"Resistere, resistere, resistere".
Luigi C.
TFP, 8-12-23
Il monaco progressista Enzo Bianchi si è lamentato che le posizioni innovative del Papa si trovino “isolate” e che alla gente non interessi il processo sinodale da lui avviato, un fenomeno che si accompagna in parallelo, sempre secondo Bianchi, a una grande attività dell’ala tradizionalista della Chiesa nei social. Dall’America, ma non solo da lì, arrivano autorevoli sondaggi che dicono che la stragrande maggioranza dei seminaristi e giovani sacerdoti sono di orientamento conservatore, e che le idee liberal sono proprie ormai di una generazione assai anziana di ecclesiastici. Mentre si verifica questo tramonto del progressismo cattolico - paradossalmente sempre più forte nelle leve del potere ma sempre più debole nel seguito dei fedeli - un altro fenomeno si percepisce in certe aree della suddetta “ala tradizionalista”, cioè, la tendenza alla frantumazione e persino allo scisma: sedevacantismo, sedemenefreghismo, anarcovacantismo, tentazione di cambiare denominazione religiosa, di diventare “nones” (ndt, niente), etc… Insomma, il caos. Ecco qui di seguito una soluzione prospettata dal libro “Il cambio di paradigma di Papa Francesco” (José Antonio Ureta, Istituto Plinio Correa de Oliveira, 2018) che ci sembra fornire una posizione equilibrata davanti al moltiplicarsi di “ricette” per sopravvivere nella crisi della fede, vero problema della Chiesa secondo Benedetto XVI.
di José Antonio Ureta
“Alla fine di questo lavoro, probabilmente ci dovremmo domandare: come mantenere relazioni con i Pastori che promuovono il cambiamento di paradigma, a tutti i livelli, senza perdere la fede?
Appare indispensabile evitare due “soluzioni facili” e opposte. Da un lato, quella che dice: “In fin dei conti, il Papa è il rappresentante di Cristo e i vescovi sono i successori degli Apostoli. Sono loro il ‘magistero vivo’: chi sono io per giudicarli? Se il Papa e i vescovi che lo appoggiano si sbagliano, il problema è loro”; dall’altro, quella che afferma: “Tutto questo è chiaramente eresia; dunque, chi lo patrocina non può essere Papa” cadendo così nel sedevacantismo, posizione che dispenserebbe dal dover resistere a un superiore, perché non si riconoscerebbe più la sua autorità.
È necessario rifiutare questa falsa alternativa, riconoscendo Papa Francesco come il Vicario di Cristo sulla terra e i nostri vescovi diocesani come successori degli Apostoli, ma senza per questo smettere di “resistere loro in faccia”, come san Paolo resistette a san Pietro.
Questa posizione equilibrata e coraggiosa prenderebbe quindi nella più alta considerazione le sagge parole di un grande canonista del XVII secolo, il padre Paul Laymann S.I., il quale scrive che “mentre il Papa sia tollerato dalla Chiesa e riconosciuto pubblicamente come Pastore universale, egli continua a possedere realmente il potere del Papato, tale che tutti i suoi decreti non hanno meno forza di autorità di quanto avrebbero se egli fosse un vero credente, come Báñez e Suárez spiegano adeguatamente”[1].
Questa via di mezzo, che evita i due scogli, è stata a suo tempo suggerita dal prof. Plinio Corrêa de Oliveira ai dirigenti della TFP cilena come conclusione per il libro La Chiesa del silenzio in Cile, in cui veniva denunciata la collaborazione di una parte decisiva dell’episcopato andino con la demolizione di quel paese promossa dal comunismo.
La proposta ci sembra tanto più valida oggi, in cui un gran numero di membri della gerarchia e persino il Vaticano contribuiscono a demolire non solo la proprietà privata (come nel Cile di Salvador Allende), ma anche i valori assolutamente “non negoziabili” e, soprattutto, la disciplina sacramentale della Chiesa Cattolica, così come, direttamente o indirettamente, la stessa fede cattolica e la sua morale.
La via di mezzo menzionata cercava di rispondere alla seguente domanda: “Posto il nostro atteggiamento di resistenza, e rivolgendo la nostra attenzione alla nostra vita spirituale di cattolici, siamo costretti, secondo la sana dottrina, ad andare insieme a questi Pastori e questi sacerdoti [demolitori] per ricevere dalle loro labbra gli insegnamenti della Chiesa e dalle loro mani i sacramenti?”.
