Vi proponiamo – in nostra traduzione – la lettera 1205 pubblicata da Paix Liturgique il 9 maggio, in cui si riporta un articolo di don Claude Barthe, liturgista e cappellano del Pellegrinaggio Populus Summorum Pontificum, pubblicato l’8 maggio sul sito Res Novae (QUI).
L.V.
Per l’Académie française, si parlerebbe di «élection de maréchal» [elezione di maresciallo, elezione quasi unanime; il riferimento è alle elezioni presidenziali francesi del 1873, in cui il maresciallo di Francia Patrice Maurice Mac Mahon, I duca di Magenta, fu eletto con 390 voti su 391: N.d.T.]: il secondo giorno del Conclave, al quarto voto, il card. Robert Francis Prevost O.S.A. ha ottenuto la maggioranza dei due terzi, più rapidamente del card. Joseph Aloisius Ratzinger nel 2005 e del card. Jorge Mario Bergoglio nel 2013.
Nato nel 1955 a Chicago, religioso dell’Ordine di Sant’Agostino, giurista molto competente, con una lunga esperienza pastorale in Perù dove diventerà Vescovo di Chiclayo, è stato chiamato da papa Francesco a diventare Prefetto del Dicastero per i Vescovi nel 2023.
Tutti i commentatori si chiederanno ora se sarà un fedele continuatore di papa Francesco. Si può rispondere sì e no. Sì, perché appartiene a quella che Papa Benedetto XVI, distinguendo le due possibili interpretazioni del Concilio Vaticano II, aveva definito «ermeneutica della rottura», o che si definirebbe in termini di politica politicante, necessariamente approssimativi quando si tratta di questioni ecclesiastiche, di centro-sinistra (l’«ermeneutica della riforma nella continuità», quella di San Giovanni Paolo II e Papa Benedetto XVI, essendo qualcosa come il centro-destra dell’universo conciliare). Grande amico del card. Blase Joseph Cupich, Arcivescovo metropolita di Chicago, artefice dei Vescovi bergogliani da due anni, sostenuto prima del Conclave dai progressisti più convinti (così il prof. Andrea Grillo, focoso militante anti-liturgia tradizionale, non ha potuto fare a meno di congratularsi vivamente per la sua futura elezione prima dell’apertura del Conclave).
No, perché la sua personalità è davvero molto diversa da quella del suo predecessore. Uomo saggio, equilibrato, che ascolta attentamente i suoi interlocutori e collaboratori, si presenta, anche con gli abiti antichi che ha indossato per apparire nella loggia delle benedizioni della Basilica di San Pietro in Vaticano, come un rifocalizzatore, un progressista moderato. Papa Leone XIV sarà diverso anche da papa Francesco, che il vento sinodale continui a soffiare o meno, perché non potrà governare da solo. Alcuni «pesi massimi» del Sacro Collegio di papa Francesco, che erano con lui sulla linea di partenza del Conclave, come il card. Pietro Parolin, Segretario di Stato, il card. Pierbattista Pizzaballa O.F.M., Patriarca di Gerusalemme dei Latini, il card. Matteo Maria Zuppi, Arcivescovo metropolita di Bologna e Presidente della Conferenza episcopale italiana, potrebbero formare con altri una sorta di governo forte che potrebbe imporsi per affrontare le grandi turbolenze prevedibili nella Chiesa e nel mondo. Certo, questi uomini sono tutto tranne che conservatori, anche se il card. Pizzaballa è compatibile con loro, ma sono realisti.
Inoltre, l’avanzata irreversibile, dal Concilio Vaticano II, della libertà religiosa applicata all’interno della Chiesa ha prodotto una sorta di anglicizzazione del Cattolicesimo. Ormai ogni Cattolico, teologo o fedele della base, può «fare bricolage» con il proprio credo e la propria morale. E questa frammentazione, inevitabile nella misura in cui la regola di fede è stata in qualche modo messa tra parentesi – per dirla rapidamente, c’è stata la sostituzione dell’esercizio del Magistero ordinario con quello pastorale o autentico –, è del resto teorizzata da quei Gesuiti, pensatori di un post-cattolicesimo, che sono il franco-tedesco padre Christoph Theobald S.I. e l’influente italiano padre Antonio Spadaro S.I.
