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sabato 7 giugno 2025

Dov’è finito il Papa? Una liturgia che nasconde il ruolo di Pietro #papaleonexiv

Continuiamo le analisi sull'inizio di pontificato di Leone XIV.
Questa volta un'analisi critica sulle prime liturgia papali.
QUI il video.
Fino a quando dovremo sopportare mons. Diego Ravelli che ha persino tolto la croce dal centro dell'altare, croce sopravvissuta persino a Francesco.
Luigi C.

Questa è la traduzione italiana dell’articolo comparso su The Remnant Newspaper, 31 maggio 2025.

La liturgia, per sua natura, non è mai un insieme neutro di gesti, ma un linguaggio sacro, ordinato e rivelativo. Perciò, la liturgia papale non è soltanto una celebrazione eucaristica, ma l’atto pubblico più eloquente attraverso cui la Chiesa esprime la propria fede nella singolarità del munus petrino. La Messa di inizio del Ministero Petrino (18 maggio 2025) e quella di insediamento sulla Cattedra Romana (25 maggio 2025) di Papa Leone XIV avrebbero dovuto rappresentare il compendio visibile di questa singolarità. Cosa che, purtroppo, non è avvenuta in maniera soddisfacente, ma la colpa non è da imputare al Pontefice, quanto a coloro che sono responsabili oggi delle cerimonie pontificie.
Il filo rosso che lega Annibale Bugnini, Piero Marini e Diego Ravelli è costituito dalla progressiva soppressione di tutti quegli elementi liturgici della cappella papale che manifestavano l’eccezionalità (anzi, l’unicità) del Pontificato romano. Bugnini, architetto della riforma liturgica postconciliare, pretese concepire un ordinamento liturgico “più pastorale” ma, inevitabilmente, meno simbolico. Marini, suo allievo e cerimoniere di Giovanni Paolo II, portò avanti un’agenda tesa a “semplificare” il rito papale, omettendo e modificando gli elementi tradizionali sotto pretesto di adattamento culturale e dialogo ecumenico. Ravelli, formatosi nella medesima scuola, ne è oggi l’esecutore coerente.

Questa linea di riforma ha prodotto non solo una liturgia più povera nei segni, ma anche una modificazione percepita dell’identità stessa del Papato. L’esito paradossale è che la liturgia pontificia oggi imita la liturgia episcopale, laddove una volta era il contrario: l’archetipo si è sottomesso alla copia.

Durante la Messa di inizio del Ministero Petrino in San Pietro, il Papa è apparso circondato da una “sobrietà” inedita per un tale evento. Nessun trono papale visibile. Nessun simbolo forte della potestà petrina. Nessun gesto che trasmettesse il senso della superiorità del Vescovo di Roma come principio visibile di unità e di giurisdizione universale. I simboli che un tempo manifestavano la supremazia del Romano Pontefice sugli altri vescovi sono stati o rimossi o resi impercettibili.

E si badi bene che tutte queste non sono inezie o dettagli per fissati. La liturgia, ovvero la lex orandi, deve rispecchiare la lex credendi, cioé il deposito e l’ordine della dottrina da credere. Quando si tolgono elementi liturgici, in realtà si prepara il terreno alla rimozione degli elementi dottrinali cui quelli vogliono rimandare.

In San Giovanni in Laterano, la Cattedrale del Vescovo di Roma, l’omelia papale è stata pronunciata in piedi. Eppure, proprio in quella sede, la tradizione vuole che il Pontefice insegni dalla Cattedra, seduto, a sottolineare che non insegna in quanto persona privata e neanche come vescovo, ma come successore di Pietro, principe di tutti gli apostoli. Il rifiuto di utilizzare il trono – o l’uso scorretto della cattedra – segnala una mutazione nella percezione pubblica del Papato: non più maestro universale, ma vescovo tra i vescovi.

La mancata comprensione del valore simbolico della Cattedra romana è, in effetti, forse l’indizio più preoccupante. Come giustamente rilevato da alcuni commentatori, l’omelia pronunciata in piedi, invece che seduto, nega visibilmente che il Papa ha il potere di insegnare al mondo intero ex cathedra, in quanto depositario primo del munus docendi ricevuto da Cristo.

