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giovedì 6 marzo 2025

Ostpolitik: la resa della Chiesa davanti al totalitarismo comunista

Grazie a Marco Tosatti per questa utile analisi sul disastro per la Chiesa che è stato l'Ostpolitik.
La medesima cosa che si sta facendo ora, non si impara mai, con i famigerati accordi con la Cina comunisti.
Nelle foto a fianco e in fondo, Paolo VI con Tito e Gromyko.
Luigi C.

1 Marzo 2025 

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, Antonello Cannarozzo, che ringraziamo di cuore, offre alla vostra attenzione questa riflessione su una politica della Chiesa verso l’Unione Sovietica. Buona lettura e diffusione.

Ostpolitik: la resa della Chiesa davanti al totalitarismo comunista
Antonello Cannarozzo

Una storia per non dimenticare, raccontata attraverso la vita e le sofferenze di quattro vescovi, tra i tanti, che si seppero opporre al regime marxista e alla umiliante politica di apertura voluta dal Vaticano
Chi ha qualche capello bianco e in gioventù ha vissuto nelle organizzazione parrocchiali dei primi anni ‘50, ricorderà certamente i racconti che arrivavano dall’Est europeo, al di là della famigerata “Cortina di Ferro”, dove vigeva il comunismo di stampo sovietico che tante sofferenze arrecava ai cristiani.
Era questa la “Chiesa del Silenzio” di cui apparentemente non si sapeva nulla dei suoi fedeli, ma a volte anche il silenzio sa urlare al mondo la verità, come accadde per anni a uomini e donne che seppero resistere al comunismo avendo un baluardo sicuro nella Fede e nel Papa a Roma, almeno durante tutto il pontificato di Pio XII.
Dopo questa eroica resistenza di anni della Chiesa e dei suoi pastori, emerge uno dei capitoli più complessi e tristi della diplomazia vaticana tra gli anni ’60 e 80, la cosiddetta Ostpolitik, dalla politica dell’allora cancelliere tedesco Willy Brandt per un riavvicinamento con i Paesi dell’est, dopo la seconda guerra mondiale, una iniziativa ripresa da papa Montini in quegli stessi anni per una nuova fase della diplomazia vaticana che si proponeva di inaugurare un dialogo, purtroppo a senso unico, con i regimi comunisti.

Vicende fatte di eroismi, ma anche di viltà, di generosità e di sopraffazione che in questo articolo cercheremo di raccontare attraverso le storie, ma sono tantissime, di quattro vescovi che avendo subito un vero odium fidei nei loro Paesi seppero resistere alla dittatura, ma si opposero con coraggio anche alle aperture della Santa Sede per una politica diplomatica rivelatesi ben presto fallimentari nel cercare intesa con i governi ‘Oltre Cortina’, una realtà che la “nuova Chiesa” spesso ignorava e a volte anche colpevolmente.

Leggiamo, ad esempio, alcuni stralci di una lettera pastorale dei vescovi polacchi in difesa della fede, pubblicata l’8 settembre 1976, ma che potrebbe essere stata scritta anche da vescovi ungheresi, baltici, bulgari o rumeni in quegli anni.

” Il nostro più grande tesoro è la fede cattolica, – affermava con decisione il documento – ma essa è continuamente minacciata. Il programma di ateizzazione della nazione, abilmente mascherato, diventa sempre più grave, poiché cerca in ogni maniera di spogliare la vita della nostra comunità sociale dello spirito del Vangelo di Cristo – ed ancora – Con dimensioni sempre più vaste anche le istituzioni di carattere formativo e le istituzioni sociali e politiche intraprendono e conducono avanti il programma di ateizzazione della nazione (…) Per ostacolare il progresso della religione ed anche per limitare la venerazione di Dio, si adoperano i regolamenti della legge sull’edilizia. In realtà però non ha ancora avuto fine la odiosa, brutale lotta contro la fede in Dio e contro la Chiesa di Cristo. Si respira in continuazione e dappertutto una misteriosa cospirazione contro Dio”.

Un documento che non lasciava dubbi sulla vita dei cristiani nell’Est europeo, ma non era così per la Chiesa post conciliare, tanto che il 1º dicembre 1977, un anno dopo di questo documento, Papa Paolo VI ricevette Edward Gierek, primo segretario del partito comunista polacco e rivolgendosi al premier affermava, tra l’altro, che: “Siamo stati informati delle iniziative che Ella intraprende per la tutela della famiglia, anche promuovendo la costruzione di abitazioni per i giovani sposi, e dei propositi da Lei manifestati in ordine alla elevazione del livello morale della gioventù. Questo riconoscimento che Le viene anche dalla Chiesa in Polonia significa insieme la volontà di appoggiare simili sforzi, che rispondono del pari a profonde preoccupazioni Nostre e della Gerarchia del Suo Paese”.

