Grazie all'Osservatorio Van Thuan per questa analisi sulle derive teologiche, pericolosissime, attuali di Maurizio Chiodi, appena nominato Consultore DDF (QUI MiL).
InfoVaticana - Redazione: Francesco nomina al DDF l’eterodosso don Maurizio Chiodi: “…Per avere un'idea di chi sia Maurizio Chiodi, vale la pena di ricordare le polemiche più significative che lo hanno attraversato, come le sue opinioni sull'uso dei contraccettivi artificiali. In una conferenza del 2017, Chiodi ha suggerito che, in alcune circostanze, l'uso di contraccettivi potrebbe essere considerato moralmente accettabile all'interno della dottrina cattolica, in opposizione all'enciclica del 1968 Humanae Vitae, che proibisce rigorosamente l'uso di metodi contraccettivi innaturali. Chiodi è stato anche criticato per il suo approccio più eterodosso all'etica sessuale. Nelle sue opere ha sostenuto un discernimento pastorale che tenga conto delle complessità della vita moderna e delle situazioni particolari di ogni persona, il che è stato talvolta interpretato come un'apertura verso posizioni più liberali su questioni come l'omosessualità, la convivenza e il matrimonio. Lo scorso agosto, in un'intervista, ha nuovamente sostenuto che “dobbiamo ripensare” l'insegnamento tradizionale su omosessualità e contraccezione. D'altra parte, la sua vicinanza alle idee promosse da Papa Francesco, soprattutto in relazione all'esortazione apostolica Amoris Laetitia(2016), è stata un altro centro di controversie. …”
Luigi C.
Stefano Fontana Set 20, 2024
In un precedente articolo ho cercato di evidenziare le principali novità di impostazione della teologia morale cattolica. Aggiungo ora qualche osservazione sul teologo Maurizio Chiodi.
Un esempio di esposizione della struttura della nuova teologia morale è il manuale “Teologia morale fondamentale” (Queriniana 20203) di don Maurizio Chiodi, docente alla Facoltà teologica di Milano e al nuovo Istituto Giovanni Paolo II a Roma.
La nuova teologia morale, secondo Chiodi, deve attuare una “svolta verso il soggetto”. La conoscenza dei suoi fondamenti universali non è possibile senza il collegamento con quelli singolari: “il singolare è principio dell’universale“, non si accede all’essere “se non a procedere dall’ermeneutica dell’esperienza, così come questa si presenta alla coscienza personale”. Questo richiede di superare la visione realistica e oggettiva della persona e optare per la prospettiva “fenomenologico-ermeneutica” secondo la quale si dà una “imprescindibilità dell’esperienza nel discorso morale”. La morale quindi non si fonda più sull’essere ma sull’esperienza, concetto però, quest’ultimo, tra i più vaghi.
La norma morale non è più conoscibile nella sua formalità universale, ossia per quello che è indipendentemente dalle situazioni: “la riflessione teologico-morale … non può partire da una legge che sarebbe conosciuta dalla ragione … ma dal soggetto” ossia “dalla coscienza considerata come cifra della unicità singolare della persona”.
Ne consegue che anche l’idea di una legge morale naturale va cambiata. Essa va storicizzata: ”la normatività della natura è riconosciuta dalla ragione pratica in un continuo processo di scoprimento”. Possiamo dire che la legge naturale sia ora intesa come sedimentazione delle sue progressive interpretazioni, una interpretazione di interpretazioni, sempre aperta e inconclusa, sempre oggettiva e soggettiva insieme, sempre instabile.
La coscienza morale non è più considerata come un atto della ragione pratica e si nega la priorità dell’intelletto nella conoscenza delle norme morali; “Il profilo teologico della coscienza non può essere confinato in un approccio intellettualista che le sottragga la sua costitutiva qualità emotiva e antropologica”. La coscienza diventa quindi il “luogo ermeneutico della legge morale”, una mediazione continua tra soggettivo e oggettivo.
Anche la nozione di “peccato” viene rivista: “la materia [ciò che si fa] non può essere un criterio univoco, stabilito una volta per sempre, in modo astratto e ab-soluto dalle condizioni storiche e personali”. In questo modo viene meno la possibilità di indicare alcune azioni che non si devono mai fare (intrinsece mala), perché si cadrebbe nell’oggettivismo, mentre bisogna sempre tenere presente “il nesso tra oggettivo e soggettivo nella coscienza”. Si intendeva per virtù
Nella tradizione della teologia morale si intendeva per virtù si intendeva la qualità che rende buono l’uomo che la pratica. Su questa definizione era possibile fondare poi le virtù cardinali e quelle teologali. La virtù richiedeva un governo delle passioni e una loro sottomissione al bene indicato dalla ragione. Tra le virtù, la prudenza assume un posto particolare. Essa veniva intesa come la retta ragione delle azioni da compiere. Ora, nella nuova teologia morale, anche il discorso sulla virtù cambia. Essa è vista come una esperienza pratica nel senso che deve discernere tra le passioni che sono strutturalmente ambigue e quindi sarà solo nell’agire che si risolverà la loro ambiguità. La posizione precedente viene accusata di intellettualismo, sicché la virtù della prudenza non combatte più il vizio con la ragione ma con l’azione. Però ci si chiede: la nuova azione da cosa sarà guidata se non può più esserlo dalla ragione? Come fa la prudenza ad essere una virtù morale senza essere prima una virtù intellettuale?
La nuova teologia morale cambia anche il rapporto tra i mezzi e i fini nell’azione morale e riconsidera il ruolo delle circostanze, da accidentali come erano viste in precedenza, a sostanziali come avviene ora.
Stefano Fontana