A partire dal presupposto secondo il quale “affinché ci sia piena convivenza ecclesiastica è necessario che esista nei rapporti spirituali da pecora a pastore e da figlio a padre un livello minimo di fiducia e di concordia reciproche” e “data la portata e l’importanza che questi Pastori e sacerdoti danno all’azione demolitrice”, la calibrata risposta suggeriva che “nell’ordine concreto non ci sono condizioni per l’esercizio abituale di questa convivenza” senza che essa “non porti con sé rischio prossimo per la fede e grave scandalo per i buoni”. Perciò, “cessare la convivenza ecclesiastica” con tali pastori “è un diritto di coscienza dei cattolici che la giudichino dannosa per la propria fede e vita di pietà, e scandalosa per il popolo fedele” [2].
Se un qualsiasi lettore si sentisse disturbato da questa proposta – ritenendo che la sospensione della convivenza abituale con i Pastori demolitori equivalga a uno scisma, nonostante si riconosca pienamente la loro autorità e giurisdizione –, facciamo notare che questo diritto dei fedeli ingiustamente sottoposti a coazione è analogo al diritto della sposa e dei figli di un padre prevaricatore, che li aggredisce psicologicamente: senza abbandonare il focolare, essi possono legittimamente decidere di occupare le stanze più lontane della casa, al fine di proteggersi dalla sua cattiva influenza. Tale allontanamento della convivenza quotidiana e abituale non rappresenta un misconoscimento dei vincoli coniugali e filiali indissolubili, né una mancanza contro il dovere di fedeltà dovuta al coniuge o al padre. Anzi, questo allontanamento può portare il padre manchevole a fare un esame di coscienza e a convertirsi facendo sì che riprenda la convivenza familiare normale.
L’analogia non è forzata, posto che, sulla base dell’epistola di san Paolo agli Efesini ‒ “il marito infatti è capo della moglie, come anche Cristo è capo della Chiesa, lui che è il salvatore del suo corpo” (5, 23) ‒ i Padri della Chiesa e più tardi i canonisti medievali si sono serviti ampiamente della metafora del matrimonio mistico, simbolizzato dall’anello episcopale, per descrivere in modo analogico le relazioni mantenute dal vescovo con la propria diocesi[3]. Se, da un lato, la metafora insiste nel dovere di fedeltà e di sottomissione della comunità diocesana in qualità di sposa, essa valorizza, dall’altro, la posizione della donna, perché ricorda i suoi diritti e per il fatto di sottolineare i doveri dello sposo, ossia del vescovo. La metafora è valida, a fortiori, per rappresentare i rapporti fra il Papa e la tota Ecclesia.
Omnis comparatio claudicat, almeno in parte. Il legame che unisce una coppia in matrimonio è indissolubile dopo la consumazione fisica dello stesso, mentre il matrimonio mistico fra il vescovo e la sua diocesi può essere sciolto dalla rinuncia o dal trasferimento del titolare ad un’altra diocesi[4] (per la rinunzia al Papato, nel caso della Chiesa universale). Ciò non impedisce che, mutatis mutandis¸ l’analogia sia valida per la ricerca di una soluzione di autodifesa della “sposa” ‒ ossia, di una comunità diocesana o del corpo universale dei fedeli ‒ di fronte ad un esercizio abusivo di potere da parte del “sposo”.
Fatta eccezione di quanto detto, le situazioni sono analoghe ed è doveroso sottolineare che i diritti del coniuge che si vede forzato a separarsi vanno molto lontano. Il coniuge vittima di abuso ha, di fatto, il diritto di cessare completamente la convivenza, cambiando domicilio o espellendo dal domicilio familiare il coniuge manchevole. Il Codice di Diritto Canonico del 1983, ribadendo la legislazione immemoriale della Chiesa, stabilisce che i “coniugi hanno il dovere e il diritto di osservare la convivenza coniugale, eccetto che ne siano scusati da causa legittima” (c. 1151). Oltre all’adulterio non consentito né perdonato (c. 1152), si ha una causa legittima di separazione con permanenza del vincolo anche “se uno dei coniugi compromette gravemente il bene sia spirituale sia corporale dell'altro o della prole, oppure rende altrimenti troppo dura la vita comune”[5]. Tale separazione può essere richiesta dall’Ordinario “per decisione propria, se vi è pericolo nell'attesa”, con l’unica restrizione che “cessata la causa della separazione, si deve ricostituire la convivenza coniugale” (c. 1153).
Nella legislazione civile di molti paesi di tradizione cristiana esiste ancora, sulle orme del diritto canonico, l’istituzione della “separazione dei corpi” senza lo scioglimento del vincolo, il che comporta solo una distensione del legame coniugale, poiché l’unico dovere ad essere dispensato è l’obbligo della coabitazione. Tutti i restanti doveri originati dal matrimonio rimangono validi e specialmente il dovere di fedeltà all’obbligo di aiuto nella necessità.