Dichiarazioni sconcertanti, soprattutto se confrontate con la dura denuncia dell’episcopato polacco dell’anno precedente. Per la Santa Sede, dunque, il bene della società era perseguibile dalla Chiesa insieme allo Stato guidato dal partito comunista, attraverso buoni rapporti tra le due realtà sociali.

Sarà questo, come vedremo, il leit motive di tutta diplomazia vaticana in quegli anni, con scandalo di chi soffriva la dittatura, ma anche per i semplici fedeli che non comprendevano tanta arrendevolezza, specialmente in un momento dove la Chiesa, pur sottoposta ad ogni persecuzione, cresceva nella coscienza delle persone per la sua forza morale anche non credenti, soprattutto tra i giovani che trovavano in essa la forza di vivere la cupezza dell’ideologia marxista.

Gli inizi di un dialogo

Un avvicinamento tra Vaticano e Unione Sovietica, era stata ricercata fin dagli inizi della Rivoluzione Bolscevica nella speranza di proteggere i cattolici dalla sopraffazione rivoluzionaria, senza però mai cedere ai valori della Fede, purtroppo questi primi tentativi non portarono a nulla.

Bisogna arrivare agli anni post bellici, tra il 1946 e il 1947, quando lo stesso papa Pio XII, davanti alle notizie di martirio dei cristiani in quelle terre, cercò ancora una volta un incontro diplomatico, ma l’operazione ben presto anche questa volta naufragò quando, come già sospettava, Mosca e i suoi Paesi “satelliti” non avrebbero mai concesso nulla alla Chiesa, ma solo mere parole di circostanza.

Nel Radio messaggio di alcuni anni dopo, nel 23 dicembre 1956, Papa Pacelli, parlando dei rapporti con i regimi comunisti, affermava tra l’altro: «A che scopo, del resto, ragionare senza un comune linguaggio, o com’è possibile d’incontrarsi, se le vie divergono, se cioè da una delle parti ostinatamente si spingono e si negano i comuni valori assoluti, rendendo quindi inattuabile ogni “coesistenza nella verità?».

Parole che dovevano essere un monito per i futuri papi e le loro azioni diplomatiche, ma così non fu. Ogni supplica alle autorità della Chiesa Montiniana specie proprio di coloro che vivevano ‘Oltre Cortina’ e da parte di tanti loro fedeli, per non capitolare davanti ai comunisti, trovarono invece solo indifferenza e spesso anche mal sopportazione. La Chiesa in quegli anni era mossa da una ideologia di rinnovamento assai deleteria (prolungatasi fino ai giorni nostri. Ndr) con il risultato che i frutti di questa azione diplomatica furono a dir poco inutili se non rovinosi, ma questa nuova svolta vaticana era, come disse Giovanni XXIII, la “Primavera della Chiesa” che nata male si trasformò ben presto in un gelido inverno.

Un esempio per comprendere dove si era arrivati con queste fallimentari “aperture”, ricordiamo le dichiarazioni del capo della diplomazia vaticana, il cardinale Agostino Casaroli, nel suo viaggio l’8 aprile del 1974 nell’isola di Fidel Castro affermare che il comunismo cubano fosse compatibile con la religione cattolica e senza tema di vergogna aggiungeva: “i cattolici e, in generale, il popolo cubano, non hanno la sia pur minima difficoltà con il governo socialista”. In conclusione, affermava ancora, in modo assolutamente imprevisto, che “i cattolici dell’isola sono rispettati nelle loro credenze come tutti gli altri cittadini”.

Un vero affronto per chi, in nome del Vangelo, sopportava in quel Paese ogni tipo di sopruso.

Fin che visse papa Pio XII la politica del Vaticano nei confronti del comunismo, pur nella sofferenza per i suoi fedeli, rimase ferma nei suoi principi legati alla Fede e alla Dottrina, ma con la morte del papa le cose cambiarono quasi immediatamente, il cosiddetto spirito innovativo del Concilio Vaticano II era ormai alle porte e ben presto avrebbe dimostrato tutte le sue crepe, non solo dottrinali, ma anche diplomatiche.

