Post in evidenza

La Messa proteiforme: a modest proposal. Risposta e proposta al Prof. Grillo

Il Prof. Grillo ha voluto gentilmente confrontarsi (v. qui ) con il nostro commento critico alla sua intervista (in cui, lo ricordiamo, el...

martedì 2 aprile 2024

Lettera pastorale sulla liturgia di Mons. Suetta (Ventimiglia): "Rinnoviamo lo stupore per la bellezza della liturgia" #liturgia #ventimigliasanremo

Pubblichiamo ampli stralci dell'ottima lettera sulla liturgia di S. Ecc. Rev. Mons. Antonio Suetta, Vescovo di San Remo Ventimiglia: "Rinnoviamo lo stupore per la bellezza della liturgia" (QUI dal sito della diocesi), uscita il Giovedì Santo.
QUI il testo integrale in PDF.
Facciamo notare solo alcuni temi, molto interessanti, che lui evidenzia: la centralità di NSGC nel S. Sacrificio della Messa, la Bellezza della Liturgia, un'utile riflessione sui paramenti e sulle suppellettili sacre, una magnifica catechesi sulla distribuzione della S. Comunione (anche in bocca e in ginocchio), l'Ars Celebrandi, l'uso (e gli abusi) nella musica sacra (e l'uso dell'organo), l'orientamento della preghiera ("versum Deum per Iesum Christum"), il ruolo del "silenzio", gli abusi sui "ministri straordinari" della S. Comunione, l'uso del latino, il pregare con il corpo con l'inginocchiarsi,  e tanto altro: «le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare» (Benedetto XVI).
Una Lettera molto bella, da leggere tutta.
Luigi C.

Antonio Suetta

RINNOVIAMO LO STUPORE PER LA BELLEZZA DELLA LITURGIA

Lettera pastorale ai Presbiteri e ai Diaconi della Diocesi di Ventimiglia San Remo

 

2024

Introduzione:

«La Chiesa evangelizza e si evangelizza con la bellezza della  liturgia» (Evangelii gaudium, n. 24)

A distanza di un decennio dall’inizio del mio ministero episcopale in questa Chiesa di Ventimiglia San Remo avverto l’opportunità di scrivere queste pagine circa un tema che da tempo ho nella mente e nel cuore: la necessità di rinnovare lo stupore per la bellezza della liturgia.

Come Benedetto XVI ricordava anni fa con un ottimista e sano realismo, «nel nostro tempo, in cui in vaste zone della terra la fede rischia di spegnersi come una fiamma che non trova più il suo alimento, la priorità che sta sopra a tutto è rendere Dio presente in questo mondo e aprire

l’accesso a Dio agli uomini. Non ad un dio qualunque, ma al Dio che parlò sul Sinai; a quel Dio, di cui riconosciamo il volto nell’amore portato all’estremo (cfr. Gv 13, 1), in Gesù Cristo crocifisso e risorto»1.

In questa missione, che è propria della Chiesa, ha qualche ruolo la liturgia? Con san Giovanni Paolo II possiamo affermare che ce l’ha. Come, infatti, ha asserito il Santo Pontefice, ricordando i quarant’anni dalla promulgazione della costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium: «È tempo di nuova evangelizzazione. Da tale sfida la Liturgia è direttamente interpellata. A prima vista, essa sembra messa fuori gioco da una società ampiamente secolarizzata. Ma è un dato di fatto che, nonostante la secolarizzazione, nel nostro tempo riemerge, in tante forme, un rinnovato bisogno di spiritualità. Come non vedere, in questo, una prova del fatto che nell’intimo dell’uomo non è possibile cancellare la sete di Dio? Esistono domande che trovano risposta solo in un contatto personale con Cristo. Solo nell’intimità con Lui ogni esistenza acquista significato, e può giungere a sperimentare la gioia che fece dire a Pietro sul monte della Trasfigurazione: “Maestro, è bello per noi stare qui” (Lc 9, 33)»2. Questo è ciò che accade nella liturgia.

Infatti, «la liturgia è il “luogo” privilegiato dell’incontro dei cristiani con Dio e con Colui che Egli ha mandato, Gesù Cristo (cfr.Gv 17,3)»3. In questo senso Papa Francesco nella Lettera apostolica Desiderio desideravi ricorda la bellezza potente della liturgia dicendo che: «la fede cristiana o è incontro vivo con Lui, oppure non lo è. La liturgia ci garantisce la possibilità di tale incontro […] Nell’Eucaristia e in tutti i Sacramenti ci è garantita la possibilità di incontrare il Signore Gesù e di essere raggiunti dalla forza della sua Pasqua»4.

Possiamo chiederci: come contribuisce la liturgia a questa missione evangelizzatrice? La risposta è: con la bellezza. Come affermava il Santo Padre all’inizio del Suo Pontificato, nella Lettera programmatica Evangelii Gaudium: «La Chiesa evangelizza ed evangelizza se stessa con la bellezza della liturgia, che è anche celebrazione dell’azione evangelizzatrice e fonte di rinnovato slancio donativo»5. 

Ma perché la liturgia è bella? È così perché in esso traluce il Mistero pasquale, attraverso il quale Cristo stesso ci attira a sé e ci chiama alla comunione. In Gesù, come diceva san Bonaventura, contempliamo la bellezza e la luminosità delle origini6. È dunque il Mistero di Cristo che la Chiesa annuncia e celebra nella sua liturgia affinché i fedeli lo vivano e lo testimonino nel mondo7.

Quindi, una prima risposta alla domanda sul perché la liturgia è bella possiamo trovarla nel fatto che in essa è presente Cristo e tutta la sua opera salvifica. In realtà, possiamo dire che la liturgia è bella perché riflette la bellezza di Dio. La bellezza della liturgia è soprattutto la bellezza di Cristo e la bellezza della Chiesa.

E non può essere altrimenti perché, come ricorda il Concilio Vaticano II: «Per realizzare un’opera così grande, Cristo è sempre presente nella sua Chiesa, soprattutto nell’azione liturgica»8.

[] 

2.

Il presbitero, presenza particolare del Risorto. Il presbitero agisce in persona Christi Capitis e in nomine Ecclesiae


[…]

A sua volta, il ministro che presiede la celebrazione agisce in nomine Ecclesiae, «formula che chiarisce che egli, mentre ripresenta Cristo Capo di fronte al suo Corpo che è la Chiesa, rende altresì presente di fronte al proprio Capo questo Corpo, anzi questa sposa, quale soggetto integrale della celebrazione, Popolo tutto sacerdotale a nome del quale il ministro parla e agisce»20.
 
