Grazie a Sandro Magister per questa utile analisi sui cattolici in USA, nell'approssimarsi del voto per le presidenziali USA di dopodomani 5 novembre.
Luigi C.
28-10-24
Tra pochi giorni negli Stati Uniti si vota e l’esito è più che mai incerto, al punto che persino l’esuberante papa Francesco ha preferito tacere le sue simpatie e stare a vedere che succede. Interpellato da Anna Matranga di CBS News sull’aereo di ritorno da Singapore a Roma, il 13 settembre, ha rinviato agli elettori il compito di “scegliere il male minore” tra Donald Trump e Kamala Harris, ovvero tra chi “butta via i migranti” e chi “uccide i bambini”.
Un dilemma anch’esso non facile né chiaro, visto che anche Trump, sull’aborto, ha sposato le tesi “pro choice”, lasciando ai singoli Stati la libertà di legiferare come vogliono e agli elettori di “seguire il proprio cuore”. Nel novembre del 2023 l’assemblea autunnale dei vescovi cattolici a Baltimora era tornata a dichiarare l’aborto la “priorità preminente” nell’orientare i fedeli al voto. Ma lo storico connubio tra il movimento pro-vita e il vecchio partito repubblicano era ormai alla fine e non si sa quanto la scelta come suo vice del cattolico convertito J.D. Vance possa convincere i cattolici anti-aborto a votare per Trump, se non, appunto, in chiave di “male minore” rispetto alle più sfrenate politiche abortiste di Kamala Harris.
I sondaggi danno i cattolici divisi quasi a metà, con una leggera prevalenza pro Trump. Ma la vera novità di queste elezioni è che il fattore religioso ha un peso molto minore rispetto al passato.
Nel campo democratico si assiste a una vera a propria fine d’epoca. Il ritiro dalla corsa del cattolico Joe Biden, voluto soprattutto dalla presidente della Camera Nancy Pelosi, anch’essa cattolica, non lascia eredi né sostenitori. Con la conferenza episcopale americana Biden era in attrito da tempo e le guerre in Ucraina e Terra Santa avevano ancor più raffreddato i rapporti col papa. Tra chi lo sosteneva molti erano nati e cresciuti cattolici, ma la Chiesa l’avevano già lasciata in gran numero e la giustizia sociale aveva sostituito in loro sia la dottrina che i sacramenti.
Nel 1970 più della metà dei cattolici americani andavano a messa la domenica. Ma oggi ci vanno solo il 17 per cento, stando a un’indagine del CARA, un centro di ricerca affiliato alla Georgetown University. E tra i nati negli anni Novanta appena il 9 per cento. Nello stesso arco di tempo, i battesimi sono calati da 1,2 milioni in un anno a poco più di 400 mila. E questo nonostante nel frattempo i cattolici siano cresciuti fino a 70 milioni circa, grazie soprattutto all’immigrazione dal Sudamerica.
Gli Stati Uniti sono stati a lungo il paese più religioso dell’Occidente, col sentimento diffuso d’essere un “popolo eletto” con una missione unica affidatagli da Dio. Ma questa loro eccezionalità sta rapidamente scomparendo, sia pure con ritmi e modalità diverse rispetto a quelle che hanno desertificato l’Europa.
È un declino che accomuna tutte le confessioni cristiane. Le grandi figure religiose con forte influsso in campo politico, da Martin Luther King a Billy Graham, sono del tutto sparite. In un decennio, secondo le rilevazioni dell’Association of Statisticians of American Religious Bodies, i battisti della Southern Baptist Convention sono calati dell’11 per cento, gli episcopaliani e i metodisti del 19 per cento ciascuno, i luterani del 25, i presbiteriani del 40. Le uniche a crescere sono state le Chiese protestanti “non-denominational”, cioè indipendenti, piccole realtà locali più attive sui social che sul territorio. Nel loro insieme, oggi si dichiarano cristiani il 64 per cento degli americani, quando mezzo secolo fa erano oltre il 90 per cento. E sono per un terzo sopra i 65 anni, mentre fra i trentenni uno su tre ha abbandonato il cristianesimo in cui è cresciuto.