Ricordiamo, solo di sfuggita, l’indegno capitolo, durante i lavori conciliari, quando, nonostante la maggioranza dei vescovi aveva chiesto di discutere sulla realtà e i pericoli del comunismo per i cristiani, la proposta venne colpevolmente censurata, si seppe poi di accordi avvenuti con Mosca tra i quali rappresentanti della Chiesa ortodossa, assai vicina al potere sovietico, poterono partecipare ai lavori del Concilio, insomma, le sofferenza di milioni di cristiani sacrificati sull’altare di uno squallido compromesso diplomatico.

In quegli anni, ruoli sempre più importanti nella politica estera vaticana li ebbero uomini come i cardinali Jean-Marie Villot e Agostino Casaroli, quest’ultimo vero tessitore, insieme a papa Paolo VI, della Ostpolitik, una stagione iniziata già con alcuni gesti eclatanti da papa Roncalli come l’incontro il 7 marzo 1963 con Alexej Adjubei genero del capo dell’Urss, Nikita Krusciov, iniziando quello che venne definito un primo disgelo.

Alla fine dell’incontro papa Giovanni disse al suo segretario, mons. Capovilla: “Può essere una delusione, oppure un filo misterioso della Provvidenza che io non ho il diritto di rompere”. La storia dimostrò poi che quel filo era saldamente nelle mani dei comunisti.

Davanti a questi infelici florilegi, emergono, come in tutte le tragedie, figure che per aver vissuto dure persecuzioni da quelle dittature, avevano tutta l’autorità e la forza morale per opporsi alla nuova politica del Vaticano, conoscendo assi bene la falsità dei regimi marxisti.

Abbiamo scelto tra le tante figure quelle che possono essere prese ad esempio di resistenza ad un epoca oscura, non solo per la Chiesa, ma per l’umanità intera.

Josyp Ivanovyč Slipyj

Il cardinale ucraino Joseyp Slipyj per la sua fedeltà al Papa aveva scontato diciotto anni di lavori forzati nei campi di concentramento sovietici, ma una volta liberato nel 1962, poté partecipare, anni dopo, al Sinodo dei vescovi del 1971 a Roma.

Prendendo la parola nel rispettoso silenzio dell’assemblea, Slipyj mise in evidenza quel che nessuno, negli ambienti vaticani, aveva osato dire prima e cioè che la “politica” di avvicinamento della Santa Sede ai regimi comunisti e anche alla Chiesa Ortodossa, quest’ultima come noto collegata spesso allo stesso regime sovietico, era pericolosa. L’azione diplomatica portata aventi per volere del papa dal cardinale olandese Willebrands era in realtà una politica che danneggiava gravemente la Chiesa cattolica romana nella sua integrità creando confusione tra i fedeli stessi.

Riportiamo uno stralcio del suo intervento più significativo: “Non è tradendo e abbandonando alla loro sorte i fratelli nella fede cattolica di rito orientale che si giungerà a quella convergenza con gli ortodossi come vogliono far credere, essendo in molti casi emissari di Mosca, fanno intravedere davanti agli occhi di certi ingenui prelati, all’oscuro della reale situazione dei credenti all’interno del blocco sovietico”.

Parole chiare e senza infingimenti pronunciate con coraggio e amore verso la Chiesa da chi aveva subito ogni sopraffazione per tanti anni, ma ciò non fu visto di buon grado da chi dirigeva il nuovo corso vaticano in quei tempi e, come altri eroi dei gulag, venne emarginato dalla politica attiva della Santa Sede e lasciato in una specie di limbo con grave amarezza dei suoi fedeli.

Per comprendere brevemente chi fosse questo autorevole prelato ricordiamo che Josyp Ivanovyč Slipyj era nato in Ucraina nel 1892 e nel 1917 venne ordinato sacerdote presso la Chiesa cattolica di rito orientale nel suo Paese.

Uomo di profonda e vasta cultura teologica, nel 1939 venne nominato vescovo da papa Pio XI, in piena segretezza, a causa del governo sovietico.

Con l’inizio del conflitto mondiale, l’Ucraina venne occupata dalle forze tedesche e anche quelli furono anni assai duri, ma nel 1945, dopo la guerra, con il ritorno dei sovietici, invece di un periodo di pace tanto desiderata, iniziò per il vescovo il suo calvario insieme a quello di un intero popolo.

Venne arrestato con altri religiosi e accusato di collaborazionismo con i nazisti, accusa completamente falsa, e condannato a otto anni di lavori forzati da scontare in un gulag siberiano insieme ad altri religiosi, vescovi e sacerdoti.