Così, nei sacri misteri, il sacerdote non rappresenta se stesso e non parla in nome proprio, ma parla nella persona di un Altro, di Cristo. Nel momento dell’Ordinazione sacerdotale, la Chiesa rende visibile e palpabile, anche all’esterno, la realtà del rivestirci di Cristo, del donarci a Lui come Lui ha donato se stesso a noi. Come ha ricordato Benedetto XVI, «il “rivestirsi di Cristo”, viene rappresentato sempre di nuovo in ogni Santa Messa mediante il rivestirci dei paramenti liturgici. Indossarli deve essere per noi più di un fatto esterno: è l’entrare sempre di nuovo nel “sì” del nostro incarico – in quel “non più io” del battesimo che l’Ordinazione sacerdotale ci dona in modo nuovo e al contempo ci chiede. Il fatto che stiamo all’altare, vestiti con i paramenti liturgici, deve rendere chiaramente visibile ai presenti e a noi stessi che stiamo “in persona di un Altro”»21.
 
Mi concedo un inciso riguardo ai paramenti.
 
Credo che se comprendessimo bene il loro senso non ne metteremmo l’uso preciso e puntuale. In ciò ci sono di aiuto le preghiere che erano prescritte un tempo quando ci si parava per la celebrazione e che meriterebbero di essere riprese. A tale proposito, Benedetto XVI disse che: «l’indossare le vesti sacerdotali era una volta accompagnato da preghiere che ci aiutano a capire meglio i singoli elementi del ministero sacerdotale. Cominciamo con l’amitto. In passato – e negli ordini monastici ancora oggi – esso veniva posto prima sulla testa, come una specie di cappuccio, diventando così un simbolo della disciplina dei sensi e del pensiero necessaria per una giusta celebrazione della Santa Messa.

I pensieri non devono vagare qua e là dietro le preoccupazioni e le attese del quotidiano; i sensi non devono essere attirati da ciò che lì, all’interno della chiesa, casualmente vorrebbe sequestrare gli occhi e gli orecchi. Il cuore deve docilmente aprirsi alla parola di Dio ed essere raccolto nella preghiera della Chiesa, affinché il pensiero riceva il suo orientamento dalle parole dell’annuncio e della preghiera. E lo sguardo del cuore deve essere rivolto verso il Signore che è in mezzo a noi: ecco cosa significa ars celebrandi – il giusto modo del celebrare. Se io sono col Signore, allora con il mio ascoltare, parlare ed agire attiro anche la gente dentro la comunione con Lui. I testi della preghiera che interpretano il camice e la stola vanno ambedue nella stessa direzione. Evocano il vestito festivo che il padre donò al figlio prodigo tornato a casa cencioso e sporco. Quando ci accostiamo alla liturgia per agire nella persona di Cristo ci accorgiamo tutti quanto siamo lontani da Lui; quanta sporcizia esiste nella nostra vita. Egli solo può donarci il vestito festivo, renderci degni di presiedere alla sua mensa, di stare al suo servizio. Così le preghiere ricordano anche la parola dell’Apocalisse secondo cui i vestiti dei 144.000 eletti non per merito loro erano degni di Dio. L’Apocalisse commenta che essi avevano lavato le loro vesti nel sangue dell’Agnello e che in questo modo esse erano diventate candide come la luce (cfr. Ap 7,14). Già da piccolo mi sono chiesto: Ma quando si lava una cosa nel sangue, non diventa certo bianca! La risposta è: il “sangue dell’Agnello” è l’amore del Cristo crocifisso. È questo amore che rende candide le nostre vesti sporche; che rende verace ed illuminato il nostro spirito oscurato; che, nonostante tutte le nostre tenebre, trasforma noi stessi in “luce nel Signore”.
 
Indossando il camice dovremmo ricordarci: Egli ha sofferto anche per me. E soltanto perché il suo amore è più grande di tutti i miei peccati, posso rappresentarlo ed essere testimone della sua luce. Ma con il vestito di luce che il Signore ci ha donato nel Battesimo e, in modo nuovo, nell’Ordinazione sacerdotale, possiamo pensare anche al vestito nuziale, di cui Egli ci parla nella parabola del banchetto di Dio. […] Infine ancora una breve parola riguardo alla casula. La preghiera tradizionale quando si riveste la casula vede rappresentato in essa il giogo del Signore che a noi come sacerdoti è stato imposto. E ricorda la parola di Gesù che ci invita a portare il
suo giogo e a imparare da Lui, che è "mite e umile di cuore" (Mt 11, 29). Portare il giogo del Signore significa innanzitutto: imparare da Lui. Essere sempre disposti ad andare a scuola da Lui. Da Lui dobbiamo imparare la mitezza e l’umiltà – l’umiltà di Dio che si mostra nel suo essere uomo. […] A volte vorremmo dire a Gesù: Signore, il tuo giogo non è per niente leggero. È anzi tremendamente pesante in questo mondo. Ma guardando poi a Lui che ha portato tutto – che su di sé ha provato l’obbedienza, la debolezza, il dolore, tutto il buio, allora questi nostri lamenti si spengono. Il suo giogo è quello di amare con Lui. E più amiamo Lui, e con Lui diventiamo persone che amano, più leggero diventa per noi il suo giogo apparentemente pesante»22.
 
Anche i paramenti, così come le varie suppellettili sacre, sono in funzione della sacralità e della bellezza della liturgia, pertanto è importante curare anche questo aspetto23. La nota della nobile semplicità che caratterizza il rito romano24, espressamente richiamata nella materialità liturgica25, può applicarsi anche in questo contesto. L’Istruzione Redemptionis Sacramentum dedica un paragrafo alle vesti liturgiche26, richiama al riguardo la disciplina vigente (non sempre pienamente attuata) e menziona diverse inadempienze, invita pure alla vigilanza dell’autorità: «Tutti gli Ordinari provvedano che ogni uso contrario sia eliminato»27. Mai nella celebrazione della S. Messa si usino vasi comuni o piuttosto scadenti quanto alla qualità o privi di qualsiasi valore artistico, o vasi in materiale fragile, poroso o facile ad alterarsi28. 

Pertanto, nel vivere il ministero a cui siamo stati chiamati per grazia di Dio, e specialmente nelle azioni liturgiche, mai dobbiamo porre al centro noi stessi, le nostre piccole persone, i nostri pensieri, e ciò si manifesta anche nell’obbedienza alle norme liturgiche.

[…]

Contraddice l’identità sacerdotale ogni tentativo di porre se stessi come protagonisti dell’azione liturgica. Il sacerdote è più che mai servo39 e deve impegnarsi continuamente ad essere segno che, come strumento docile nelle mani di Cristo, rimanda a Lui. Ciò si esprime particolarmente nell’umiltà con la quale il sacerdote guida l’azione liturgica, in obbedienza al rito, corrispondendovi con il cuore e la mente, evitando tutto ciò che possa dare la sensazione di un proprio inopportuno protagonismo.

