
Incominciano le analisi sulla morte di Francesco.
Tre articoli di Aldo Maria Valli.
Luigi C.
di Aldo Maria Valli, 21-4-25
Proprio in questi giorni ho terminato la lettura di Bergoglio. Una biografia politica, il libro che Loris Zanatta, forse il maggiore esperto italiano di America Latina, ha dedicato alla vicenda di Jorge Mario Bergoglio, dalla nascita in Argentina nel 1936 ai nostri giorni.
Mi sembra significativo che un bilancio sulla vita e l’opera di Bergoglio venga fatto in termini politici. Bergoglio, come emerge bene anche dal libro di Zanatta, è stato prima di tutto un politico, un gesuita che ha vissuto la sua missione come la vive un militante. Militante di che tipo? Per capirlo occorre uscire dalle logiche nostre, europee, e immergersi nel mondo argentino. Ecco così che la figura di Bergoglio si staglia come quella di un peronista, sebbene la qualifica dica poco in sé, in quanto ci sono stati peronisti di vario orientamento. Diciamo meglio: un populista. Colui che ha sempre fatto dell’idea di popolo la sua stella polare. Idea cavalcata in termini politici, per accrescere il proprio potere e la propria influenza, fino all’elezione al soglio di Pietro al posto di Benedetto XVI, con il quale non ebbe mai la benché minima affinità. E come l’avrebbe potuta avere un populista argentino rispetto a un teologo bavarese?
La lettura del libro di Zanatta mi ha confermato nell’idea che la parola con la quale si può riassumere la parabola di Bergoglio è soprattutto una: ambiguità. In Argentina si diceva: mette la freccia a sinistra per girare a destra.
Da monsignore e poi da cardinale, così come da papa, gli succedeva spesso di dare per reali le sue convinzioni (la Laudato sì ne è un esempio lampante). E non si sentiva in obbligo di fornire spiegazioni. Coltivare pregiudizi in ogni campo, compresa l’economia, e scambiarli per realtà fattuali divenne strategia. Predicare bene senza farsi carco di nulla. Questo il suo segreto. Quando parlava a braccio era spericolato. Pregiudizi e scarse conoscenze venivano a galla, ma sfruttò la stampa tremebonda e desiderosa di legarsi al carro del vincitore. In effetti, da buon populista, si servì abbondantemente dei media. Ma è evidente che i media si sono serviti altrettanto abbondantemente di lui.
Nella sua insalata mista, in quel fiume di parole che rischiavano spesso di diventare chiacchiera da bar, c’era una certa dose di narcisismo. Gli piaceva essere così com’era. Non aveva complessi. Il populista si compiace anche della sua superficialità. Il politico non è tenuto a rispettare il principio di non contraddizione.
“Campione a tenere i piedi in diverse staffe” lo definisce Zanatta. Contraddittorio per programma. “Viaggerò poco” disse con il fare umile all’inizio del mandato. Poi viaggiò moltissimo. “Non mi piacciono le interviste” dichiarò mostrandosi ritroso. Poi fu il più intervistato.
Camaleontico, come Perón. Il papa del “sì però ma anche no, no ma anche sì”, come scrissi in tempi non sospetti attirandomi gli strali dei bergogliani e di tanti adoratori del papa arrivato dalla fine del mondo.
Di notte incendiario, di giorno pompiere, dice ancora Zanatta. Piegare i fatti alle sue convinzioni fu la costante. E qualcuno ancora sostiene che ci fu continuità con Ratzinger, il limpido e rigoroso professore tedesco!
Parlava dei poveri. Ne parlò moltissimo. Voleva una Chiesa povera e per i poveri. Ma fu essenzialmente pauperista e fece dell’idea di povertà (anche questa generica) una bandiera politica.
Predicò la misericordia. Ma fu durissimo contro chi si metteva di traverso sulla sua strada, contro chi obiettava. Fece della sinodalità la sua bandiera, ma fu papa re, sprezzante persino del diritto.
Ho notato in Bergoglio un’autentica pulsione totalitaria. Mentre qui lo esaltavano (che bello, che bravo il papa arrivato dalla fine del mondo) vedevo stagliarsi accanto a lui l’ombra non solo di Perón ma anche di Fidel Castro. Stessa pasta.
Quel suo “buonasera” iniziale fece scalpore e molti andarono in brodo di giuggiole. Qualcuno subodorò l’inganno. In Argentina non pochi scossero il capo: rieccolo!