Nello stesso periodo i sovietici, approfittando della situazione di smarrimento, il 9 marzo del 1946 aprirono un sinodo nella cattedrale di San Giorgio a Kiev a cui parteciparono 216 sacerdoti e venne deciso, senza alcuna legittimazione, che la Chiesa orientale cattolica rientrasse sotto l’autorità della Chiesa ortodossa con la revoca dell’unione con Roma avvenuta nel XVIII secolo.

Monsignor Slipyj, insieme ad altri prelati, recluso ancora ai lavori forzati nel gulag, rifiutò ogni offerta di conversione all’ortodossia e subì nuove condanne fino alla deportazione a vita, ma nel 1962. Nikita Krusciov, allora capo della Unione Sovietica, sotto pressioni internazionali, si disse anche in omaggio a papa Giovanni XIII, lo liberò definitivamente.

Una volta a Roma, Slipyj, proprio per la sua dolorosa esperienza, fu, come accennato sopra, tra le voci contrarie alla Ostpolitik, e per questo rimase, al di là delle belle parole d’apprezzamento, come per altre magnifiche figure, assai emarginato, tanto che nonostante le richieste dei fedeli uniati non venne mai nominato patriarca della Chiesa ucraina né da Paolo VI e né da Giovanni Paolo II e questo per non indispettire le autorità comuniste e interrompere così quel dialogo che in realtà era ancora di là da venire.

L’eroico vescovo morì a Roma il 7 settembre del 1984, ai suoi funerali parteciparono oltre settecento sacerdoti e una folla di fedeli.

Jozsef Mindszenty

Un altro gigante di quegli anni è certamente il cardinal ungherese Jozsef Mindszenty, simbolo della lotta prima al comunismo e poi dell’Ostpolitik che osteggiò sempre anche in età già avanzata.

Un impegno che gli costò, come a tanti altri, umiliazioni, silenzi fino all’emarginazione proprio da quella Chiesa per la quale aveva sopportato ogni sofferenza.

Era nato in un paesino dell’Ungheria, il 29 marzo del 1892. Ancora giovanissimo sentì la vocazione religiosa e nel 1915 venne ordinato sacerdote. La sua fu una vita sacerdotale di sofferenza fin dall’inizio della sua missione; con la fine della prima guerra mondiale e la caduta dell’impero Austro-Ungarico, i comunisti con un colpo di mano presero il potere e il giovane Mindszenty venne arrestato con l’unica colpa di essere prete.

Dopo un breve periodo di detenzione, venne liberato e poté finalmente svolgere la sua missione, ma nel 1944 in pieno conflitto mondiale venne arrestato di nuovo, ma questa volta dai nazisti e liberato con la fine del conflitto. Nel 1945 fu consacrato arcivescovo e primate d’Ungheria e nel 1946 fu elevato alla porpora cardinalizia.

Ma per Mindszenty non c’era pace.

Tre anni dalla fine della guerra, i comunisti presero nuovamente il potere e per prima cosa si scagliarono contro i cristiani insieme ai loro pastori e per l’Ungheria cominciò una lunga “Via dolorosa”.

Mindszenty subì l’arresto, le torture, fu addirittura drogato per fargli confessare di aver cospirato contro lo Stato, ma tutto fu inutile per i suoi aguzzini. Seguì un processo farsa, tipico di quei regimi, venne condannato ad otto anni di carcere duro. Nel 1956, allo scoppio della rivolta popolare degli ungheresi contro il regime, fu tra i primi che la folla volle portare in trionfo.

La libertà assaporata dal presule fu per pochi giorni, le truppe sovietiche entrarono a Budapest e tutto tornò nel buio della dittatura comunista. Dopo aver assaporato una fugace libertà, arrivò la cupezza sulla terra magiara con i carri armati di Krusciov.

Il Cardinale Mindszenty venne subito ricercato per aver aderito alla rivolta, trovò fortunatamente rifugio presso l’Ambasciata statunitense senza però poter mai uscire per quasi vent’anni per non essere arrestato.

Si oppose sempre alle trattative vaticane con i governi comunisti che ben conosceva, nonostante la Chiesa si trovassero in una grave sofferenza, non per questo mancò alla sua missione, un impegno che aumentò il suo prestigio morale contro un governo tirannico.

Famosa fu la sua risoluta opposizione, tra l’altro, alle nomine dei vescovi nei Paesi sotto la chiara influenza dell’Unione Sovietica, ovvero solo religiosi graditi ai rispettivi regimi; una risoluzione che umiliava al Chiesa, ma caldeggiata dall’allora Segretario di Stato della Santa Sede, il cardinale Jean Villot, nella speranza di agevolare un dialogo con quei Paesi.