Raccomando, pertanto, al clero di approfondire sempre la coscienza del proprio ministero eucaristico come umile servizio a Cristo e alla sua Chiesa. Il sacerdozio, come diceva S. Agostino, è amoris officium, è l’ufficio del buon pastore, che offre la vita per le pecore (cfr Gv 10, 14-15)»40.

3.

Ars celebrandi che configura a Cristo orante.

 

a)  Parole e gesti che configurano a Cristo.

  L’arte di celebrare, «non può essere ridotta alla sola osservanza di un apparato rubricale e non può nemmeno essere pensata come una fantasiosa – a volte selvaggia – creatività senza regole»41, è tra i primi strumenti che rendono possibile la tanto necessaria formazione liturgica di sacerdoti e laici.

Come leggiamo in Sacramentum caritatis: «per la relazione tra ars celebrandi e actuosa participatio si deve innanzitutto affermare che “la migliore catechesi sull’Eucaristia è la stessa Eucaristia ben celebrata”»42.

L’obiettivo di ogni liturgia celebrata, l’ideale della vera ars celebrandi, è coinvolgere i fedeli, far loro comprendere il senso di quanto accade. Quando ciò avviene, si concretizza la reale partecipazione attiva di tutti perché non solo prendono parte esternamente alla celebrazione, ma anche e soprattutto perché rimangono profondamente e spiritualmente coinvolti, così che entrano nell’azione di Cristo e della Chiesa, e si produce in loro una crescita nella santità e una trasformazione di vita. In verità, la celebrazione liturgica è partecipata in modo autentico se in essa si giunge al mistero di Cristo, che è il Salvatore, e se da esso si ricomincia, si riparte, interiormente cambiati e, dunque, capaci di donarsi senza riserve a Dio e ai fratelli.

Come ha ricordato Benedetto XVI, «il rinnovamento delle forme esterne, desiderato dai Padri Conciliari, era proteso a renderepiù facile l’entrare nell’intima profondità del mistero. Il suo vero scopo era di condurre la gente ad un incontro personale con il Signore, presente nell’Eucaristia, e così al Dio vivente, in modo che, mediante questo contatto con l’amore di Cristo, l’amore reciproco dei suoi fratelli e delle sue sorelle potesse anch’esso crescere. Tuttavia, non raramente, la revisione delle forme liturgiche è rimasta ad un livello esteriore, e la “partecipazione attiva” è stata confusa con l’agire esterno. Pertanto, rimane ancora molto da fare sulla via del vero rinnovamento liturgico»43. Come non concordare con queste parole, guardando a certe celebrazioni? C’è urgente bisogno, dunque, di ben capire che cosa sia la partecipazione attiva promossa dal Concilio Vaticano II e, dopo sessant’anni, ancora fraintesa e non attuata in modo retto.

Tenuto conto di quanto detto, mi sta particolarmente a cuore rammentare che il ministro sacro deve comprendere «che l’autentica ars celebrandi è quella che rispetta ed esalta il primato di Cristo e l’actuosa participatio di tutta l’assemblea liturgica, anche attraverso un’umile obbedienza alle norme liturgiche»44, alla quale richiamo tutti, con sentimenti di giustizia verso Dio e di carità verso il popolo affidato alle nostre cure pastorali. Non possiamo tacere la gravità di una disobbedienza alla Chiesa circa questo ambito così importante nè possiamo scusare una ignoranza in queste materie. È una grave mancanza sia la deliberata violazione della disciplina liturgica sia la noncuranza di formarsi per conoscerla puntualmente, per servire fedelmente il Signore e i fedeli che Egli ci affida. Si può affermare con la forza del Concilio che parole e gesti ci permettono di comprendere il mistero e quindi di configurarci con Cristo45. Infatti, «le parole e i riti liturgici sono espressione fedele, maturata nei secoli, dei sentimenti di Cristo e ci insegnano ad avere i suoi stessi sentimenti; conformando la nostra mente alle sue parole, eleviamo il nostro cuore al Signore»46. Ed è logico perché «essendo azione di Cristo, la liturgia spinge dal suo interno a rivestirsi dei sentimenti di Cristo, e in questo dinamismo la realtà tutta viene trasfigurata»47.

[…] 

La celebrazione eucaristica è preghiera. In quest’ultima parte della mia lettera ho voluto rispondere alla domanda: come realizzare quell’ars celebrandi che implica stare con Cristo, lasciarsi formare, plasmare da Lui?
 
Una possibile risposta l’ha data Benedetto XVI quando ha affermato: «la prima cosa e la più importante per il sacerdote è la Messa quotidiana, celebrata sempre con profonda partecipazione interiore. Se la celebriamo veramente da persone oranti, se uniamo la nostra parola e il nostro agire alla parola che ci precede e al rito della celebrazione eucaristica, se nella comunione ci lasciamo veramente abbracciare da Lui e Lo accogliamo – allora stiamo con Lui»51.

Possiamo quindi affermare che la celebrazione eucaristica è preghiera. È possibile che, a volte, a causa della routine, del moltiplicarsi delle celebrazioni, o per altri motivi pastorali, questa affermazione venga offuscata o addirittura dimenticata. Papa Francesco, però, è chiaro su questo punto: «per comprendere la bellezza della celebrazione eucaristica desidero iniziare con un aspetto molto semplice: la Messa è preghiera, anzi, è la preghiera per eccellenza, la più alta, la più sublime, e nello stesso tempo la più “concreta”. Infatti è l’incontro d’amore con Dio mediante la sua Parola e il Corpo e Sangue di Gesù. È un incontro con il Signore»52.

Mi è sinceramente caro ricordare che «essere ordinati sacerdoti significa entrare in modo sacramentale ed esistenziale nella preghiera di Cristo per i “suoi”. Da qui deriva per noi presbiteri una particolare vocazione alla preghiera, in senso fortemente cristocentrico: siamo chiamati, cioè, a “rimanere” in Cristo – come ama ripetere l’evangelista Giovanni (cfr. Gv 1, 35-39; 15, 4-10) –, e questo rimanere in Cristo si realizza particolarmente nella preghiera. Il nostro ministero è totalmente legato a questo “rimanere” che equivale a pregare, e deriva da esso la sua efficacia.

In tale prospettiva dobbiamo pensare alle diverse forme della preghiera di un prete, prima di tutto alla santa Messa quotidiana. La celebrazione eucaristica è il più grande e il più alto atto di preghiera, e costituisce il centro e la fonte da cui anche le altre forme ricevono la “linfa”: la Liturgia delle ore, l’adorazione eucaristica, la lectio divina, il santo Rosario, la meditazione»53. Stare con il Signore è la cosa più necessaria ed è la prima e principale azione di carità pastorale che possiamo e dobbiamo compiere. Raccomando la fedeltà in questo. Suoni come un campanello d’allarme, che richiama a fare ordine nella nostra vita, non appena questa assiduità inizia anche solo sporadicamente a venire meno.