Questa separazione totale senza lo scioglimento del vincolo, ammessa dal Diritto canonico e dalle legislazioni civili, rappresenta una soluzione più drastica di quella suggerita sopra, che consiste invece in una semplice sospensione dell’esercizio abituale della convivenza – equivalente all’abitare in stanze separate ma all’interno della stessa casa – nei confronti di Pastori il cui gregge si sente psicologicamente aggredito dal tentativo di imposizione di un inaccettabile cambiamento di paradigma nell’insegnamento, nella disciplina e nella vita della Chiesa.
È questa moderazione nella resistenza che caratterizza la nostra proposta come una “via di mezzo”, che mantiene integri i legami di fedeltà tra i fedeli e i legittimi Pastori, ma che allo stesso tempo prende le misure prudenziali necessarie per preservare l’integrità della fede e pratica la carità verso i più fragili, ad esempio i figli o i nipoti, evitando così che la convivenza abituale con prelati autodemolitori divenga per loro motivo di scandalo.”
Note
[1] Theol. Mor., libro 2, tract 1, ch. 7, p. 153. Nello stesso senso scrive il domenicano Charles Billuart, vissuto nel XVIII secolo: “Cristo, in virtù di una dispensa speciale, per il bene comune e la tranquillità della Chiesa, continua a dare giurisdizione persino a un Papa eretico, fintanto che egli non sia dichiarato manifestamente eretico dalla Chiesa” (Secunda Secundae, 4, Dissertazione sui vizi opposti alla fede, A.1).
[2] Com’è naturale, la proposta di interrompere la convivenza abituale con i Pastori demolitori non doveva essere messa in pratica in maniera universale, visto che “è nella natura di questo processo [di demolizione] che le sue peculiarità non si sviluppino in modo assolutamente simultaneo. Al contrario, esso si trova più avanti qui e più in ritardo là”. Trasposto il problema ai giorni di oggi, si direbbe che in materia di riammissione dei divorziati risposati civilmente all’Eucaristia, ad esempio, la situazione non è uguale in Germania e nella vicina Polonia o in Africa. “Bisogna considerare anche”, continuava il documento, “il caso di alcuni ecclesiastici il cui compromesso con il processo di demolizione esiste, ma a un grado circoscritto e molto tenue”. Per la combinazione di queste due circostanze, il documento concludeva che “è comprensibile che [alcuni] fedeli frequentino le chiese dei Pastori e sacerdoti che denunciamo e che altri si rifiutino di farlo e si allontanino da ogni relazione spirituale e religiosa abituale con tali ecclesiastici, anche in ciò che riguarda la vita sacramentale”.
[3] La metafora è stata utilizzata da s. Cipriano, s. Efrem, s. Ambrogio e s. Gregorio Magno. Essa è divenuta frequente fra i canonisti medievali a partire da Uguccione da Pisa, intorno al 1190. V. Laurent Fontbaustier, La déposition du Pape hérétique: Une origine du constitutionnalisme ?, Mare & Martin, Paris, 2016, pp. 53-65.
[4] Il cardinale Bernardin Gantin, Prefetto della Congregazione dei Vescovi fra il 1984 e il 1998, si espresse contro il “carrierismo” favorito dall’attuale pratica di trasferire i vescovi da una diocesi secondaria a un’altra più importante. In un’intervista al mensile 30 Giorni, dichiarò: “Sia chiaro. Quello tra vescovo e diocesi viene raffigurato anche come un matrimonio; e un matrimonio, secondo lo spirito evangelico, è indissolubile. Il nuovo vescovo non deve fare altri progetti personali. Ci possono essere motivi gravi, gravissimi, per cui l’autorità decida che il vescovo vada, per così dire, da una famiglia a un’altra. Nel fare questo l’autorità tiene presente numerosi fattori, e tra questi non vi è certo l’eventuale desiderio di un vescovo di cambiare sede” (http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350531.html).
[5] Il Codice pio-benedettino del 1917 sviluppava un poco di più le cause legittime della rottura della vita in comune: “Se uno si ascrive a sette acattoliche, educa acattolicamente la prole, vive criminosamente, mette in pericolo l’anima o il corpo del coniuge, lo sevizia, vi può essere causa di allontanamento per autorità dell’Ordinario e può farsi subito anche di propria autorità, se è certa la causa e vi è qualche pericolo” (c. 1131).
Fonte: tratto dal libro “Il Cambio di Paradigma di Papa Francesco – Continuità o rottura nella missione della Chiesa”, Istituto Plinio Correa de Oliveira, 2018.
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