Una illusione che portò, come vedremo, al lento declino e alla irrilevanza della diplomazia Vaticana, per secoli invidiata nel mondo.

Gli anni intanto passavano, il mondo stava cambiando e quel cardinale, auto prigioniero nell’ambasciata americana di Budapest, era divenuto un ostacolo per i disegni diplomatici del Vaticano, ma anche della nuova politica di Washington, in sostanza era ormai una figura ingombrante.

Tante le offerte del Vaticano affinchè abbandonasse l’Ungheria, ma il cardinale ben sapeva che accettare sarebbe stato un esilio e lui, vera bandiera per i suoi fedeli, li avrebbe traditi assoggettandosi ad una capitolazione senza alcuna speranza.

Tuttavia era solo e i suoi nemici assai più numerosi e potenti e alla fine del 1971 non poté più resistere oltre agli inviti “fraterni” dello stesso Paolo VI e per obbedienza accettò l’esilio romano.

Nel tempo si avverò ciò che aveva più temuto, la sua emarginazione fu pressoché totale e così quella della lotta al comunismo.

Amareggiato da quella Chiesa per cui aveva tanto sofferto e lottato, preferì allontanarsi da Roma e trasferirsi a Vienna.

Dalla capitale austriaca fece viaggi presso le tante comunità ungheresi sparse nel mondo facendo sentire la sua vicinanza senza mai abbandonare la lotta al comunismo di cui rimaneva un fiero e indomito avversario.

Il regime di Budapest però non poteva certo accettare una simile situazione e ottenne dal Vaticano la sua definiva emarginazione.

L’ordine venne eseguito e, quando Mindszenty raggiunse gli 81 anni, papa Paolo VI chiese subito le sue dimissioni da primate, ma il cardinale, da uomo abituato a ben altre battaglie, con coraggio oppose un rispettoso, ma netto rifiuto, poi con una decisione di imperio il 18 novembre dello stesso anno, il papa, lo sollevò definitivamente dall’incarico.

Un simbolo della resistenza al comunismo era stato silenziato, ma non certo nel cuore degli ungheresi e degli uomini liberi. Morì a Vienna nel 1975 e il suo corpo oggi riposa a Budapest.

Pavol Hnilica

Era nato nella odierna Slovacchia da una povera famiglia di contadini profondamente cattolica nel 1921. Hnilica iniziò a lavorare giovanissimo come operaio per poi tornare a scuola e nel 1941 entrò nel seminario gesuitico, ma solo terminata la guerra poté riprendere gli studi ecclesiastici.

Nel 1950 i comunisti al potere, come sempre, misero fuori legge gli ordini religiosi e il giovane Pavol, ancora solo un seminarista, venne arrestato e deportato in un lager vicino il confine con la Romania. Tornato libero conobbe mons. Robert Pobozny che aveva avuto dalla Santa Sede la dispensa per ordinare sacerdoti e anche vescovi in clandestinità.

Fu così che il giovane Hnilica venne consacrato prima presbitero e poi vescovo in segreto, vista la pericolosità dei tempi. Questo nuovo ruolo gli permise inoltre di consacrare sacerdote, tra i tanti, anche il futuro cardinale Jan Chryzostom Korec, di cui parleremo più avanti.

Fortunatamente poté proseguire gli studi ecclesiastici a Roma presso la Gregoriana e nel 1964 Paolo VI rese pubblica la sua ordinazione vescovile e poté partecipare anche alle ultime battute del Concilio Vaticano II, dove richiese la condanna del comunismo, insieme a tanti altri vescovi, affermando nell’aula conciliare che ciò che lo schema della Gaudium et Spes affermava sull’ateismo era così poco “che dire soltanto quello è lo stesso che dire niente”. Una accusa pesante se pensiamo che il testo era stato scritto dallo stesso papa Montini, ma nella foga del suo intervento aggiunse che una larga parte della Chiesa soffriva “sotto l’oppressione dell’ateismo militante, ma ciò non si ricava dallo schema che pure vuole parlare della Chiesa nel mondo odierno!”. “La storia ci accuserà giustamente di pusillanimità o di cecità per questo silenzio” e, concludendo il suo intervento, “Parlo per mia diretta esperienza e per quella dei preti e religiosi conosciuti in prigione e con i quali ho sopportato i pesi e i pericoli della Chiesa”.