Tra i cattolici ancora impegnati sulla scena pubblica, a scomparire è soprattutto la generazione del progressismo postconciliare, di chi si identificava nello “spirito del Vaticano II”. Papa Francesco ha provato a tenerla in vita facendo cardinali dei vescovi che a suo giudizio rappresentavano tale generazione, da Blase Cupich a Robert W. McElroy, ma né costoro sono riusciti a rovesciare nella conferenza episcopale la maggioranza conservatrice, né tanto meno a creare un movimento di popolo al loro seguito. Oltre tutto, anche nel poco che resta delle correnti progressiste le guerre in corso nel mondo hanno introdotto una divisione tra chi sostiene anche militarmente l’Ucraina e Israele e chi invece sposa tesi radicalmente pacifiste, fino al totale rifiuto delle armi.
Qualcosa si muove, invece, sul versante opposto, quello più conservatore e tradizionalista. Il giovane clero è in larga misura di questo orientamento, stando a un’indagine della Catholic University of America.
Ma c’è di più. Un osservatore tra i più attenti delle variazioni in atto nel cattolicesimo americano, Massimo Faggioli, professore di teologia alla Villanova University, in Pennsylvania, in un documentato articolo su “Il Regno”, richiama l’attenzione sul proliferare di “nuove riviste intellettuali, dirette e scritte anche da giovani, per un pubblico ampio, che articolano critiche più o meno radicali e integraliste al liberalismo politico e mercantilista con uno sguardo attento alla prospettiva religiosa: ‘The Lamp’, ‘Plough’, ‘UnHerd’, ‘Compact’”.
Non ci sono più soltanto le testate classiche del conservatorismo cattolico come “First Things” o “Crisis”. “Ci sono anche – nota Faggioli – nuove iniziative accademiche che testimoniano della capacità di reclutamento di giovani vocazioni intellettuali, ma anche dell’imprenditorialità culturale della destra cattolica: ‘The New Ressourcement’ è una specie di versione americana di ‘Communio’ che promette di ospitare una certa varietà di voci dello spettro della teologia cattolica tra la destra e il centro”.
“Communio”, va ricordato, è la rivista internazionale fondata nel 1972 in alternativa alla progressista “Concilium” da teologi del calibro di Ratzinger, von Balthasar, de Lubac, Kasper, Bouyer.
È nata inoltre una pregevole rivista di chiara impronta tomista come “Lux Veritatis” ed è stato potenziato, nella sua nuova sede di Saint Louis, l’Augustine Institute, la più frequentata scuola di teologia degli Stati Uniti. Così come hanno trovato un nuovo attivismo le associazioni tra i teologi conservatori, più a‑conciliari che anti-conciliari, volutamente neutrali nel maneggiare i documenti del Vaticano II.
Ma questo è ciò che avviene a livello d’élite. Se invece si allarga lo sguardo, fa notare Faggioli, “la vera mutazione di sistema è che non esiste più negli Stati Uniti un centro di gravità ecclesiastico, ecclesiale e teologico. Anche nel cattolicesimo vi è un proliferare di start-up le più disparate che sgomitano per ottenere spazio e attenzione: un ‘wild American catholicism’”, un cattolicesimo americano selvaggio, senza guida né ordine, che è la vera novità di questi tempi.
Scegliendo J.D. Vance come suo vice nella corsa alla Casa Bianca, Trump ha pescato un tipico esponente della nuova destra cattolica americana. Ma sarà tutto da verificare il reale impatto di questa candidatura, in un cattolicesimo che si è fatto tanto fragile, frammentato, selvaggio, incomparabile con quella robusta fede cristiana in cui Alexis de Tocqueville vedeva il sostegno vitale della democrazia in America.