Grazie a Investigatore Biblico per queste analisi sulle nuove traduzioni bibliche.
Luigi C.
4-6-25
Già in passato avevo trattato questo tema. Rileggere anche questi articoli (Indizio n. 216: “CANCELLATO il demonio dalle Bibbie CEI 74 e 2008. Una omissione imperdonabile. Il caso del Salmo 109,6” di INVESTIGATORE BIBLICO – Investigatore Biblico ;
Nel cuore delle Scritture si nasconde spesso una parola decisiva, un accento che orienta tutto il senso del messaggio. Una parola apparentemente semplice, ma che porta con sé un’eco profonda, che affonda le sue radici nel discernimento spirituale più autentico. Uno di questi casi si trova nella Prima Lettera a Timoteo, al capitolo 6, versetto 9. È un versetto che dovrebbe interrogarci con forza, perché si confronta con una delle passioni più seducenti e pericolose del cuore umano: il desiderio di arricchirsi.
San Paolo scrive a Timoteo con tono pastorale e paterno, con quella voce che vuole preservare la comunità da deviazioni sottili ma letali. La traduzione CEI del 1974 così riporta il passo: «Al contrario coloro che vogliono arricchire, cadono nella tentazione, nel laccio e in molte bramosie insensate e funeste, che fanno affogare gli uomini in rovina e perdizione». La CEI 2008 lo ha riformulato così: «Quelli invece che vogliono arricchirsi, cadono nella tentazione, nell’inganno di molti desideri insensati e dannosi, che fanno affogare gli uomini nella rovina e nella perdizione».
Già un primo sguardo rivela delle differenze notevoli. Dove la CEI 1974 parlava di “laccio”, la CEI 2008 ha preferito cancellare anche quello, che in greco è παγίδα (pagída), termine forte, plastico, che evoca una trappola tesa da un cacciatore. Ma l’omissione più grave (di tutt’e due le versioni CEI 74 e 2008), che cambia il cuore stesso del messaggio, è quella della parola διάβολου (diabólou), cioè “del diavolo”. San Girolamo, nella Vulgata, è chiarissimo: “in laqueum diaboli”, “nel laccio del diavolo”. Così è anche nei codici greci D (Claromontanus), F (Augiensis), G (Boernarianus), codici antichi e autorevoli della tradizione testuale del Nuovo Testamento.
La rimozione di questo termine è teologicamente pesante. Non si tratta di una semplice questione filologica, ma di una omissione che annacqua il valore dell’avvertimento paolino. San Paolo non parlava di un pericolo generico, ma identificava con chiarezza un agente spirituale del male. L’avidità non è solo un errore etico o un inciampo umano; è un laccio — una trappola — tesa dal diavolo, il divisore, colui che inganna l’uomo per separarlo da Dio. È un linguaggio spirituale, sì, ma anche estremamente concreto, perché il potere del denaro seduce, illude e imprigiona.
Perché allora l’omissione? Si è forse pensato che il riferimento al diavolo potesse risultare urtante per una sensibilità moderna, troppo razionalizzata? Si è forse creduto che una parola così forte potesse “scandalizzare”? Ma non è forse vero che la Parola di Dio, quando è autentica, scuote, smuove, purifica? Quando si tace una parola, non si finisce per alterare il messaggio stesso?
La Scrittura, quando è annunziata nella sua integrità, ha la forza di provocare un vero discernimento interiore. Non per scandalizzare, ma per liberare. Il cristiano, soprattutto oggi, ha bisogno di chiamare le cose per nome, di vedere con chiarezza ciò che insidia il cuore e ciò che può guarirlo. Non si tratta di demonizzare ogni realtà, ma nemmeno di rendere innocuo ciò che la Parola ha indicato come pericoloso. Se San Paolo ha parlato di “laccio del diavolo”, è perché sapeva che la radice di tante cadute non è solo psicologica o sociale, ma spirituale.
La tentazione della ricchezza non è una semplice fragilità: è una via verso la perdizione, se non è vigilata e ordinata. E l’esperienza pastorale di ogni tempo lo conferma. Quante vite infrante, quanti cuori induriti, quanti rapporti distrutti dalla smania di possesso e dalla sete di denaro! Il demonio non si mostra sempre con tratti grotteschi o spaventosi: spesso si cela nella seduzione di ciò che appare utile, desiderabile, rassicurante.
Per questo è grave omettere una parola come διάβολου: perché toglie profondità al testo, ne attenua l’urgenza, priva il lettore di una chiave spirituale fondamentale. La Parola di Dio non ha bisogno di essere “adattata” per essere accettabile; ha bisogno solo di essere accolta nella sua interezza. Anche quando disturba, anche quando interpella.
È uno scandalo — ma un santo scandalo — quello della Parola vera. Un credente adulto non chiede una parola che lo culli, ma una parola che lo svegli. San Paolo non aveva paura di dire il nome del nemico. E noi?