Grazie a Sandro Magister per questa analisi sulla politica dell'Amministrazione Trump in tema di religione.
Luigi C.
13-2-25
(s.m.) Impensabile in Europa ma non negli Stati Uniti, la foto qui accanto mostra un ispirato Donald Trump alla Casa Bianca attorniato da una schiera di predicatori evangelici che gli impongono le mani e invocano su di lui le benedizioni divine.
Sono i leader religiosi che compongono il “Faith Office”, il dipartimento della fede istituito da Trump il 7 febbraio con un decreto presidenziale d’effetto immediato. La signora in bianco a destra è colei a cui egli ha affidato la guida dell’ufficio, Paula White, esponente di punta di quella “teologia della prosperità” che fu oggetto della severa critica di un editoriale de “La Civiltà Cattolica” del 21 luglio 2018.
Ma più che la “prosperità” come segno della predilezione divina, la polemica che vede oggi in conflitto Trump con le Chiese protestanti storiche e con la Chiesa cattolica ha per oggetto gli immigrati che egli ha cominciato ad espellere dagli Stati Uniti.
Già nella cerimonia religiosa inaugurale della sua presidenza, nella Washington National Cathedral, Trump non nascose la sua irritazione per i rimproveri a lui rivolti da Mariann Edgar Budde, vescovo della Chiesa episcopaliana.
Poi sono piovute su di lui le proteste di tanti vescovi cattolici, in testa il presidente della conferenza episcopale Timothy P. Broglio, in conflitto anche con quanto detto contro di loro dal vice di Trump, il cattolico convertito J.D. Vance.
Ma soprattutto martedì 11 febbraio è intervenuto di persona papa Francesco, con una lettera ai vescovi degli Stati Uniti di durissima condanna del “programma di deportazione di massa” avviato dalla presidenza Trump.
La lettera è articolata in dieci punti e nel sesto, pur senza farne il nome, il papa contesta proprio quanto detto da Vance in un’intervista a Fox News del 29 gennaio, a sostegno del primato da accordare, nell’amore del prossimo, anzitutto “a quelli di casa tua” e poi a quelli più lontani e poi ancora al resto del mondo, come insegnato da san Tommaso, da sant’Agostino e prima ancora dall’apostolo Paolo nella prima lettera a Timoteo al capitolo 5, versetto 8. Un “ordo amoris” – questo tratteggiato da Vance – che invece Francesco rovescia, assegnando il primato al povero, anche il più lontano, ed eleggendo a modello la parabola del buon Samaritano.
Trump non è certo tipo da farsi incantare da questa discesa in campo del papa. Ma comunque si svilupperà questo conflitto, esso conferma che negli Stati Uniti la religione ha un ruolo molto forte nell’arena politica, oggi come in passato, con ciascun presidente che interpreta tale ruolo a modo suo, in forme impensabili in altri paesi dell’Occidente secolarizzato.
È ciò che mette a fuoco nell’avvincente ricostruzione che segue Giovanni Maria Vian, storico e docente di letteratura cristiana antica all’Università di Roma “La Sapienza”, già direttore de “L’Osservatore Romano” dal 2007 al 2018.
Lo scritto è uscito sul quotidiano “Domani” il 9 febbraio 2025, ed è qui riprodotto con il consenso dell’autore.
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Trump tra re Davide e Ciro
di Giovanni Maria Vian
Trump come re Davide? L’accostamento sembra bizzarro, ma non a molti sostenitori evangelici del presidente, e la similitudine esprime bene il ruolo importante della religione – e nello stesso tempo l’uso politico della Bibbia – negli Stati Uniti. A conferma di una componente profonda che risale alla preistoria della nazione, fin dall’arrivo nel 1620 dei “padri pellegrini”, e che dopo oltre quattro secoli resta rilevante.
“Scrivo le meraviglie della religione cristiana, volata via dalle depravazioni d’Europa fino alla sponda americana” si legge nei “Magnalia Christi Americana”, pubblicati nel 1702 dal predicatore puritano Cotton Mather per celebrarli. “Non vi è nazione al mondo in cui la religione cristiana mantiene una presa maggiore sulle anime che in America” osserva nel 1831 Alexis de Tocqueville in un giudizio divenuto celebre, e aggiunge che “la religione è l’organismo principale del paese”.
