Claude Barthe, Troverà ancora la fede sulla terra? La crisi della Chiesa dopo il Vaticano II, Fede & Cultura, Verona 2024.
Com’è noto, nei periodi di crisi, confusione, turbamento si diffonde nella società – o, nel nostro caso, nel corpo ecclesiale – un bisogno di comprensione di ciò che sta accadendo; tale bisogno corre sempre il rischio di ricevere risposte semplicistiche, dal momento che le risposte semplici a problemi complessi vengono spesso, purtroppo, accolte di buon grado, anche se in realtà non sono di aiuto e si rivelano anzi controproducenti. Certo, in relazione alla crisi ecclesiale contemporanea, i dubbi dei fedeli hanno molto a che vedere con un ambito che interessa più propriamente la fede e la vita cristiana. Tuttavia, anche una migliore comprensione, sul piano razionale, dei fenomeni storici che hanno interessato la Chiesa può contribuire egregiamente a dissolvere certe nebbie: nel momento in cui diviene chiaro che questa crisi non è nata dal nulla come Atena armata dalla testa di Zeus, ma, al contrario, ha radici profonde e si è evoluta attraverso punti di svolta chiaramente identificabili, allora le letture fantasiose perdono il loro mordente e i profeti improvvisati si rivelano per quello che sono (è un tema affrontato di recente su MiL).
Per questi motivi, va salutata con entusiasmo l’edizione italiana di un importante libro di don Claude Barthe, sacerdote francese (classe 1947), cappellano del pellegrinaggio Summorum Pontificum e autore di numerosi studi, alcuni dei quali già apparsi in traduzione italiana. Il titolo del libro appena pubblicato dalle edizioni Fede & Cultura, la cui ultima edizione francese risale allo scorso anno, ha una sfumatura evidentemente escatologica, mentre il sottotitolo scelto dall’editore per l’edizione italiana, come si vedrà, non rende proprio l’idea dello sforzo di sintesi affrontato da don Barthe, che non si limita a prendere in esame il postconcilio, ma offre al lettore un robusto filo di Arianna per non smarrirsi in un itinerario che, a partire dall’inizio del Novecento, arriva ai nostri giorni. Prima di avviare l’analisi di un’evoluzione emblematicamente compresa tra il Sillabo e Dignitatis humanae, l’Autore anticipa nel capitolo introduttivo alcuni dei temi destinati a ritornare come un Leitmotiv nelle pagine seguenti ed è proprio in apertura del libro che offre una chiave interpretativa fondamentale, rispondendo all’affermazione, ripetuta infinite volte, secondo la quale il Concilio Vaticano II andrebbe “interpretato nel senso della tradizione”. Ma in questo modo, sottolinea don Barthe, volendo salvare il Vaticano II, gli si muove in realtà la critica più radicale: è infatti l’ultimo concilio in ordine di tempo che dovrebbe dare la corretta interpretazione della tradizione precedente, e non il contrario.
Dopo aver dedicato un cenno al cattolicesimo liberale ottocentesco e alle ambiguità dell’atteggiamento romano nei confronti dello Stato laico, con particolare riferimento alla situazione francese, l’Autore si sofferma sul clima della Chiesa francese negli anni Cinquanta, dominato da un grande fermento sociale e dottrinale. Questi temi vengono poi ripresi nei capitoli III e IV, rispettivamente dedicati all’ecumenismo e alla “nuova teologia”, soprattutto in relazione all’elaborazione teologica del domenicano Yves Congar (1904-1995), destinata a svolgere un grande ruolo all’epoca del Vaticano II. Vengono quindi delineate le caratteristiche di quel mondo dell’intransigentismo francese che, all’inizio del Novecento, si sarebbe opposto con fermezza a una certa politica vaticana, quella del Ralliement e della condanna oltremodo severa, nel 1926, del movimento monarchico dell’Action Française. Si trattò di esperienze che contribuirono a forgiare quel tipico cattolicesimo francese, capace di opporsi al papa pur senza venir meno alla fedeltà alla Chiesa, destinato a vivere una nuova stagione durante e dopo il Vaticano II. Il tratteggiamento di quegli ambienti della cosiddetta teologia romana e della curia romana – custodi della teologia e dell’ecclesiologia del cattolicesimo classico in opposizione ai venti di cambiamento – destinati a veder di lì a poco sgretolarsi le loro malriposte certezze, precede la descrizione degli eventi dell’ottobre 1962, trattata nel capitolo VII, con la solenne apertura del Concilio Vaticano II e la celebre allocuzione Gaudet Mater Ecclesia di Giovanni XXIII (Angelo Giuseppe Roncalli, 1881-1963). I due capitoli seguenti descrivono in maniera sintetica, ma puntuale quanto appassionata, le sessioni conciliari, nel corso delle quali l’assise, voluta come esclusivamente pastorale e non dogmatica, giunse non già a illuminare di luce ulteriore gli insegnamenti precedenti della Chiesa, ma a formularne di nuovi. Le personalità che vissero in maniera traumatica questi avvenimenti, come, tra gli altri, il cardinale Alfredo Ottaviani (1890-1979) e il cardinale Giuseppe Siri (1906-1989), una volta constatato il deciso appoggio del nuovo pontefice Paolo VI (Giovanni Battista Montini, 1897-1978) alla corrente innovatrice, si rivelarono incapaci di opporsi alla maggioranza venuta a crearsi in Concilio sotto l’egida papale, rappresentata in prima fila dagli episcopati di Francia e Germania e dai teologi loro consulenti. Davanti alla sostanziale rassegnazione della curia, fu allora la “periferia” ecclesiale a tentare di organizzarsi in controtendenza attraverso l’informale Coetus Internationalis Patrum, all’interno del quale doveva distinguersi mons. Marcel Lefebvre (1905-1991).