Padre Christoph Theobald, professore emerito della Facultés Loyola di Parigi, sostiene «una visione poliedrica» della Comunione delle Chiese (ad esempio nell’opera collettiva diretta da don Angelo Maffeis, Una Chiesa «Esperta in Umanità». Paolo VI interprete del Vaticano II, Studium, 2019). Sulla stessa linea, padre Antonio Spadaro, ex direttore della rivista La Civiltà Cattolica, ha pubblicato il 4 maggio sul quotidiano La Repubblica un articolo intitolato La vera sfida non è l’unità ma la diversità, affermando che nel futuro «la Chiesa non può che essere pluralista». Poiché «le differenze sono una caratteristica della società globale, una condizione strutturale […] pretendere che la Chiesa – come qualsiasi realtà collettiva – si esprima in modo uniforme e monocorde, significa ignorare questa trasformazione». In modo molto sintomatico, egli sostituisce l’unità della Chiesa con la sua coesione, prezzo della sua integrazione nell’universo mentale della democrazia moderna: «La coesione non può essere cercata nell’uniformità, ma nella capacità di accogliere e armonizzare il molteplice». Questo è del resto uno dei temi preferiti del card. Matteo Maria Zuppi.
Padre Antonio Spadaro difende certamente la «libertà» del Synodale Weg [il Cammino sinodale tedesco: N.d.T.], ma anche, paradossalmente, come il card. Matteo Maria Zuppi, quella dei tradizionalisti! Non vede nulla di male nel mantenere la liturgia e il catechismo di un tempo e fa notare che papa Francesco «ha accordato ai lefebvriani [sacerdoti della Fraternità Sacerdotale di San Pio X: N.d.T.] la facoltà di confessare validamente, e lo stesso Bergoglio non esitò ad aiutare le comunità tradizionaliste quando era cardinale [più correttamente, Arcivescovo metropolita: N.d.T.] di Buenos Aires, facilitando la loro presenza legale nel Paese».
Se ipotizziamo che il nuovo Pontificato cercherà di governare come meglio può la nave in mezzo a un arcipelago di isole e scogli, quelli del sacerdozio degli uomini sposati, del diaconato femminile, delle rivendicazioni dei Cristiani LGBT, e anche dei Cattolici che si attengono alla dottrina preconciliare, ci si perde in interrogativi e congetture.
Il prof. Alberto Melloni, leader della Scuola di Bologna, che ha in gran parte diretto una monumentale Storia del Concilio Vaticano II (alla quale ha partecipato anche il card. Luis Antonio Gokim Tagle), ama dire che il Concilio di Trento è sempre presente sullo sfondo dei Conclavi dal Concilio Vaticano II. Come una cattiva coscienza, diremmo noi. Nel Conclave appena concluso, Trento era più o meno rappresentato dal gruppo dei conservatori (venti Cardinali?), di peso numerico molto ridotto dopo il rullo compressore che ha rappresentato per questa tendenza il pontificato di papa Francesco, ma con una presenza morale significativa. In particolare, le dichiarazioni del card. Gerhard Ludwig Müller sul ruolo del Papa, ovvero quello di confermare i suoi fratelli nella fede, rimangono un punto di riferimento. Lo stesso vale per il fatto che il card. Raymond Leo Burke e il card. Robert Sarah sono noti come difensori della liturgia tradizionale.
Si può immaginare che questo Pontificato, al di là dell’entusiasmo iniziale, soprattutto perché la Curia Romana e i Vescovi potranno respirare e non sentiranno più il peso dell’autoritarismo pignolo del precedente, si scontrerà con difficoltà insormontabili. Saranno difficoltà dottrinali. Spetterà a questi testimoni episcopali e cardinalizi, che si spera, in virtù della speranza cristiana, saranno sempre più numerosi, di dimostrarsi, con l’aiuto di Cristo e di sua Madre, all’altezza di questi tempi di crisi drammatica, resa ancora più grave da un pontificato che ha promulgato documenti come la dichiarazione Fiducia supplicans sul senso pastorale delle benedizioni e l’esortazione apostolica postsinodale Amoris laetitia sull’amore nella famiglia (che al n. 301 afferma che in alcuni casi i coniugi adulteri consapevoli della norma morale possono trovarsi in stato di grazia). Questi Successori degli Apostoli dovranno opporsi profeticamente all’insegnamento di eterodossie di ogni genere che persistono e potranno emergere. E dovranno esortare Papa Leone XIV a confessare la fede e a confermare i suoi fratelli.
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