 Comprendere la S. Messa come preghiera, infine, è piuttosto immediato, se teniamo conto di quanto insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica: «Ogni celebrazione sacramentale è un incontro dei figli di Dio con il loro Padre, in Cristo e nello Spirito Santo, e tale incontro si esprime come un dialogo, attraverso azioni e parole»54.

-        I soggetti di questo dialogo divino.

Se ci chiediamo chi siano i soggetti di questo dialogo divino e umano, possiamo rispondere senza timore di sbagliare che essi anzitutto sono il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo, la Santissima Trinità. Difatti, l’Eucaristia è un’azione divina, trinitaria. Accanto alla Trinità, però, individuiamo un altro soggetto: la Chiesa intera. Come ricorda il Catechismo della Chiesa Cattolica, soggetto della liturgia è il Christus totus: «La liturgia è “azione” di “Cristo tutto intero” (“totius Christi”). Coloro che qui la celebrano, al di là dei segni, sono già nella liturgia celeste, dove la celebrazione è
totalmente comunione e festa»55. In realtà, in questa struttura di comunicantes”, cielo e terra riuniti in comunione, è presente anche la stessa creazione, come ci ricorda il Prefazio alla Preghiera eucaristica IV: «per nostram vocem, omnis quæ sub cælo est creatura». È la cosiddetta dimensione cosmica a cui fa riferimento Papa Francesco nella sua Lettera enciclica Laudato si’.
     
    -        L’orientamento della preghiera: versus Deum per Iesum Christum.

     Questa dimensione cosmica dalla liturgia risalta e diventa protagonista con l’orientamento proprio della celebrazione, quello versus Orientem. La celebrazione verso Oriente, infatti, incorpora il simbolismo cosmico nella celebrazione comunitaria. Il significato teologico ed escatologico è di una portata enorme. Possiamo dire, allora, che nella liturgia la creazione prega con noi e noi preghiamo con la creazione. «L’intera creazione è sulla via della redenzione. Pertanto, nell’orientamento della liturgia verso Oriente vediamo che i cristiani, insieme al Signore, desiderano procedere verso la salvezza integrale di tutta la creazione. Cristo, il Signore crocifisso e risorto, allo stesso tempo è pure il sole che illumina il mondo. Anche la fede è sempre rivolta alla totalità della creazione»56.
 
È importante non perdere di vista che la liturgia va sempre oltre la cerchia di coloro che si trovano riuniti, presenti; va oltre pure alla Chiesa di oggi; prega con la natura e cammina con essa verso il mondo nuovo della risurrezione. Come ricorda Papa Francesco:
«unito al Figlio incarnato, presente nell’Eucaristia, tutto il cosmo rende grazie a Dio. In effetti l’Eucaristia è di per sé un atto di amore cosmico: “Sì, cosmico! Perché anche quando viene celebrata sul piccolo altare di una chiesa di campagna, l’Eucaristia è sempre celebrata, in certo senso, sull’altare del mondo” (S. GIOVANNI PAOLO
II, Lettera enciclica Ecclesia de Eucharistia, 17 aprile 2003, n. 8). L’Eucaristia unisce il cielo e la terra, abbraccia e penetra tutto il creato. Il mondo, che è uscito dalle mani di Dio, ritorna a Lui in gioiosa e piena adorazione»57. Così, attraverso l’orientamento, diventa evidente la dimensione cosmica dell’Eucaristia e della preghiera tutta.
 
E insieme a questa dimensione cosmica che viene sottolineata dall’orientamento, possiamo anche ricordare che «i primi cristiani pregavano verso l’Oriente, verso il sole nascente, simbolo di Cristo che ritorna. Con ciò volevano segnalare che il mondo intero è in cammino verso Cristo e che Egli lo abbraccia nella sua totalità»58.
 
In realtà l’Oriente, oltre ad essere simbolo del sole nascente, è anche simbolo della Resurrezione e della speranza nella parusia. Volgersi comunitariamente in quella direzione implica quindi, oltre alla posizione cosmica, un modo di comprendere l’Eucaristia a partire dalla teologia della Resurrezione e della Trinità, nonché un’interpretazione escatologica, una teologia della speranza, in cui ogni Messa è un cammino verso la venuta di Cristo. Insomma, volgersi verso l’altare è in realtà l’espressione di una visione cosmica e parusiale della celebrazione eucaristica.
 
Infine, e non ultimo dal punto di vista pastorale, l’orientamento, la direzione di questo colloquio divino, è qualcosa di fondamentale affinché l’assemblea non si trovi disorientata. Nella Liturgia della Parola, Dio parla al suo popolo che fa propria la Parola divina e risponde con il silenzio ed il canto59: è quindi logico l’atteggiamento del faccia a faccia recuperato nella riforma liturgica. Nella Liturgia Eucaristica, però, sia il sacerdote che i fedeli, uniti a Cristo mediante l’azione dello Spirito Santo, si rivolgono al Padre Eterno. La direzione non può che essere unica.
 
In questo senso acquistano speciale significato alcune parole di Benedetto XVI, che non possono non farci riflettere: «l’idea che sacerdote e persone in preghiera debbano guardarsi tra loro è nata solo nel cristianesimo moderno ed è del tutto strana nel cristianesimo antico. Sacerdote e popolo non pregano certamente gli uni verso gli altri, ma verso l’unico Signore. Pertanto, durante la preghiera, guardano nella stessa direzione: o verso l’Oriente, come simbolo cosmico del Signore che viene, oppure, dove ciò non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce o semplicemente verso il cielo, come ha fatto il Signore nella preghiera sacerdotale della notte prima della sua passione (Gv 17, 1). Intanto, va fortunatamente facendo sempre più progressi la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione nel mio lavoro: non procedere a nuove trasformazioni, ma proporre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale il sacerdote e i fedeli guardano insieme, per lasciarsi così guidare verso il Signore, che tutti insieme preghiamo»60.
 
La prassi dei primi secoli, infatti, mostra che l’Oriente e l’immagine della croce, così come l’orientamento cosmico e la storia salvifica, sono fusi. Nell’immagine della croce si esprimono allo stesso tempo il memoriale della passione, la fede nella risurrezione e la speranza nella parusia. Lo sguardo rivolto alla croce riassume in sé, in qualche modo, anche la teologia delle icone, che è una teologia dell’incarnazione e della trasfigurazione. Per tutto questo, «dove l’orientamento di alcuni verso est non è possibile, la croce può servire come oriente interiore della fede. La croce dovrebbe essere al centro dell’altare ed essere il punto di riferimento comune del sacerdote e della comunità orante»61.
 
[…]

Vorrei concludere questa sezione con due gesti, due atteggiamenti che si uniscono nel vivere pienamente questo dialogo divino: il silenzio e il corpo che prega.
 
