiesa. Non solo coloro che credono in tutti i dogmi cattolici sarebbero veri cristiani, secondo questa dottrina eterodossa, ma coloro che credono negli articoli fondamentali del Credo niceno (così da unire i cattolici e gli scismatici); di più: coloro che credono in un Dio trascendente, creatore e provvido (così da unire i cristiani, i musulmani e gli ebrei); di più: coloro che hanno fede nella spiritualità umana; di più: chiunque creda nella filantropia. L’allargamento dei confini è inversamente proporzionale al numero di dogmi da credere. L’esito è chiaro: si parte dal culto condiviso di Dio, si giunge al culto condiviso dell’uomo.

Alla luce di quanto detto, è ora possibile rispondere chiaramente alla domanda fatta pocanzi. L’introduzione di una data ecumenica della Pasqua, lungi dal costituire un passo autentico verso l’unità della Chiesa, rappresenterebbe un atto ambiguo e divisivo, tanto sul piano teologico quanto su quello ecclesiale. Infatti, dal punto di vista cattolico, l’adozione di una data comune non fondata sul primato della fede, ma su criteri pastorali e diplomatici, metterebbe implicitamente in discussione l’autorità della Chiesa di stabilire norme liturgiche vincolanti. La liturgia non è materia opinabile né strumento di compromesso, ma espressione visibile della fede ricevuta e trasmessa. Una riforma liturgica orientata al consenso interconfessionale, che prescinda dalla verità e dall’autorità della Tradizione, rischia di generare confusione nei fedeli (ce n’è già troppa), dividere il clero e contrapporre vescovi e comunità ecclesiali. Sarebbe l’ennesimo colpo alla già precaria unità interna della Chiesa cattolica.

Dal punto di vista degli scismatici orientali, l’adesione a una data pasquale comune verrebbe letta da molti come un cedimento al calendario “latino” e alle pressioni di Roma. Diverse Chiese ortodosse (soprattutto quelle più conservatrici) rifiuterebbero qualsiasi mutamento del calendario giuliano, che considerano parte integrante della loro identità ecclesiale. Il risultato, quindi, non sarebbe affatto l’unità tra ortodossi e cattolici, ma ulteriori fratture all’interno delle stesse Chiese.

La ricerca di una data ecumenica della Pasqua, slegata dalla piena comunione di fede e di autorità, produrrebbe non unità ma sincretismo, non comunione ma relativismo liturgico, non testimonianza ma confusione. L’unità dei cristiani non può essere edificata sul compromesso, ma sulla verità tutta intera della fede cattolica, unica arca della salvezza voluta da Cristo. Ogni altro fondamento è sabbia, perché Cristo ha edificato la sua unica vera Chiesa su Pietro, cioé sulla roccia.

Gaetano Masciullo

3 commenti:

  1. Grazie, Masciullo ha ragione: la data della Pasqua è meglio lasciarla così com'è. Un cambiamento in un tempo di crisi farebbe più male che bene. Oremus perché non si prendano decisioni errate.

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  2. Masciullo si salverà solo lei e i suoi perché ha la fede cattolica apostolica e Romana. Noi altri invece che crediamo nella stessa fede ma ammettiamo che le altre Chiese o comunita ecclesiali sono in qualche modo parte dell unica Chiesa di Cristo ci danneremo beh siamo in buona compagnia con tanto di santi vedi Paolo vi o GPII per citarne due.Voi siete completamente sulla via sbagliata.

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  3. Non capirò mai questa avversione verso il pluralismo e la complessità. Se si rispettano i vari riti, si devono rispettare anche le date. L'omologazione è solo un impoverimento.

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