Il paragone tra il candidato repubblicano con Davide risale già alla prima campagna elettorale che porta Trump alla guida della maggiore potenza mondiale. Ad accostarlo al re di Giuda – figura complessa e affascinante sulla quale di recente ha indagato con sottigliezza ed erudizione Ugo Volli (“Musica sono per me le Tue leggi”, La nave di Teseo) – sono nel 2016 due importanti esponenti del protestantesimo statunitense: Jerry Falwell Junior, alla testa di un’università di punta della galassia fondamentalista cristiana, e Franklin Graham, figlio del celebre Billy, il predicatore amico dei presidenti, da Lyndon Johnson e Richard Nixon fino a Reagan e Obama.
Persino la chiassosa capigliatura di cui il presidente mena vanto “è tutto salvo che anodina” ha commentato lo storico Christian-Georges Schwentzel interrogato su “Le Monde” del 25 gennaio da Virginie Larousse. Vira al giallo, anche se il colore non è acceso come quello dei Simpson, che in un episodio del lontano 2000 avevano incredibilmente previsto l’elezione di Trump.
Anche questa caratteristica inconfondibile richiamerebbe la descrizione di Davide che si legge nel primo libro di Samuele nel latino della Volgata: “rufus et pulcher adspectu decoraque facie”. Poche parole che Dante trasforma nel meraviglioso verso – “biondo era e bello e di gentile aspetto” – con cui nel terzo canto del Purgatorio descrive lo sventurato Manfredi.
Si può senza dubbio dubitare delle reminiscenze bibliche del presidente, che nel 2019 eludeva una domanda giornalistica sulla sua fede religiosa – di stampo protestante presbiteriano – e rispondeva che si trattava di una questione “personale”. Ma quattro anni prima The Donald aveva invitato durante un comizio nella Carolina del Sud a toccargli proprio i fluenti capelli biondastri, come un re taumaturgo del medioevo, ma banalmente solo per verificare che fossero veri.
Al di là dell’improbabile ma ripetutamente evocata similitudine con re Davide, resta il fatto che il presidente – sulla scia peraltro dei suoi predecessori, sia repubblicani che democratici – ha sempre fatto largo uso di una retorica potentemente religiosa. Come è avvenuto subito dopo l’attentato del 13 luglio 2024, quando il controverso candidato scampato di un soffio alla morte ha attribuito a Dio stesso la sua salvezza.
In questo contesto pervaso di riferimenti biblici era stato percepito da molti cristiani evangelici fondamentalisti – sostenitori incondizionati dello stato israeliano – anche il trasferimento nel 2017, durante il primo mandato di Trump, dell’ambasciata statunitense da Tel Aviv a Gerusalemme. La decisione presidenziale era del tutto coerente con le loro aspettative, benché solo il 16 per cento degli ebrei americani l’appoggiasse, come ha ricordato il teologo spagnolo Rafael Aguirre.
Nel secondo discorso d’investitura, lo scorso 20 gennaio, il presidente ha assicurato che inizia “l’età d’oro dell’America”, che già aveva promesso durante la campagna elettorale ricorrendo a un immaginario apocalittico positivo. Secondo il medievista Joël Schnapp, infatti, il riferimento sarebbe al regno millenario dei giusti descritto alla fine dell’ultimo libro biblico.
Queste allusioni appaiono “totalmente anacronistiche in Francia e in Europa occidentale, dove domina la secolarizzazione” ha detto lo storico a “Le Monde”, ma conservano “un effetto di mobilitazione” negli Stati Uniti. Molto temuto in Europa, come sul quotidiano parigino raffigura una inquietante rielaborazione della nota incisione di Dürer dove tre dei quattro cavalieri dell’Apocalisse – che nella visione scritturistica scatenano sulla terra violenza, ingiustizia, morte – hanno i volti di Trump, di Musk e di Zuckerberg.