-        Il silenzio.

Un aspetto che va coltivato con più attenzione è l’esperienza del silenzio. Papa Francesco ne fa riferimento in una sintesi densa e ricca nella Lettera apostolica Desiderio desideravi dove leggiamo:
«Tra i gesti rituali che appartengono a tutta l’assemblea occupa un posto di assoluta importanza il silenzio. Più volte è espressamente prescritto nelle rubriche: tutta la celebrazione eucaristica è immersa nel silenzio che precede il suo inizio e segna ogni istante del suo svolgersi rituale. Infatti è presente nell’atto penitenziale; dopo l’invito alla preghiera; nella liturgia della Parola (prima delle letture, tra le letture e dopo l’omelia); nella preghiera eucaristica; dopo la comunione. Non si tratta di un rifugio nel quale nascondersi per un isolamento intimistico, quasi patendo la ritualità come se fosse una distrazione: un tale silenzio sarebbe in contraddizione con l’essenza stessa della celebrazione. Il silenzio liturgico è molto di più: è il simbolo della presenza e dell’azione dello Spirito Santo che anima tutta l’azione celebrativa, per questo motivo spesso costituisce il culmine di una sequenza rituale.
 
Proprio perché simbolo dello Spirito ha la forza di esprimere la sua multiforme azione. Così, ripercorrendo i momenti che ho sopra ricordato, il silenzio muove al pentimento e al desiderio di conversione; suscita l’ascolto della Parola e la preghiera; dispone all’adorazione del Corpo e del Sangue di Cristo; suggerisce a ciascuno, nell’intimità della comunione, ciò che lo Spirito vuole operare nella vita per conformarci al Pane spezzato. Per questo siamo chiamati a compiere con estrema cura il gesto simbolico del silenzio: in esso lo Spirito ci dà forma»64.
 
Infatti, il silenzio è essenziale, «di esso abbiamo bisogno “per accogliere nei cuori la piena risonanza della voce dello Spirito Santo, e per unire più strettamente la preghiera personale con la Parola di Dio e con la voce pubblica della Chiesa” (Institutio generalis Liturgiae Horarum, 213)»65. Anche il silenzio è un elemento fondamentale dell’ars celebrandi. Non possiamo scordarci di questo.
 
Uno di questi momenti di silenzio, indicati dalla stessa liturgia e che non interrompono l’azione liturgica ma ne sono parte integrante, sono le preghiere che il sacerdote recita a bassa voce. Queste preghiere invitano il sacerdote a vivere il suo compito, a donarsi al Signore, anche con se stesso66. Allo stesso tempo, sono un ottimo modo per mettersi in cammino verso il Signore come gli altri, sia in modo del tutto personale, ma anche – parimenti – andando insieme agli altri67. Sebbene i fedeli non ascoltino le preghiere dette a voce bassa dal sacerdote, il fatto stesso di vederle recitare dal celebrante ricorda loro l’importanza di quei gesti che vengono compiuti durante tutta la celebrazione. Queste preghiere si presentano come un aiuto per celebrare “dall’interno”, a partire dal Signore e in comunione con Lui.

Anche nella Liturgia della Parola il silenzio gioca un ruolo fondamentale. Infatti, perché il dialogo con Dio sia profondo, il silenzio interiore ed esteriore è di capitale importanza; silenzio che «è la condizione ambientale che meglio favorisce il raccoglimento, l’ascolto di Dio, la meditazione»68.
 
Avendone esperienza, ben facilmente ci viene da pensare che il nostro mondo – e, forse, pure noi con esso – non è abituato al silenzio; i fedeli stessi, che vivono nel mondo, molto spesso non sono abituati al silenzio. Pertanto, il modo di celebrare la Liturgia della Parola può essere influenzato dalla fretta, dal rumore, da un desiderio disordinato di efficienza che vanifica la contemplazione. Ecco perché la Chiesa chiede che coloro che partecipano alla liturgia tengano conto che «silenzio e contemplazione hanno uno scopo: servono per conservare, nella dispersione della vita quotidiana, una permanente unione con Dio»69.
 
Certamente il silenzio non è una semplice pausa, in cui mille pensieri e desideri ci vengono incontro, ma è piuttosto quel raccoglimento che ci dà la pace interiore, che ci permette di prendere fiato, che ci concede di scoprire ciò che è vero ed importante.
 
Così, in questa liturgia del silenzio”, lo Spirito Santo intercede per noi con gemiti che non possono essere espressi a parole e suscita una preghiera gradita a Dio (cfr. Rm 8, 26-27). Per questo siamo consapevoli che la preghiera cristiana non può avvenire senza l’azione dello Spirito Santo, il quale, realizzando l’unità della Chiesa, ci conduce al Padre per mezzo del Figlio70. Infatti, «perché la Parola di Dio operi davvero nei cuori ciò che fa risonare negli orecchi, si richiede l’azione dello Spirito Santo; sotto la sua ispirazione e con il suo aiuto la parola di Dio diventa fondamento dell’azione liturgica, e norma e sostegno di tutta la vita»71. Un orientamento fondamentale che facilita l’azione dello Spirito Santo consiste dunque nel riapprendere il silenzio, l’apertura all’ascolto, che ci apre all’altro, alla Parola di Dio72.
 
Una conseguenza pratica di tutto ciò che diciamo è che «la Liturgia della Parola deve essere celebrata in modo da favorire la meditazione; quindi si deve assolutamente evitare ogni forma di fretta che impedisca il raccoglimento»73. Non si tratta semplicemente di momenti concreti di silenzio, ma di un clima che consenta l’azione dello Spirito Santo che «non solo previene, accompagna e prosegue tutta l’azione liturgica, ma a ciascuno suggerisce nel cuore tutto ciò, che nella proclamazione della Parola di Dio vien detto per l’intera assemblea del fedeli, e mentre rinsalda l’unità di tutti, favorisce anche la diversità dei carismi e ne valorizza la molteplice azione»74.
Un ultimo aspetto, non meno importante, è che il fatto di restare in silenzio manifesta anche l’unità orante dei membri della comunità cristiana che si sono riuniti per celebrare questa azione liturgica.
 
