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domenica 3 dicembre 2023

Onorio e la questione del Papa eretico

Continuiamo (QUI l'altro post), grazie alla Bussola, la descrizione storica di passati Papi eretici: "Dalle vicende dei papi Vigilio, Liberio e soprattutto Onorio, emerge che nel primo millennio cristiano si aveva consapevolezza della diversità tra le varie modalità di pronunciamento della Santa Sede. Una lezione sempre utile [...] È piuttosto evidente che i fedeli possano essere disorientati da eventuali insegnamenti errati del Papa, sia come persona privata, sia quando si esprime in modo non definitorio: il caso di Onorio ne è la dimostrazione. Non è dunque lecito essere accidiosi: il Magistero petrino non è stato dato alla Chiesa perché i suoi pastori e i suoi fedeli, secondo responsabilità evidentemente differenti, fossero semplici soggetti passivi dell’insegnamento del Papa. I vescovi condividono con il Papa la responsabilità verso tutta la Chiesa, e i fedeli, da parte loro, sono tenuti a comprendere il senso di quanto viene loro insegnato. Quando appare la contraddizione, tale contraddizione dev’essere risolta. Il Papa ha perciò il dovere di mostrare l’armonia del proprio insegnamento con la Rivelazione e la sacra Tradizione, alle quali egli stesso è soggetto. E dunque di dimostrare la continuità del proprio insegnamento con il Magistero che lo precede".
Luigi C.

Luisella Scrosati, La Nuova Bussola Quotidiana, 26-11-23
CATECHISMO 26_11_2023

Il Concilio di Costantinopoli III (680-681), sesto concilio ecumenico, aveva condannato definitivamente la dottrina monotelita e aveva parimenti colpito papa Onorio I (vedi qui), per la sua infelice lettera al patriarca di Costantinopoli Sergio I: «Abbiamo provveduto ad anatematizzare anche Onorio, che è stato Papa dell’antica Roma, perché, nella lettera da lui scritta a Sergio, abbiamo trovato che ha seguito in tutto la sua posizione e ha confermato i suoi empi insegnamenti».

Papa sant’Agatone (575-681) aveva mandato al Concilio una lettera dogmatica nella quale forniva l’unica interpretazione cristologica possibile sulla questione delle volontà in Cristo: la dottrina che doveva essere tenuta era quella diatelita; ma a colpire è il fatto che in questa lettera, Agatone rivendicava l’ultima parola in virtù del fatto che la Chiesa di Roma «mai si è allontanata dalla via della verità per prendere la direzione dell’errore» in virtù della promessa fatta da Cristo a Pietro che la sua fede non sarebbe mai venuta meno. Era la posizione che un secolo prima aveva contraddistinto la regula fidei di papa Ormisda (450-523), conosciuta anche come formula Hormisdæ: «Prima condizione per la salvezza è quella di custodire la norma della retta fede e non deviare in alcun modo da quanto è stato stabilito dai Padri. E non si può trascurare l'espressione del Signore nostro Gesù Cristo, che dice: “Tu sei Pietro, e su questa pietra edificherò la mia chiesa”. Questa affermazione è provata dai fatti, perché nella sede apostolica la religione cattolica è stata sempre conservata pura».

I padri conciliari non fecero una piega: nella comunicazione all’imperatore (Prosphoneticus), avevano confermato chiaramente che, in quella lettera, «Pietro ha parlato attraverso Agatone»; inoltre la lettera di Agatone venne accolta e posta come parte degli atti conciliari, quegli stessi atti che condannavano Onorio. I padri conciliari non avvertivano dunque alcun conflitto tra l’affermazione che la Sede Apostolica è la garante dell’ortodossia e l’eresia di Onorio.

Anche papa san Leone II (611-683), nella lettera all’imperatore Costantino IV, aveva confermato gli atti del Concilio e la condanna di Onorio, «che non ha cercato di santificare questa Chiesa Apostolica con l’insegnamento della tradizione apostolica, ma con profano tradimento ha permesso che la sua purezza venisse contaminata»; e lo faceva proprio in virtù dell’autorità data a Pietro e ai suoi successori di confermare o respingere degli atti conciliari.