La sedia di Pietro non è un simbolo di potere personale, ma di autorità dottrinale, e l’obbedienza dei fedeli non è rivolta al Papa come uomo, ma al ministero supremo da lui esercitato.

Emblematica è stata l’assenza della tunicella (o dalmatica), paramento liturgico proprio del diacono. Essa, quando indossata dal Papa o dal vescovo, rappresenta la pienezza degli ordini sacri e la carità del servizio sacerdotale. La sua esclusione, che già sotto Giovanni Paolo II era stata irregolare, è oggi sistematica. Guido Marini aveva cercato di reintegrare l’uso corretto di alcuni simboli durante il Pontificato di Benedetto XVI, ma Diego Ravelli ha proseguito nel solco dell’eclissi.

Un altro elemento scomparso è il fanone, ossia una doppia mozzetta circolare di sottilissima seta tessuta a strisce parallele di colore oro e amaranto, a significare la fede come scudo impenetrabile dai dardi del nemico e di cui Pietro è il garante, “colui che conferma”. Inoltre, i colori oro e amaranto rappresentano le due Chiese, l’Occidente e l’Oriente, indissolubilmente uniti nella figura del Pontefice di Roma.

Analogo discorso va fatto per l’arredo dell’altare, a cominciare dalla croce. Benedetto XVI aveva ricollocato la croce al centro dell’altare, riaffermando il principio del versus Deum come orientamento del culto. Ora la croce è stata nuovamente rimossa o posta in posizione marginale, come a voler dire che il protagonista della liturgia non è più il Signore, ma l’assemblea o – forse cosa peggiore – il celebrante, per quanto autorevole come il Papa o il vescovo.

Un altro elemento da evidenziare circa l’arredo papale riguarda l’assenza delle tradizionali sette candele. Si tratta, infatti, di un simbolo pontificale di grande rilevanza, profondamente radicato nella Tradizione e nella Bibbia. La sua origine risale all’Apocalisse di san Giovanni, che descrive una maestosa e solenne “liturgia cosmica”. Il numero sette, simbolo di totalità e perfezione nella Bibbia, rappresenta la Chiesa nella sua pienezza attraverso i “sette angeli”: da un lato la Chiesa militante, con i sette vescovi dell’Asia Minore citati in Apocalisse 1,20; dall’altro la Chiesa trionfante, richiamando alla mente i sette arcangeli e trovando un precedente nell’Antico Testamento con la menorah del Tempio, il candelabro a sette braccia (cfr. Esodo 25,31-40).

Secondo l’antico adagio ubi Petrus, ibi Ecclesia, la presenza del Papa porta con sé l’interezza della Chiesa. In origine, la disposizione di sette candelabri sull’altare era una prerogativa esclusiva del Pontefice, una tradizione che nel tempo è stata estesa anche ai vescovi.

Anche secondo l’Ordinamento Generale del Messale Romano (cfr. 117), le candele devono essere sempre sette quando a celebrare la Messa c’è il vescovo ordinario della diocesi e, fino a prova contraria, il Papa è Vescovo di Roma.

Nella Tradizione cattolica, la liturgia del Papa è l’origine e il criterio del rito romano. Oggi assistiamo a un’inversione: la liturgia papale si conforma alle prassi locali (spesso frutto di cosiddetta “creatività” anziché di tradizione), dismettendo il proprio carattere normativo. Si tratta di un rovesciamento pericoloso. Se ciò che è originario prende forma da ciò che ne è derivato, viene meno ogni principio di ordine.

Non si tratta di nostalgie estetiche, ma di sostanza ecclesiologica. Il Pontificato romano non è una semplice funzione amministrativa. Esso è, teologicamente, il principio visibile dell’unità della fede e della giurisdizione. Questa realtà si manifesta nella liturgia, che non è mai semplice ornamento, ma visibilità sacramentale del mistero della Chiesa.