Farsi piccolo per farsi forte, per conquistare il potere. Di nuovo un giudizio di Zanatta. Lo vedemmo quando, nel conclave del 2013, parlò volutamente poco e volutamente in tono dimesso. Strategia. Quando l’arcivescovo di L’Avana gli chiese il testo del discorso, rispose che non c’era. Ma il giorno dopo glielo portò, scritto e stampato, e lo autorizzò a diffonderlo.
Più astuto che originale, si fece spazio anche grazie all’ignoranza dilagante. Diceva spesso banalità, ma nel mondo della banalità chi si comporta così riceve applausi.
Davanti a un’analisi attenta, i suoi esercizi retorici, dall’economia alla liturgia (che comunque non è mai stata tema per lui interessante se non in termini di tattica ecclesiastica) non reggevano. Ma che importava? Questo non è il tempo delle analisi attente.
Subito dopo l’elezione, nel 2013, fui ospite da lui per una giornata, a Santa Marta. Sembrava felice, per niente timoroso davanti all’incarico. Sorrideva, era ciarliero. Era chiaro che nei rapporti interpersonali ci sapeva fare. Ero un giornalista, il vaticanista del Tg1. Mi mostrò come viveva la sua vita di tutti i giorni, ma disse no alla telecamera. Mi ingolosì. La sua pietà popolare (la devozione per san Giuseppe) mi parve autentica. Mi parve di essere non davanti al nuovo papa, ma al rettore di un seminario. Non possedeva la gravitas. Simpatico? Sì, mi risultò simpatico. Vissi una giornata straniante. Aveva voluto manipolarmi?
In Argentina si dice che non c’è nulla di più simile a un peronista di un gesuita. Oggi diciamo addio al gesuita peronista o, se preferite, al peronista gesuita. I caudillos populisti spesso dietro di loro non lasciano che macerie.
Quella ferita chiamata “Amoris laetitia”
di Aldo Maria Valli, 21-4-25
Qualcuno ha parlato di eresie di Francesco. Se non vogliamo usare il termine eresia, possiamo parlare di errori. Gravi errori. Di certo, Francesco ha deviato. A più riprese.
Amoris laetitia ha di fatto introdotto il relativismo morale nel magistero.
Presentandosi come documento di natura pastorale piuttosto che dottrinale sembra voler rassicurare. In realtà è deviante perché sgancia la pastorale dalla dottrina e, mettendo in primo piano la prassi, relativizza l’idea di verità.
Le norme divine ridotte a “ideali” (a cui si può tendere, ma senza la pretesa di raggiungerli) e il peccato trasformato in semplice inadeguatezza e fragilità umana sono altri fattori che fanno di Amoris laetitia un documento teso a scardinare la dottrina cattolica sostituendola con il pragmatismo e lo storicismo (da cui la rottura netta rispetto a Veritatis splendor di san Giovanni Paolo II).
Il filone lo conosciamo bene. È quello dei Chenu, dei Rahner, e Kasper non è che il distillato di un pensiero teologico ispirato allo storicismo, e senza che ci sia stato nemmeno lo sforzo di rinnovare un po’ il linguaggio.
Evidente la volontà di riallacciarsi al pensiero modernista troncando di netto con le tesi del papa polacco riproposte e valorizzate dal primo preside dell’Istituto, quel professor Carlo Caffarra che poi sarebbe stato uno dei quattro cardinali sottoscrittori dei famosi dubia (che mai hanno ricevuto risposta) proprio su Amoris laetitia.
Per cui Amoris laetitia non è nuova, ma vecchia, anzi vecchissima. E tuttavia è rivoluzionaria nel senso pieno del termine, perché con essa il magistero abbandona la via ontologica e imbocca la strada dell’esistenzialismo.
Dio? Si rivela nella vita del popolo. La dottrina? Va interpretata in base alle situazioni date. La legge? Va modulata a seconda della storia e dei luoghi, per cui è possibile un pluralismo dottrinale e morale. I principi morali? Non sono più validi in assoluto ma possono avere eccezioni. Il discernimento? Non serve per scorgere la volontà di Dio, ma per aiutare l’uomo, immerso nella storia, ad aggiustarsi rispetto agli “ideali”.