Circa due secoli più tardi, durante il Concilio di Costantinopoli IV (869-870), di fronte ai vescovi bizantini che evocavano proprio l’errore di Onorio per contestare l’infallibilità della Sede Apostolica, papa Adriano II (792-872) faceva notare che quel fatto non metteva in discussione la potestà del romano Pontefice di essere giudice di tutti i pastori della Chiesa e di non poter essere giudicato da nessuno. Semplicemente, Onorio poté essere giudicato dopo la sua morte, perché accusato di eresia, «unica ragione per cui anche gli inferiori possono legittimamente giudicare i propri superiori, rigettando liberamente le loro pericolose opinioni». Tuttavia, Adriano subito precisava che «né i patriarchi né gli altri vescovi [avevano] diritto di emettere alcun giudizio su di lui a meno che l'autorità della stessa prima sede pontificia non ne avesse dato il consenso». Su questo scriveremo un articolo dedicato.

Non si tratta qui di venire a capo della questione se Onorio fosse stato realmente eretico: la lettera incriminata poteva in effetti essere intesa anche in modo non eterodosso; non dobbiamo infatti dimenticare che tra i grandi difensori di Onorio viene annoverato il grande flagello del monotelismo, san Massimo il Confessore (580 ca - 662); e anche papa Giovanni IV (+642). Questa è una questione fattuale, sulla quale anche il Concilio potrebbe essersi sbagliato (e ad avviso di chi scrive, si sbagliò). Il punto che a noi interessa è che tre concili ecumenici (Costantinopoli III e IV e Nicea II) e almeno due papi (Leone II e Adriano II) erano aperti alla possibilità che un Papa potesse essere eretico. La vicenda di Onorio, come anche il cedimento di papa Liberio (vedi qui) e la presunta capitolazione di papa Vigilio (qui) presentano una questione: come si può continuare ad affermare che la Sede Apostolica mai abbia deviato dalla retta fede, se alcuni papi hanno sottoscritto errori e uno di loro è stato perfino anatematizzato in un concilio ecumenico? Come si può sostenere che il successore di Pietro sia l’infallibile giudice supremo nelle questioni della fede, dal momento che alcuni papi hanno errato?

La distinzione tra la persona del Papa e il suo ufficio era allora già presente. Ma dalla vicenda di Vigilio, Liberio e soprattutto Onorio, emerge che si aveva anche consapevolezza della diversità tra le varie modalità di pronunciamento della Sede Apostolica. Sarebbe anacronistico attribuire al primo millennio della storia della Chiesa una sistematizzazione dei vari gradi di Magistero e l’assenso dovuto; tuttavia, era già piuttosto chiaro che era possibile che il Papa incorresse in errori dottrinali, senza che ciò minasse il primato della Sede Apostolica; la condanna di Onorio infatti non cambiò la percezione del primato di Pietro, così come era stata espressa da papa Agatone e, un secolo prima, dalla formula di papa Ormisda. Il Concilio di Costantinopoli IV infatti convalidava questa formula, proprio mentre condannava Onorio.

Occorrerà attendere ancora qualche secolo per trovare un primo tentativo di chiarificazione del potere di Pietro e dell’infallibilità papale. Fu il vescovo francese Guido Terreni (1270-1342), carmelitano, filosofo e canonista, conosciuto anche come Guy de Perpignan o Guidonis Terreni, ad affrontare in una quæstio disputata il tema dell’infallibilità pontificia. Secondo la sua argomentazione, la certezza del Magistero senza errori del Papa riguarda quegli insegnamenti con cui egli intende legare tutta la Chiesa ad una certa dottrina; non concerne invece il Papa come persona privata né quegli insegnamenti che non intendono definire un punto preciso di fede o di morale. La ragione di ciò è piuttosto chiara: lo Spirito Santo non può permettere che la comunità dei fedeli possa essere esplicitamente indotta all’errore mediante un atto definitorio del Papa che insegna come Pastore universale della Chiesa. Perché è proprio qui che risiede la promessa di Cristo a Pietro e ai suoi successori.

È piuttosto evidente che i fedeli possano essere disorientati da eventuali insegnamenti errati del Papa, sia come persona privata, sia quando si esprime in modo non definitorio: il caso di Onorio ne è la dimostrazione. Non è dunque lecito essere accidiosi: il Magistero petrino non è stato dato alla Chiesa perché i suoi pastori e i suoi fedeli, secondo responsabilità evidentemente differenti, fossero semplici soggetti passivi dell’insegnamento del Papa. I vescovi condividono con il Papa la responsabilità verso tutta la Chiesa, e i fedeli, da parte loro, sono tenuti a comprendere il senso di quanto viene loro insegnato. Quando appare la contraddizione, tale contraddizione dev’essere risolta. Il Papa ha perciò il dovere di mostrare l’armonia del proprio insegnamento con la Rivelazione e la sacra Tradizione, alle quali egli stesso è soggetto. E dunque di dimostrare la continuità del proprio insegnamento con il Magistero che lo precede.