Circa la Parola di Dio, desidero sottolineare ancora che Cristo «è presente nella sua Parola, giacché è lui che parla quando nella Chiesa si legge la Sacra Scrittura»75, pertanto risulta chiara l’importanza del fatto che coloro che si prestano a svolgere il servizio liturgico di lettore sia ben formato e preparato, educato con cura allo spirito liturgico, per svolgere il proprio compito secondo le norme stabilite e con ordine76. Pertanto, «è necessario che i lettori incaricati di tale ufficio [...] siano veramente idonei e preparati con impegno. Questa preparazione deve essere soprattutto spirituale; ma è anche necessaria quella propriamente tecnica. La preparazione spirituale suppone almeno una duplice formazione: quella biblica e quella liturgica. La formazione biblica deve portare i lettori a saper inquadrare le letture nel loro contesto e a cogliere il centro dell’annunzio rivelato alla luce della fede. La formazione liturgica deve comunicare ai lettori una certa facilità nel percepire il senso e la struttura della liturgia della parola e le motivazioni del rapporto fra la liturgia della parola e la liturgia eucaristica. La preparazione tecnica deve rendere i lettori sempre più idonei all’arte di leggere in pubblico, sia a voce libera, sia con l’aiuto dei moderni strumenti di amplificazione»77.
 
Alla luce di questo emerge con evidenza l’importanza dei corsi per lettori e la formazione di tutti coloro che prestano qualche servizio liturgico. E, a tale riguardo, spendo una parola anche sul ministro straordinario della S. Comunione78, che è per sua stessa natura di supplenza. Infatti, oltre all’accolito, possono essere designati come ministri straordinari della S. Comunione altri fedeli laici nel senso di non ordinati –, sia uomini che donne, se si verificano congiuntamente le condizioni indicate nel can. 230 § 3: che lo suggerisca una necessità pastorale e non vi siano ministri ordinari. Ricordo che la Risposta data il giugno 1988 dalla Pontificia Commissione per l’interpretazione autentica del CIC al dubbio «se il ministro straordinario della santa comunione, designato in base ai cann. 910 § 2 e 230 § 3, possa svolgere la sua funzione di supplenza anche quando sono presenti nella Chiesa, benché non partecipino alla celebrazione eucaristica, ministri ordinari che non sono in alcun modo impediti»79 fu negativa.
 
L’Istruzione interdicasteriale Ecclesia de mysterio ha chiaramente ribadito che «perché il ministro straordinario, durante la celebrazione eucaristica, possa distribuire la santa comunione, è necessario o che non siano presenti ministri ordinari o che questi, pur presenti, siano veramente impediti. Può svolgere altresì il medesimo incarico anche quando, a causa della particolarmente numerosa partecipazione di fedeli che desiderano ricevere la santa comunione, la celebrazione eucaristica si prolungherebbe eccessivamente per l’insufficienza di ministri ordinari.
 
Per non ingenerare confusioni sono da evitare e rimuovere talune prassi circa questi ministri suppletori, come ad esempio: il comunicarsi da se stessi come se si trattasse di concelebranti; associare alla rinnovazione delle promesse dei sacerdoti, nella S. Messa crismale del giovedì santo, anche altre categorie di fedeli che rinnovano i voti religiosi o ricevono il mandato di ministri straordinari della santa comunione; l’uso abituale di ministri straordinari nelle sante Messe, estendendo arbitrariamente il concetto di “numerosa partecipazione»80.
 
Come per il Lettore, anche in questo caso si deve prevedere che il fedele a ciò deputato venga debitamente istruito, soprattutto sulla dottrina eucaristica, sull’indole del suo servizio, sulle rubriche da osservare per la dovuta riverenza al Santissimo Sacramento e sulla disciplina circa l’ammissione alla comunione. Si distorcerebbe il genuino carattere della partecipazione del laico nella vita e nella missione della Chiesa, se una funzione di mera supplenza, riservata in linea di principio ai sacri ministri, fosse elevata al rango di missione propria del laico. San Giovanni Paolo II «è necessario poi che i pastori siano vigilanti perché si eviti un facile ed abusivo ricorso a presunte “situazioni di emergenza” o di “necessaria supplenza”, dove obiettivamente non esistono o dove è possibile ovviarvi con una programmazione pastorale più razionale»81. Da ultimo, è opportuno tener conto di questo particolare di indole terminologica: il ministro straordinario di cui si tratta è «ministro straordinario della santa Comunione, non “ministro speciale della santa Comunione” o “ministro straordinario dell’Eucaristia” o “ministro speciale dell’Eucaristia”, definizioni che ne amplificano indebitamente e impropriamente la portata»82.
 
-        Parola, canto e musica.

Se nella liturgia ha un posto notevole il silenzio, non dobbiamo perdere di vista nemmeno l’importanza del canto e della musica. […]
La musica ed il canto liturgici sono necessaria e integrante dell’azione liturgia84: contribuiscono all’epifania e alla riattualizzazione del Mistero pasquale. «La musica e il canto sono più di un abbellimento (magari anche superfluo) del culto; infatti fanno parte dell’attuazione della liturgia, anzi, sono essi stessi liturgia. Una solenne musica sacra con coro, organo, orchestra e canto del popolo, quindi, non è un’aggiunta che incornicia e rende piacevole la liturgia, ma un modo importante di partecipazione attiva all’evento cultuale»85.
 
Non si tratta, dunque, di una aggiunta esterna alla celebrazione, ma, come tutta la liturgia, anch’essi hanno per fine «la gloria di Dio e la santificazione dei fedeli»86. È quindi importante che i canti utilizzati nella liturgia siano scelti con cura, tenendo conto della qualità dei testi, delle melodie, degli esecutori, del senso del rito che accompagnano, nella migliore fedeltà agli insegnamenti conciliari secondo i quali «la musica sacra sarà tanto più santa quanto più strettamente sarà unita all’azione liturgica, sia dando alla preghiera un’espressione più soave e favorendo l’unanimità, sia arricchendo di maggior solennità i riti sacri»87, senza scordare che «l’azione liturgica riveste una forma più nobile quando è celebrata in canto; [...] gli animi si innalzano più facilmente alle cose celesti per mezzo dello splendore delle cose sacre, e tutta la celebrazione prefigura più chiaramente la liturgia che si svolge nella Gerusalemme celeste»88. Sicchè, giustamente sottolinea Papa Francesco che non si tratta di «una musica qualunque, ma una musica santa, perché santi sono i riti; dotata della nobiltà dell’arte, perché a Dio si deve dare il meglio; universale, perché tutti possano comprendere e celebrare. Soprattutto, ben distinta e diversa da quella usata per altri scopi. E vi raccomandò di coltivare il sensus ecclesiae, il discernimento della musica nella liturgia»89.
 
Il canto e la musica sono così parte della liturgia e ad essa devono corrispondere, seguendo criteri di scelta che dicano questa profonda intrinsecità, come ricordava S. Giovanni Paolo II: «La musica liturgica deve infatti rispondere a suoi specifici requisiti: la piena aderenza ai testi che presenta, la consonanza con il tempo e il momento liturgico a cui è destinata, l’adeguata corrispondenza ai gesti che il rito propone. I vari momenti liturgici esigono, infatti, una propria espressione musicale, atta di volta in volta a far emergere la natura propria di un determinato rito, ora proclamando le meraviglie di Dio, ora manifestando sentimenti di lode, di supplica o anche di mestizia per l’esperienza dell’umano dolore, un’esperienza tuttavia che la fede apre alla prospettiva della speranza cristiana»90.