Così, grazie a un linguaggio adeguato, tutto può diventare oggetto di discernimento nel senso che tutto può essere reversibile, interpretabile, aggiustabile. L’assoluto e il definitivo non ci sono più. Se la verità è nella storia, anche la Parola di Dio va relativizzata a seconda delle singole situazioni, delle singole biografie. Sarà la prassi a fare da sintesi. Ma, essendo prassi, sarà a sua volta variabile, modificabile sulla base degli accadimenti, delle sensibilità, dei gusti.
La pagina nera di Abu Dhabi
di Aldo Maria Valli, 21-4-25
Il 4 febbraio 2019 papa Francesco e il grande imam di Al-Azhar firmavano la dichiarazione di Abu Dhabi, testo che Vatican News, agenzia di stampa del Vaticano, definì “un forte invito a riscoprirsi fratelli per promuovere insieme la giustizia e la pace” e “una pietra miliare non solo nei rapporti tra cristianesimo e islam”.
Purtroppo, a mio giudizio (e non solo mio) si è trattato di una pietra miliare in senso negativo, perché ha introdotto un concetto che, semplicemente, non può essere cristiano né tanto meno cattolico.
Come disse autorevolmente il professor Josef Seifert, uno dei maggiori filosofi cattolici contemporanei, firmando una dichiarazione nella quale si sostiene che Dio vuole una pluralità religiosa il papa ha sfidato sia la fede sia la ragione e ha fatto di Dio un relativista.
Certo, alcune verità su Dio e sulla legge morale naturale sono conosciute dai pagani e sono presenti anche nelle religioni non cristiane, ma sostenere, come si legge nella dichiarazione, che “il pluralismo e la diversità delle religioni sono voluti da Dio nella sua saggezza, attraverso la quale ha creato gli esseri umani” è qualcosa di inaccettabile per un battezzato.
Come può Dio aver voluto religioni che negano la divinità di Cristo? Non va questo contro la logica oltre che contro la fede? Davvero Dio può volere che le creature umane sostengano idee e fedi contraddittorie rispetto a Gesù Cristo e a Dio stesso?
Come può Dio – che ha mandato i suoi discepoli a predicare e a battezzare il mondo intero – aver voluto qualsiasi eresia cristiana, per non parlare delle religioni che negano Gesù? E Gesù non ha forse detto che solo chi crederà in Lui sarà salvato, mentre chi non lo farà sarà perduto (Gv 3,1 8)?
E se Dio davvero avesse voluto la pluralità delle religioni, perché mai Gesù ci avrebbe chiesto di predicare il Vangelo a tutte le nazioni raccomandando di battezzare nel suo nome per la salvezza dell’anima?
Come può essere vero che Dio “nella sua saggezza” ha voluto fin dalla creazione che molti uomini non credessero nell’unico Redentore?
Giustamente Seifert disse che nessuna acrobazia mentale può sostenere che l’affermazione presente nel documento di Abu Dhabi non contenga alcuna eresia. Anzi: quella proposizione appare come la sintesi di tutte le eresie, perché afferma che è volontà divina che una grande maggioranza dell’umanità possa sposare ogni tipo di credo religioso falso e non cristiano.
Attribuendo a Dio la volontà che ci siano religioni che contraddicono la sua divina rivelazione – invece di attribuirgli la volontà che tutte le nazioni dovranno credere nell’unico vero Dio e nel suo figlio e redentore – Dio viene trasformato in un relativista: o non sa che esiste una sola verità oppure non gli importa che gli uomini credano alla verità o alla falsità.
Il professor Seifert (e noi fummo con lui) chiese che ogni cattolico pregasse per la conversione del papa in modo che rigettasse quell’orribile frase firmata da lui e dal grande imam. Invece non solo non ci furono ripensamenti, ma il testo fu esaltato dalla stampa vaticana come “un documento ragionato con sincerità e serietà per essere una dichiarazione comune di buone e leali volontà”.
Sempre dalla stampa vaticana venimmo a sapere dell’esistenza di un apposito “Comitato superiore per l’attuazione del documento sulla fraternità umana” e che nell’ultima riunione del comitato un rabbino di Washington definì la dichiarazione di Abu Dhabi come un testo “in armonia con tutte le religioni del mondo”.
Mi spiace per il rabbino, ma quel testo non è in armonia con tutte le religioni del mondo. Perché non è in armonia con la religione cattolica.