Un unico gesto, tra molti altri discutibili, si distingue per significato positivo. Durante la Messa di insediamento sulla Cattedra romana, Leone XIV ha indossato una pianeta già usata da Giovanni Paolo II e Benedetto XVI. Questo paramento, ricco di motivi floreali e ornato da stelle dorate, reca sul petto il pescatore che riceve le chiavi del Regno. Sul retro, lo stemma di Giovanni Paolo II. Un simbolo di continuità, che almeno nella veste esteriore ha voluto ricordare l’identità del Papato come servizio petrino e custodia del deposito della fede.

Tuttavia, il valore di un paramento non può compensare l’assenza complessiva dei segni più importanti.

Non è un caso se i rappresentanti delle Chiese cattoliche orientali presenti alle celebrazioni apparivano smarriti, perfino annoiati. Abituati a liturgie solenni, ieratiche, dense di simbolismo e di bellezza, si sono trovati dinanzi a una liturgia scialba, uniformata e impoverita. Il rito romano ha perso quel senso di maestà e sacralità che un tempo lo rendeva riverito anche fuori dai confini occidentali, e persino cattolici.

Paradossalmente, proprio nei giorni precedenti, Papa Leone XIV aveva affermato ai partecipanti al Giubileo delle Chiese orientali (14 maggio 2025) che “è importante riscoprire, anche nell’Occidente cristiano, il senso del primato di Dio”. Durante la prima omelia, in occasione della Messa pro Ecclesia (9 maggio 2025), il Papa aveva detto: “[bisogna] sparire perché rimanga Cristo, farsi piccolo perché Lui sia conosciuto e glorificato”.

Ma come può Cristo essere reso presente se i simboli che lo mostrano vengono sistematicamente rimossi? L’umiltà non è annullamento dell’identità, ma obbedienza alla forma ricevuta. E quella forma, nella liturgia romana, è teologica ancora prima che estetica.

Una fede intelligente esige coerenza tra ciò che si crede e ciò che si mostra. L’assenza di simboli forti, la soppressione dei segni della giurisdizione papale, l’omologazione del rito romano papale a quello vescovile costituiscono non solo una perdita di decoro, ma un’alterazione della dottrina. La liturgia non è una vetrina pastorale, è il dogma reso gesto.

Per questo è inaccettabile che il Papa sia ridotto a semplice presidente dell’assemblea. Il Vescovo di Roma non è un vescovo come gli altri. Egli è l’origine visibile della comunione gerarchica, e la sua liturgia deve riflettere questa verità. Finché i segni non torneranno a manifestare la realtà che significano, i fedeli continueranno a vivere lo smarrimento di una Chiesa che sembra voler nascondere se stessa. Ma la luce non si nasconde: si espone, si proclama, si celebra.

Gaetano Masciullo

6 commenti:

  1. belle parole, calate in un contesto irrealistico; la realtà liturgica nella quale siamo costretti a vivere da decenni si chiama Novus Ordo Missae, questo spiega il perché della Messa papale criticata da Masciullo

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    1. L'ignoranza abbonda. La riforma del Novus Ordo Missae non ha modificato affatto gli aspetti che Masciullo descrive (esempio gli ultimi pontificali di Papa BenedettoXVI). Ma lo hanno fatto coloro che fanno della riforma liturgica una ideologia distruttrice.

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  2. La liturgia non è un dogma, è la preghiera del Popolo di Dio

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  3. Per prima cosa dovremmo ricordare che i Papi seguivano un loro proprio rito, loro esclusivo. Unica cosa sopravvissuta oggi è il doppio Vangelo cantato in greco e in latino. Fino a Benedetto XVI all’elevazione il Papa ostendeva verso i punti cardinali l’Ostia ed il Calice. Cosa che oggi si potrebbe reintrodurre, un privilegio unico dei Pontefici. Per il resto basta vedere il Moroni. I Papi si muovevano dal Trono all’altare con la falda enorme, si comunicavano seduti al trono e non all’altare, il Vino dal Calice era sorbito da una fistula in oro. Il prete assistente in piviale reggeva il libro quando il Papa dalla sede cantava qualche orazione. Etc. Un’ultima cosa, i fanoni. Tanto criticati, eppure rappresentavano gli occhi dei Fedeli puntati sul Papa, in origine erano piume occhiute di pavone.

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    1. Ciarpame giustamente relegato nell’armadio della storia.

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  4. Il remnant è una pubblicazione da evitare.

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