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venerdì 10 maggio 2024

Giorgione e la pittura del Cinquecento #giorgione #artesacra

La bellezza dell'arte.
"In questa sottigliezza psicologica della pittura giorgionesca soprattutto rintracciamo quella «verità naturale», riconosciuta anche dai contemporanei dell’artista, le cui creazioni avevano il pregio di unire un modo eccellente di tinteggiare e usare morbidezza, rilievo, ombre e luce, a un’accurata descrizione degli stati d’animo".
Luigi C



Intorno alla tela, capolavoro di Giorgione, dal titolo I due amici, si articola la mostra allestita a Roma tra i sontuosi spazi dell’appartamento Barbo di Palazzo Venezia e le sale papali di Castel Sant’Angelo, cuore pulsante dell’Urbe, luogo di contrasti storici e teatro di sublimi ispirazioni artistiche.
Enrico Maria Dal Pozzolo, esperto di pittura veneta, con il sostegno di un prestigioso comitato scientifico, cura la rassegna Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del sentimento tra Venezia e Roma, comprende 45 dipinti, oltre alle sculture, agli oggetti d’arredo, ai libri a stampa, ai manoscritti, alle stampe e ai disegni. Il progetto espositivo racconta il rapporto tra l’espressività pittorica maggiormente in auge nei territori della Serenissima, basata su forti accentuazioni di colore e visioni sentimentali (da cui prende spunto il titolo della mostra), con la poetica del Rinascimento romano, luogo di incontro e scontro di molteplici tradizioni figurative.

Se a Palazzo Venezia il circuito della mostra ruota intorno al citato doppio ritratto di Giorgione, nella sezione ospitata a Castel Sant’Angelo si trovano le opere di grandi artisti del Cinquecento italiano, quali Tiziano, Tintoretto, Romanino, Moretto, Ludovico Carracci, Bronzino, Barocci e Bernardino Licinio. Ognuno di loro interpreta a modo suo il tema del sentimento in pittura, ognuno trova il suo posto all’interno di un allestimento complesso e in un dialogo serrato con i luoghi densi di storia che lo ospitano.

Giorgione, un artista enigmatico

Il sottile legame che lega Venezia e la Città eterna, centri artistici per eccellenza e complementari in epoca rinascimentale, si concretizza tra le mura del Palazzo di Venezia (come propriamente andrebbe indicato l’edificio), abitazione del papa veneziano Paolo II Barbo (1464-1471), che lo fece edificare tra il 1455 e il 1467, e in seguito a più riprese luogo deputato all’ambasciata della repubblica di Venezia. Nel corso del Cinquecento fu la residenza ufficiale del cardinale Domenico Grimani (Venezia 1461-Roma 1523), raffinato letterato e collezionista d’arte veneziano. Tra i suoi più grandi interessi, come ci raccontano i documenti, vi erano le meravigliose e poetiche creazioni del pittore Giorgio da Castelfranco, meglio noto come Giorgione (Castelfranco Veneto, 1478 circa – Venezia, 1510).

Oggi il direttore del Polo Museale del Lazio, Edith Gabrielli, sottolinea l’intenzione da parte degli ideatori della mostra di rappresentare i «sentimenti nel Rinascimento italiano attraverso l’opera di uno dei pittori più difficili da mettere a fuoco nella storia dell’arte italiana». Tale infatti è Giorgione, artista enigmatico così come lo sono alcune delle sue opere, con iconografie dense di misteriosi elementi simbolici.

Le poche notizie sulla vita di questo artista ci arrivano dalle descrizioni delle sue opere, redatte dal patrizio Marcantonio Michiel (Venezia, 1484-1552), oltre che dalle informazioni all’interno della biografia compilata da Giorgio Vasari (Le vite de’ più eccellenti pittori, scultori, e architettori, I ed. 1550). Qui leggiamo che Giorgione si formò presso la bottega del grande Giovanni Bellini, prendendo spunto nell’uso del colore sfumato niente meno che da Leonardo da Vinci, che transitò nella città lagunare per breve tempo.

Giorgione era solito, da quanto si evince dalle fonti, dipingere osservando direttamente il mondo naturale, spesso senza disegno preparatorio, utilizzando il colore come principale mezzo espressivo. In questo modo egli rinnovò profondamente la cultura figurativa veneta già nel corso del primo decennio del Cinquecento. Egli frequentava in città la cerchia di intellettuali aristocratici che si riunivano nella Villa Cornaro ad Asolo; in questo ambiente dipinse un notevole numero di ritratti, spesso destinati agli studioli, secondo le richieste della committenza, e realizzò quelle tele enigmatiche che ancora oggi costituiscono affascinanti rompicapo.

Il suo uso del colore, basato sulle variazioni di toni e su tocchi di ombre improvvisi, all’interno di una predominanza luminosa che solitamente avvolge completamente la composizione, si pose alla base di quella che sarebbe stata di lì a poco la grande pittura tonale della scuola rinascimentale veneta. Dopo di lui si sarebbero affacciati sulla scena artistica lagunare i suoi più importanti seguaci: Tiziano Vecellio e Sebastiano del Piombo.

Il doppio ritratto

Il doppio ritratto che guida oggi l’esposizione romana entrò nella raccolta permanente del Museo Nazionale di palazzo Venezia nel 1919. Ormai accettata nel catalogo dell’artista dalla maggior parte della critica contemporanea, l’opera rientra in quella categoria della ritrattistica dedicata al momento privato, alla rappresentazione di uno stato d’animo, di un sentimento non convenzionalmente legato alla sfera pubblica; lontano dagli sguardi della società e lontano dalle politiche dell’apparire, il quadro si interessa del rapporto tra i due personaggi, due amici per l’appunto, fissandone per sempre il legame speciale.

L’iconografia del dipinto mette in scena la contrapposizione emotiva tra i due giovani raffigurati: il volto in primo piano, languidamente posato sulla mano, esprime la malinconia causata dal sentimento amoroso; nella mano sinistra è presente un melangolo, un tipo di arancia amara, simbolo delle pene d’amore. L’amico suo confidente, posto in secondo piano, è distaccato invece da questo tipo di sofferenza, non mostra alcuna commozione, ma sostiene moralmente, con la propria presenza, il primo giovane, pur non condividendone lo stesso sentire. Sono messi in scena così i due differenti temperamenti, quello del malinconico e quello dedito ad una vita attiva: il gioco delle divergenze in questo caso permette al doppio ritratto di prendere vita.

In questa sottigliezza psicologica della pittura giorgionesca soprattutto rintracciamo quella «verità naturale», riconosciuta anche dai contemporanei dell’artista, le cui creazioni avevano il pregio di unire un modo eccellente di tinteggiare e usare morbidezza, rilievo, ombre e luce, a un’accurata descrizione degli stati d’animo. Egli era in grado di «metter lo spirito nelle figure», per usare le parole del noto scrittore e artista veneziano Marco Boschini (Le ricche Miniere della Pittura veneziana, 1674).

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