Al contrario, uno dei maggiori finanziatori del presidente americano, Peter Thiel, sul “Financial Times” dell’11–12 gennaio ha alluso al libro biblico in modo del tutto diverso: se si tiene conto del senso originario del suo titolo – che significa “rivelazione” – il ritorno di Trump alla Casa Bianca promette di svelare alcuni “segreti dell’antico regime”: dall’assassinio di John Kennedy alla pandemia. Anche se l’amico del presidente ha scritto che “le rivelazioni della nuova amministrazione” non hanno bisogno di vendette perché è venuto “un tempo di verità e riconciliazione”.
Nel vuoto sembra dunque caduto l’appello che un gruppo di specialisti in storia delle religioni aveva lanciato nel 2019 dal “Washington Post” per resistere alla tentazione di assimilare gli uomini politici a modelli biblici. Anche perché di fatto gli studiosi non hanno tenuto conto della storia degli Stati Uniti.
Emblematica resta ovviamente la figura di Lincoln, il presidente che abolì la schiavitù. Cresciuto in una famiglia battista, ma non battezzato né aderente ad alcuna confessione, Lincoln – ha scritto Michael Lahey – più di ogni altro “fu un messia per il suo popolo”: assassinato nel 1865 il venerdì santo, “giorno in cui si rievoca la morte del messia cristiano”.
Quasi tutti i presidenti degli Stati Uniti hanno iniziato i loro mandati giurando sulla Bibbia. Solo quattro – Thomas Jefferson, John Quincy Adams, Theodore Roosevelt e Calvin Coolidge – non l’hanno fatto, mentre Johnson, dopo l’assassinio di Kennedy, ha giurato su un messale cattolico che era sull’Air Force One che lo riportava a Washington. Di due Bibbie hanno invece fatto uso altri sei presidenti: tra loro, Obama e Trump hanno voluto giurare anche sulla Bibbia di Lincoln.
Nell’abituale uso politico della sacra Scrittura da parte dei presidenti americani una svolta in senso conservatore è stata impressa da Ronald Reagan, che forte di una decisione del senato dichiara il 1983 “anno della Bibbia”. Dello stesso anno è il discorso, dagli accenti apocalittici, sulla necessità di opporsi all’“impero del male”. Toni che dopo l’11 settembre sono tornati negli interventi del “cristiano rinato” George W. Bush.
Del ruolo della religione parla Obama nel 2006, prima di essere eletto presidente. Con l’obiettivo di dichiarare la sua “fede cristiana” messa in dubbio dagli avversari: è “un errore quando non riconosciamo il potere della fede nella vita delle persone – nella vita del popolo statunitense – e credo che è ora di aprire un dibattito serio su come riconciliare la fede con la nostra democrazia moderna e pluralista”.
Gli americani “sono un popolo religioso”, e questo “non è semplicemente il risultato del successo del marketing di predicatori esperti”, ma esprime “una fame più profonda” dice Obama. E come presidente cita spesso la Bibbia e rivendica la tradizione cristiana americana, ma ribadisce il carattere pluralistico e tollerante della nazione.
Nel 2022 secondo un’inchiesta del Pew Research Center era il 45 per cento degli interrogati a ritenere che gli Stati Uniti dovrebbero essere una “nazione cristiana”. Ma nello stesso tempo il 54 per cento pensava che la separazione tra le chiese e lo stato andrebbe rinforzata.
Il quadro è dunque in movimento, e il sociologo francese Sébastien Fath ha detto che nell’ultima campagna elettorale Trump non si è rivolto solo ai “nazionalisti cristiani”. E se J.D. Vance, ora vicepresidente, era divenuto cattolico nel 2019, Musk si dichiara deista “e non ha nulla di cristiano”.
In definitiva, Trump più che a Davide somiglierebbe a Ciro, che nel libro di Isaia (45, 1–8) è descritto come il messia pagano vincitore dei babilonesi perché nel 539 avanti Cristo pose fine all’esilio del popolo ebraico. Coniato dai fondamentalisti evangelici, il paragone tra il “gran re” persiano e il presidente fu ripreso nel 2017 anche da Netanyahu, suscitando le critiche di molti ebrei e cristiani.