Le linee guida dello “spirito del Concilio”: l’ortoprassi pastorale in opposizione all’ortodossia, l’ecumenismo, l’apertura al mondo moderno, l’innovazione come mezzo e fine allo stesso tempo, si tradussero in una forma liturgica destinata a mutare profondamente il volto del cattolicesimo contemporaneo. Alla nuova liturgia nata dopo il Vaticano II e alla battaglia per la sopravvivenza della liturgia tradizionale sono dedicati due capitoli molto intensi, il X e l’XI. Come osserva l’Autore: «Non è esagerato dire che questa riforma è un evento religioso e culturale senza precedenti nella storia della Chiesa e persino, per certi aspetti, nella storia culturale dell’Occidente» (p. 120). L’inaudito sperpero di un patrimonio spirituale e culturale immenso era finalizzato soprattutto a mostrare al mondo il nuovo volto della Chiesa e la capacità di quest’ultima di adattarsi a una temperie completamente diversa rispetto al passato, «solo che il mondo ha continuato a cambiare e il nuovo è invecchiato, e non molto bene» (p. 126). Tornano alla mente le parole ispirate di Cristina Campo (1923-1977): «Non impunemente si pratica la torva omeopatia che consiglia di curare un mondo perdutamente ammalato di squallore, anonimato, profanità e licenza per mezzo di squallore, anonimato, profanità e licenza».
Nonostante il diluvio di commenti, spiegazioni e schemi applicativi che ha accompagnato la riforma e nonostante i metodi autoritari (si potrebbe dire un po’ scherzosamente: l’unica cosa veramente “romana” sopravvissuta all’inabissamento di Atlantide!) con i quali è stata imposta alla Chiesa, voci di protesta si levarono fin da subito e, in seguito, non furono mai sopite. Del 1968 è il celebre Breve esame critico a firma dei cardinali Ottaviani e Bacci, che lamentava nel novus ordo «un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica della Santa Messa». Nel 1977 ha luogo l’occupazione della chiesa parigina di Saint Nicolas du Chardonnet da parte di un folto gruppo di fedeli guidati dall’anziano mons. François Ducaud-Bourget (1897-1984), episodio divenuto per eccellenza «il simbolo del rifiuto della riforma liturgica» (p. 151). Da allora, come scrive don Barthe, «la statua del commendatore della tradizione» (p. 134) è ancora, e più che mai, presente sullo sfondo della scena conciliare, complice un contesto nel quale i fedeli delle parrocchie vanno tragicamente erodendosi, a fronte della costante persistenza, e dell’incremento, dei fedeli della messe de toujours.
Il libro di don Barthe, le cui ultime pagine auspicano per il futuro un itinerario di autentica riforma della Chiesa, è arricchito, in questa edizione italiana, da un’illuminante Prefazione di Marco Sgroi, Responsabile nazionale del Coordinamento Nazionale Summorum Pontificum, che, tra l’altro, offre al lettore italiano una chiave di lettura capace di declinare nella nostra realtà l’ottica prevalentemente francese dell’Autore. Come osserva Sgroi, infatti, la storia del tradizionalismo francese ha un valore archetipico, e addirittura quasi profetico, e può rappresentare per quello italiano, ancora oggi molto meno coerente e consapevole, un efficace modello di riferimento.
Ivo Musajo Somma