Indicazione fondamentale rimane quella offerta autorevolmente da Musicam sacram, ossia che nello scegliere le parti da cantare bisognerebbe iniziare da quelle che «per loro natura sono di maggiore importanza»91, e cioè i dialoghi tra il celebrante ed il popolo, le acclamazioni, fino a quelle parti proprie dei soli fedeli o del coro.

Benedetto XVI ricordava i criteri fondamentali della tradizione che devono guidare nel discernimento circa la musica ed il canto liturgici: «il senso della preghiera, della dignità e della bellezza; la piena aderenza ai testi e ai gesti liturgici; il coinvolgimento dell’assemblea e, quindi, il legittimo adattamento alla cultura locale, conservando, al tempo stesso, l’universalità del linguaggio; il primato del canto gregoriano, quale supremo modello di musica sacra, e la sapiente valorizzazione delle altre forme espressive, che fanno parte del patrimonio storico-liturgico della Chiesa, specialmente, ma non solo, la polifonia; l’importanza della schola cantorum, in particolare nelle chiese cattedrali. Sono criteri importanti, da considerare attentamente anche oggi»92. Si deve assolutamente avere in mente che, in liturgia, «non possiamo dire che un canto vale l’altro. A tale proposito, occorre evitare la generica improvvisazione o l’introduzione di generi musicali non rispettosi del senso della liturgia. In quanto elemento liturgico, il canto deve integrarsi nella forma propria della celebrazione. Di conseguenza tutto – nel testo, nella melodia, nell’esecuzione – deve corrispondere al senso del mistero celebrato, alle parti del rito e ai tempi liturgici. Infine, pur tenendo conto dei diversi orientamenti e delle differenti tradizioni assai lodevoli, desidero, come è stato chiesto dai Padri sinodali, che venga adeguatamente valorizzato il canto gregoriano,in quanto canto proprio della liturgia romana»93.

Perchè la liturgia risuoni e canti la bellezza inesprimibile del mistero di Dio, si cerchi che ci sia sempre «un cantore o maestro di coro per dirigere e sostenere il canto del popolo. Anzi, mancando la schola, è compito del cantore guidare i diversi canti, facendo partecipare il popolo per la parte che gli spetta»94. Come rimanere indifferenti dinnanzi alla speciale prestanza della musica e del canto liturgici? Come non richiamare il chiaro monito conciliare secondo cui «la Chiesa riconosce il canto gregoriano come canto proprio della liturgia romana; perciò nelle azioni liturgiche, a parità di condizioni, gli si riservi il posto principale»95? Dobbiamo davvero impegnarci «a migliorare la qualità del canto liturgico, senza aver timore di recuperare e valorizzare la grande tradizione musicale della Chiesa, che nel gregoriano e nella polifonia ha due delle espressioni più alte, come afferma lo stesso Vaticano II»96.
 
Nella celebrazione liturgica è presente sempre tutta la Chiesa, di tutti i luoghi e di tutti i tempi. In ciò consiste la cattolicità. La Costituzione conciliare sulla Liturgia sottolinea a proposito che uno degli elementi di universalità della liturgia della Chiesa è la lingua comune, ufficiale, ossia il latino, motivo per cui insiste sulla necessità di conservarlo in alcune parti specifiche della S. Messa: «Nelle Messe celebrate con partecipazione di popolo si possa concedere una congrua parte alla lingua nazionale, specialmente nelle letture e nella “orazione comune” e, secondo le condizioni dei vari luoghi, anche nelle parti spettanti al popolo, a norma dell’art. 36 di questa Costituzione. Si abbia cura però che i fedeli sappiano recitare e cantare insieme, anche in lingua latina, le parti dell’Ordinario della Messa che spettano ad essi»97. La consapevolezza di quanto ci manchi ancora per aderire a tali indicazioni su una materia tanto fondamentale98 ci fa avvertire l’urgenza di promuovere una formazione liturgico musicale99 anzitutto dei pastori100, poi anche dei fedeli, soprattutto di chi svolge il servizio liturgico di organista101, di direttore, di cantore102 e sarebbe di giovamento un Repertorio diocesano”.
 
Ricordo vivamente l’indicazione autorevole del Concilio, che prescrive che «nella Chiesa latina si abbia in grande onore l’organo a canne, strumento musicale tradizionale, il cui suono è in grado di aggiungere un notevole splendore alle cerimonie della Chiesa, e di elevare potentemente gli animi a Dio e alle cose celesti; altri strumenti, poi, si possono ammettere nel culto divino, a giudizio e con il consenso della competente autorità ecclesiastica territoriale [...] purché siano adatti all’uso sacro o vi si possano adattare, convengano alla dignità del tempio e favoriscano veramente l’edificazione dei fedeli»103.
 
Ricordiamoci che «l’organo, da sempre e con buona ragione, viene qualificato come il re degli strumenti musicali, perché riprende tutti i suoni della creazione e – come poco fa è stato detto – dà risonanza alla pienezza dei sentimenti umani, dalla gioia alla tristezza, dalla lode fino al lamento. Inoltre, trascendendo come ogni musica di qualità la sfera semplicemente umana, rimanda al divino. La grande varietà dei timbri dell’organo, dal piano fino al fortissimo travolgente, ne fa uno strumento superiore a tutti gli altri. Esso è in grado di dare risonanza a tutti gli ambiti dell'esistenza umana. Le molteplici possibilità dell’organo ci ricordano in qualche modo l’immensità e la magnificenza di Dio. 

[…]
 
In un organo, le numerose canne e i registri devono formare un’unità. Se qua o là qualcosa si blocca, se una canna è stonata, questo in un primo momento è percettibile forse soltanto da un orecchio esercitato.
 Ma se più canne non sono più ben intonate, allora si hanno delle stonature e la cosa comincia a divenire insopportabile. Anche le canne di quest’organo sono esposte a cambiamenti di temperatura e a fattori di affaticamento.
 È questa un’immagine della nostra comunità nella Chiesa. Come nell’organo una mano esperta deve sempre di nuovo riportare le disarmonie alla retta consonanza, così dobbiamo anche nella Chiesa, nella varietà dei doni e dei carismi, trovare mediante la comunione nella fede sempre di nuovo l'accordo nella lode di Dio e nell'amore fraterno.
 Quanto più, attraverso la Liturgia, ci lasciamo trasformare in Cristo, tanto più saremo capaci di trasformare anche il mondo, irradiando la bontà, la misericordia e l’amore per gli uomini di Cristo»104.
 
-        Pregare con il corpo: l’inginocchiarsi.
 