Incontrò più volte papa Montini mettendolo in guardia dagli inganni dell’Ostpolitik, era chiaro che i regimi comunisti non rinunciavano a voler liquidare la Chiesa ed erano aperti al dialogo con la Santa Sede solo per conseguire vantaggi unilaterali, grazie a cui recuperare credibilità all’interno e all’esterno dei loro Paesi.

Ma il papa rimase sordo a queste suppliche con le conseguenze che abbiamo ancora oggi. Morì nella sua terra l’8 ottobre del 2006.

Ján Chryzostom Korec

La figura del cardinale Ján Chryzostom Korec che abbiamo tenuto per ultimo, è un esempio di come un sacerdote può vivere la sua missione anche tra ostacoli insormontabili, armato solo della propria Fede.

Ebbe una vita travagliata come tutti i sacerdoti vissuti nei Paesi comunisti, ma lui è un caso particolare, poté esercitare la sua missione ufficialmente solo pochissime volte, il resto della sua vita lo trascorse passando tra il carcere e lavori modesti, secondo i capricci delle autorità, ma tutto sopportato sempre con grande dignità e serenità, nonostante il degrado in cui a volte doveva vivere.

Era nato da una famiglia operaia in Slovacchia n 1924, ancora adolescente entrò nella Compagnia di Gesù dove proseguì la sua formazione sacerdotale nel 1939. Dopo la guerra, nel 1948, i comunisti attuarono un colpo di Stato e per la Chiesa Cecoslovacca iniziò un lungo martirio. Facinorosi armati dal partito stesso assaltavano in quei giorni edifici religiosi, monasteri e chiese facendone razzie nella piena immunità e la polizia segreta proseguiva il lavoro con arresti di religiosi e di fedeli.

Nel 1950 fu ordinato sacerdote, anche lui in piena clandestinità, come fu già per mons. Hnilica, ma non poté esercitare, almeno alla luce del sole, dovendo nascondere ufficialmente la sua identità, lavorando in quegli anni come operaio presso fabbriche chimiche.

Nel frattempo molti vescovi erano stati arrestati e la gerarchia ecclesiastica in Slovacchia era ormai ai minimi termini, fu allora che la Santa Sede decise in segreto di nominare dei vescovi tra cui Korec.

Dal 1954, ormai vescovo anche se in incognito, ebbe dalle autorità statali una serie di occupazioni come tecnico di laboratorio presso l’Istituto di igiene del lavoro, e infine, non essendo considerato un bravo operaio, lavorò come guardiano notturno in una fabbrica.

Nel 1960 venne però scoperto ed arrestato insieme ad altri gesuiti e dovette scontare 12 anni di carcere duro. Estinta la pena, venne occupato prima al servizio giardinaggio e poi a quello di netturbino.

Nel 1969 dopo una grave malattia gli fu concesso di partire per Roma e qui papa Montini in udienza privata gli conferì le insegne vescovili.

Tornato in patria fu sempre sotto la sorveglia della polizia e dovette scontare ancora 4 anni di carcere per una vecchia condanna che lo vedeva reo di propaganda religiosa. Fu una esperienza dura e una volta uscito dal carcere, riprese con grande dignità il suo lavoro di spazzino, ma anche di scaricatore e infine di tecnico addetto agli ascensori, insomma fece di tutto a cui il regime lo assegnava.

Per la sua dolorosa esperienza fu sempre un fiero oppositore anche della Ostpolitik vaticana e contestò il cardinale Casaroli che, attraverso l’Ostpolitik, aveva liquidato la Chiesa clandestina e tutto questo “in cambio delle promesse vaghe e incerte dei comunisti”. Korec espose questo abbandono come “il dolore più grande della sua vita”.

Un lavoro immenso, non certo privo di pericoli, fu quello della “Chiesa del Silenzio” e tutto questo venne sacrificato sull’altare di un inutile, colpevole dialogo. Responsabile non fu certamente solo Casaroli, ma tutta quella Chiesa aperta al rinnovamento, ormai sicura che il comunismo avrebbe vinto la storia, ma le cose sappiamo come sono finite anche se le rovine di quell’esperienza di aperture sono ancora quotidianamente sotto i nostri occhi.



1 commento:

  1. Noto con piacere che a questo articolo non sono stati apposti i "braghettoni" e Giovanni XXIII, Paolo VI e Giovanni Paolo II devono fare a meno del "san", rispettando l'intenzione dell'autore e, dato il tenore dei fatti narrati, anche il semplice buonsenso!

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