Preghiamo il grande S. Michele e rechiamoci nei suoi santuari, soprattutto alla Vigilia della sua Festa (I Classe, Bianco).
Luigi C.
Schola Palatina, Lucia Alberti, 13 Marzo 2024
All’arcangelo Michele in persona, così come documentato nei racconti sulle visioni avvenute nel 490 a Monte S. Angelo sul Gargano, si attribuisce la frase «dove la roccia si apre, il peccato dell’uomo può essere perdonato».
Non è un caso che in questo percorso sulle orme di san Michele nel territorio della provincia di Rieti, le molte chiese a lui dedicate (più di 50) siano soprattutto grotte, semplici anfratti nella roccia, cappelle di montagna immerse nei boschi dell’Appennino, che rimarcano questo legame fortissimo che il culto del Santo ha con il mondo naturale e in particolare con la roccia nuda e le sorgenti d’acqua.
Profondamente legato alla pastorizia, unica risorsa economica prima dell’avvento del turismo, e alla storia della transumanza dalle aree montuose interne a quelle collinari della valle del Tevere, il culto dell’Arcangelo risale ai primi secoli dell’era cristiana ed è spesso legato alla presenza longobarda nelle terre dell’Appennino centrale.
Dopo il lungo processo di conversione al Cristianesimo, che si svolse fra la fine del VI e il VII secolo, i Longobardi scelsero proprio san Michele come santo protettore, riconoscendo in lui le virtù guerriere del loro dio pagano Odino. Il nome Mi-ka-El, significa “Quis ut Deus, chi è come Dio?” e definisce appieno il princeps militiae caelestis, il comandante delle milizie celesti che sconfisse gli angeli ribelli guidati da Lucifero, decretando la sconfitta del Maligno. Il titolo di princeps, significativamente, è lo stesso che viene condiviso anche dalla Chiesa ortodossa, che celebra l’Arcangelo come “archistratega”. È possibile quindi che l’importanza del culto di san Michele nelle terre dell’Italia centrale sia frutto della sovrapposizione e dell’incontro da un lato dei pastori pugliesi, molisani e abruzzesi, che si muovevano per la transumanza da sud e dal Gargano, dall’altro dei Longobardi che scendevano verso sud dalla vicina Umbria.
Fra i tanti che punteggiano il Reatino, ci sono due santuari particolarmente significativi, non solo per la loro bellezza intrisa di semplicità e natura, ma anche per il loro esser collegati a paesi piccoli, i cui abitanti tengono vive tradizioni religiose forti e profonde, ciò che sarebbe superficiale considerare come meri aspetti folclorici.
Varco Sabino
Varco Sabino è un paese collocato sulle montagne, che dividono la valle del Salto dalla valle del Turano nella parte meridionale della provincia di Rieti, ai confini con l’Abruzzo. I circa 180 abitanti che lo popolano, scendono a una cinquantina nel periodo invernale e curano il loro luogo come un piccolo gioiello incastonato nella montagna. Una scala ripida, scavata nella roccia quasi verticale che domina il paese, è contrassegnata dalle stazioni della Via Crucis e conduce alla grotta dedicata all’Arcangelo, a cui si accede tramite un piccolo spiazzo chiuso da un cancello, sempre aperto. Qui ci sono due campanelle, che gli abitanti del paese invitano sempre a suonare una volta giunti, per indicare che qualcuno è presente nel santuario. La grotta è piccola, curatissima e luminosa grazie all’ampia apertura e a una finestra che si apre sulla parete di sinistra. Un piccolo altare porta la data del 1791, ma già nel 1252 la grotta compare nelle fonti come luogo di devozione durante la transumanza fra Sabina e Abruzzo e nel 1398 viene indicata come unica chiesa del paese.
La sera che precede l’8 maggio viene sorteggiato il “festarolo”, colui che si occuperà dell’organizzazione della festa l’anno successivo e che conserverà nella propria casa per tutto l’anno una piccola statua dell’Arcangelo, motivo di onore e benedizione per tutta la famiglia. Nel tardo pomeriggio del giorno successivo, una processione porta la statua grande del Santo dalla chiesa parrocchiale fino alla grotta, dove viene celebrata la S. Messa. Al momento di scendere, un grosso falò viene acceso a metà percorso, utilizzando i rami che nei giorni precedenti sono stati raccolti dagli uomini nella pulitura del sentiero. Una festa semplice, molto sentita e assai poco pubblicizzata, segno di un sentimento religioso che non ha alcun interesse nel volersi mostrare all’esterno, ma che si concentra sui contenuti e su una vera spiritualità.
L’Eremo di Montorio in Valle
A qualche decina di chilometri in linea d’aria si trova Montorio in Valle, che anticamente faceva parte delle terre dell’abbazia benedettina di Santa Maria del Piano presso Orvinio. Le indicazioni per giungere all’eremo di san Michele sono scarse. Dopo aver percorso una strada sterrata, che parte dalla via provinciale, si incontra un sentiero immerso nella vegetazione, quasi introvabile qualora non si sia accompagnati da una guida locale. Dopo un cammino di un quarto d’ora, si giunge a una radura e ad una piccola altura ripida detta Colle Mandrile. A questa è appoggiata una chiesetta in blocchi di pietra locale, che chiude e monumentalizza l’ingresso di una profonda grotta naturale. Poco più in basso i resti di quello, che doveva essere un antico romitorio.
La grotta è lunga e profondamente incassata nella montagna. Subito all’ingresso vi è un altare con la statua di san Michele, poco avanti sulla destra, un ossario, che indica come il luogo fosse destinato anche a sepoltura almeno fino al XVIII secolo, quando in paese non esisteva il cimitero. Più all’interno altri due altari, con resti di mosaici, forse di epoca cosmatesca.
La grotta è abbastanza lontana dal paese e, in occasione delle celebrazioni dell’8 maggio e del 29 settembre, gli abitanti giungono a piedi portando tutte le suppellettili necessarie alla liturgia, oltre a candele, ceri e grandi mazzi di fiori raccolti nei giardini e nei campi. La grotta si illumina, si colora e la celebrazione è intrisa di un’incredibile intensità spirituale. Come a Varco, anche qui ogni anno viene scelto un “festarolo”, che si occupa dell’organizzazione delle celebrazioni.
Sia Varco Sabino che Montorio in Valle, pur nella loro semplicità e nelle ridotte dimensioni, richiamano fortemente il grande modello del Santuario garganico per i forti riferimenti alla roccia, all’acqua, alla lotta con il Maligno. In queste terre dell’Appennino apparentemente isolate e lontane dai rumori della città, essi sono il segno tangibile del perdurare non solo di profonde tradizioni culturali, ma di una forte vitalità spirituale, che non cerca pubblicità all’esterno e che viene tenuta viva anche dalle giovani generazioni.
FONTE: Radici Cristiane n. 166
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