Papa Francesco ci ha ricordato che «l’aver perso la capacità di comprendere il valore simbolico del corpo e di ogni creatura rende il linguaggio simbolico della liturgia quasi inaccessibile all’uomo moderno. Non si tratta, tuttavia, di rinunciare a tale linguaggio: non è possibile rinunciarvi perché è ciò che la Santissima Trinità ha scelto per raggiungerci nella carne del Verbo. Si tratta, piuttosto, di recuperare la capacità di porre e di comprendere i simboli della Liturgia. Non dobbiamo disperare, perché nell’uomo questa dimensione, come ho appena detto, è costitutiva e, nonostante i mali del materialismo e dello spiritualismo – entrambi negazione dell’unità corpo e anima – è sempre pronta a riemergere, come ogni verità»105.
 In questo senso vorrei ricordare e richiamare la necessità di recuperare il significato dell’inginocchiarsi nella celebrazione eucaristica. Come ricorda il Romano Pontefice nella Lettera apostolica Desiderio desideravi: «Ogni gesto e ogni parola contiene un’azione precisa che è sempre nuova perché incontra un istante sempre nuovo della nostra vita. Mi spiego con un solo semplice esempio. Ci inginocchiamo per chiedere perdono; per piegare il nostro orgoglio; per consegnare a Dio il nostro pianto; per supplicare un suo intervento; per ringraziarlo di un dono ricevuto: è sempre lo stesso gesto che dice essenzialmente il nostro essere piccoli dinanzi a Dio. Tuttavia, compiuto in momenti diversi del nostro vivere, plasma la nostra interiorità profonda per poi manifestarsi all’esterno nella nostra relazione con Dio e con i fratelli. Anche l’inginocchiarsi va fatto con arte, vale a dire con una piena consapevolezza del suo
senso simbolico e della necessità che noi abbiamo di esprimere con questo gesto il nostro modo di stare alla presenza del Signore»106.
In questa linea, l’atteggiamento di inginocchiarsi in determinate circostanze assume un ruolo speciale. Infatti, «davanti al Cristo crocifisso l’intero cosmo, i cieli, la terra e quanto è sotto terra, si inginocchia (cfr Fil 2,10-11). Egli è realmente l’espressione della vera grandezza di Dio. L’umiltà di Dio, l’amore fino alla croce, ci dimostra chi è Dio. Davanti a Lui noi siamo in ginocchio, adorando. Essere inginocchiati non è più espressione di servitù, ma proprio della libertà che ci dà l’amore di Dio, la gioia di essere redenti, di porsi insieme, con il cielo e la terra, con tutto il cosmo, ad adorare Cristo, essere uniti a Cristo e così essere redenti»107.
 

Come conseguenza tangibile di quanto sopra e, conformemente all’Ordinamento generale del Messale Romano, ricordo: - il gesto della genuflessione, che si compie piegando a terra il ginocchio destro, segno di adorazione, quindi riservato al Santissimo Sacramento108; - l’inginocchiarsi durante la preghiera eucaristica109; - il dare ai fedeli la giusta possibilità di ricevere la S. Comunione in ginocchio, il che significa anche il fornire i mezzi necessari per poterlo fare110. L’efficacia della catechesi eucaristica si manifesta in maniera più convincente in queste prescrizioni che permettono ai fedeli di crescere nel senso del mistero di Dio realmente presente tra noi nella Santissima Eucaristia.

Conclusione


La liturgia, avendo come centro l’Eucaristia, è il dono per eccellenza, perché è dono di Cristo stesso, dono della sua persona nella sua santa umanità ed è, inoltre, dono della sua opera di salvezza. Per questo possiamo dire che «La bellezza della liturgia è parte di questo mistero; essa è espressione altissima della gloria di Dio e costituisce, in un certo senso, un affacciarsi del Cielo sulla terra. Il memoriale del sacrificio redentore porta in se stesso i tratti di quella bellezza di Gesù di cui Pietro, Giacomo e Giovanni ci hanno dato testimonianza, quando il Maestro, in cammino verso Gerusalemme, volle trasfigurarsi davanti a loro (cfr. Mc 9,2). La bellezza, pertanto, non è un fattore decorativo dell’azione liturgica; ne è piuttosto elemento costitutivo, in quanto è attributo di Dio stesso e della sua rivelazione. Tutto ciò deve renderci consapevoli di quale attenzione si debba avere perché l’azione liturgica risplenda secondo la sua natura propria»111.
 
Giungendo al termine di questa lettera che scrivo con emozione e stupore per la bellezza dell’Eucaristia, desidero ricordarvi che la liturgia, luogo privilegiato di incontro con Dio e con Colui che Egli ha inviato, Gesù Cristo, è bella per la sua proporzione, eleganza ed armonia delle forme. Allo stesso tempo, però, la bellezza delle celebrazioni liturgiche non è fine a se stessa, ma piuttosto ci tocca, ci interpella e ci fa uscire da noi stessi per incontrare il Mistero di Dio e da esso andare verso gli altri. La bellezza come armonia e la bellezza come santità che ci attrae, e ci fa uscire da noi stessi, trovano la loro pienezza nella bellezza vera e ultima che manifesta l’amore di Dio che si è rivelato nel Mistero pasquale. Mistero che è presente nella liturgia per ritus et preces, attraverso riti e preghiere che, fatti per amore, nella fedeltà alla Chiesa, manifestano l’amore di Dio e costituiscono la bellezza evangelizzatrice della liturgia.
 
In conclusione, «le nostre liturgie della terra, interamente volte a celebrare questo atto unico della storia, non giungeranno mai ad esprimerne totalmente l’infinita densità. La bellezza dei riti non sarà certamente mai abbastanza ricercata, abbastanza curata, abbastanza elaborata, poiché nulla è troppo bello per Dio, che è la Bellezza infinita. Le nostre liturgie terrene non potranno essere che un pallido riflesso della liturgia, che si celebra nella Gerusalemme del cielo, punto d’arrivo del nostro pellegrinaggio sulla terra. Possano tuttavia le nostre celebrazioni avvicinarsi ad essa il più possibile e farla pregustare»112.
 
Carissimi Confratelli,

pregate dunque anche per me perchè io possa sempre più essere fedele e zelante nel ministero apostolico affidatomi e al quale, nonostante i miei limiti, per misteriosa predilezione divina sono stato chiamato, sì che io sia icona trasparente della carità pastorale dello stesso Cristo, anche e in modo speciale essendo sommo liturgo. Conceda, così, il Signore a tutti noi che «il progresso dei fedeli sia gioia eterna dei pastori».

 

Ventimiglia, 28 marzo 2024. Giovedì Santo.


Antonio Suetta


Vescovo di Ventimiglia San Remo

2 commenti:

  1. Grazie al cielo in Italia ci sono ancora vescovi in gamba! Grazie eccellenza!

    RispondiElimina
  2. E si parla della forma ordinaria!

    RispondiElimina