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lunedì 23 giugno 2025

“Quel “Padre mio” che avete cancellato”. Il caso di Gv 8,38”

Grazie a Investigatore Biblico per le consuete analisi sulle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.

15-4-25

Nel cuore dell’evangelo secondo Giovanni, al capitolo ottavo, versetto trentotto, troviamo una di quelle affermazioni del Signore che, se ascoltate con l’animo desto, aprono una finestra luminosa sulla sua identità più profonda e sul mistero della sua rivelazione. Nella versione CEI del 1974, così come in quella del 2008, leggiamo: «Io dico quello che ho visto presso il Padre». Ma è davvero tutto qui? È proprio questa la parola che Giovanni ha consegnato alla Chiesa? O forse la sobrietà della traduzione cela, inavvertitamente, una ricchezza che i testimoni più antichi custodiscono con cura?
San Girolamo, nel suo lungo e sapiente lavoro di traduzione della Sacra Scrittura in latino, con quell’attenzione filologica e spirituale che lo ha reso uno dei padri più autorevoli dell’Occidente, rende questo versetto così: Ego quod vidi apud Patrem meum loquor — “Io parlo di ciò che ho visto presso il Padre mio”. Patrem meum, non semplicemente Patrem. Un genitivo che può sembrare secondario, quasi superfluo, ma che invece è teologicamente decisivo. San Girolamo non inserisce arbitrariamente quel “mio”; egli lo riceve dalla tradizione manoscritta che ha avuto sotto gli occhi e, soprattutto, lo riconosce come coerente con l’intero tessuto giovanneo, dove la relazione unica tra Gesù e il Padre è nodo centrale e sorgente di ogni rivelazione.

I codici greci antichi confermano la legittimità di questo “mio”. Nella loro testimonianza leggiamo: ἐγὼ ὃ ἑώρακα παρὰ τῷ πατρὶ μου λαλῶ — “Io parlo di ciò che ho visto presso il Padre mio”. La formula παρὰ τῷ πατρὶ μου è attestata nei manoscritti di grande autorevolezza: il codice S (Codex Vaticanus 354), il codice Δ (Codex Sangallensis 037), il codice Θ (Codex Koridethi 038), e il codice Ψ (Codex Athous Lavrensis 044). Questi non sono testimoni marginali. Si tratta di codici unciali greci, alcuni risalenti al IV-V secolo, appartenenti alla tradizione bizantina ma anche, nel caso di Δ e Θ, portatori di letture antiche e indipendenti, spesso molto prossime al testo originario. La loro concordanza nell’inserire il “μου” — “mio” — non è accidentale.

Perché è così importante quel mio? Perché non siamo davanti a un possessivo qualunque. In Giovanni, quando Gesù parla del “Padre”, talvolta intende Dio in senso ampio, come fonte della vita e del disegno divino, Padre di tutti. Ma quando dice “Padre mio”, egli rivela una relazione personale, unica, che non è condivisa allo stesso modo da nessun altro. È la figliolanza eterna, quella che fa di lui non solo il Messia, ma il Figlio unigenito, il Logos fatto carne, il rivelatore definitivo del volto di Dio.

Tralasciare quel “mio” non è un semplice dettaglio stilistico. È una perdita teologica. Significa smussare la punta di diamante della rivelazione giovannea: che Gesù non parla di Dio, come i profeti; ma da Dio, da presso Dio, e in particolare dal Padre suo, in una relazione che è intimità, eternità e identità. Giovanni lo ripete con insistenza: “Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9); “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30); “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (Gv 5,17). È dunque una voce dissonante quella che, nella traduzione, omette la specificazione che i testi antichi conservano e che la teologia riconosce come centrale.

L’atto del vedere “presso il Padre mio” (παρὰ τῷ πατρὶ μου) non è neutro. Indica non solo una visione ricevuta, ma un’esperienza condivisa. Gesù parla perché ha visto, ma ha visto non da lontano, non da spettatore, bensì da Figlio. È questa la fonte della sua autorità: non è un inviato qualunque, è il Figlio che ha visto, che conosce, che rivela.

Quella piccola parola, mio, è un sigillo di filiazione divina, un indizio di quella “gloria come di unigenito dal Padre” (Gv 1,14) che attraversa tutto il Quarto Vangelo. Lasciarla cadere significa oscurare la sorgente da cui scaturisce la Parola: non solo la verità di Dio, ma l’intimità del Figlio col Padre.

Ecco perché, in fedeltà al testo e alla teologia che da esso promana, sarebbe auspicabile che le future traduzioni della Scrittura accolgano nuovamente quella voce che i manoscritti antichi hanno custodito, che San Girolamo ha compreso e rispettato, e che la teologia della Chiesa riconosce come decisiva: quella di Gesù che parla non da un generico “presso il Padre”, ma da presso il Padre suo. In quel “mio” sta la chiave di tutta la rivelazione.