CAPITALE
E LAVORO
di
don Samuele Cecotti
Pubblichiamo
questo articolo di don Samuele Cecotti, vicepresidente del nostro Osservatorio,
contenuto nel numero del “Bollettino di Dottrina sociale della Chiesa” 3/2023
ora in distribuzione dal titolo generale “L’ECONOMIA IN 10 PAROLE CHIAVE. Il
fascicolo monografico contiene dieci articoli che configurano una economia
diversa, anzi opposta, all’attuale
QUI
si può vedere il sommario del numero e trovare le indicazioni per l’acquisto (8
euro).
La questione del rapporto capitale/lavoro è centrale nel discorso socio-economico, rappresentando il nucleo costitutivo dell’impresa e dunque definendo così la tipologia, gli assetti proprietari e le forme di governo delle aziende così come i rapporti di lavoro. In ragione di ciò ne segue anche la forma della società che in molto dipende dai rapporti economici, dalla composizione delle classi sociali, dalle modalità di lavoro, dalla tipologia delle aziende.
Capitale e lavoro
nella società cristiana
Anche nella relazione
capitale/lavoro vi è un prima e un dopo la Rivoluzione francese (o forse
sarebbe meglio dire: un prima, rappresentato dalla civiltà cristiana medievale
sopravvissuta sino all’ancien régime, e un dopo, rappresentato dal mondo
riplasmato dalla rivoluzione liberale) che papa Leone XIII indica con
chiarezza: «soppresse nel passato secolo le corporazioni di arti e
mestieri, senza nulla sostituire in loro vece, nel tempo stesso che le
istituzioni e le leggi venivano allontanandosi dallo spirito cristiano, avvenne
che a poco a poco gli operai rimanessero soli ed indifesi e in balia della
cupidigia dei padroni e di una sfrenata concorrenza. Accrebbe il male una usura
divoratrice che, sebbene tante volte condannata dalla Chiesa, continua lo
stesso, sotto altro colore, per fatto di ingordi speculatori. Si aggiunga il
monopolio della produzione e del commercio, tantoché un piccolissimo numero di
straricchi hanno imposto all’infinita moltitudine dei proletari un giogo poco
men che servile»[2].
Con poche e schiette
frasi Leone XIII ha descritto la società capitalista liberale di fine Ottocento
e ne ha indicato l’origine nella distruzione rivoluzionaria delle corporazioni
e della societas christiana.
L’imporsi dell’ideologia
liberale, tanto nel mondo anglosassone quanto in Europa, significa l’imporsi
della Rivoluzione, ciò in campo economico assume la forma del
liberal-capitalismo caratterizzato da:
-
Separazione
di capitale e lavoro;
-
Primato
del capitale sul lavoro;
-
Concezione
liberale della proprietà privata;
-
Lavoro
considerato quale merce;
-
Rapporti
capitale/lavoro rimessi al mercato (legge di domanda e offerta, salario merce,
etc.) e regolati su base puramente contrattuale;
-
Mercato
come legge;
-
Economia
di scala.
Ciò significa la
devastazione, sul piano socio-economico, della societas christiana già
ferita mortalmente sul piano politico-giuridico, infatti il liberal-capitalismo
si oppone radicalmente, sin dai principi, alla visione cristiana della società
e dell’economia.
Nella comprensione
cristiana dell’economia, dei rapporti capitale/lavoro, infatti, la separazione
di capitale e lavoro non è la norma, anzi la condizione fisiologica è quella in
cui chi lavora possiede i mezzi materiali necessari al lavoro o, detto altrimenti,
chi possiede i mezzi di produzione anche lavora, ovvero impiega i propri mezzi
(i propri capitali) per compiere il proprio lavoro. È il caso dell’artigiano,
del mercante o del professionista che lavora in proprio.
Il primato è del lavoro
sul capitale stante anche la condanna della Chiesa all’usura
(significativamente Leone XIII comprende nell’usura anche l’ingorda
speculazione) ovvero il principio per cui ogni profitto viene/deve venire dal
lavoro. Il danaro è in se stesso sterile, non si produce danaro con il danaro
ma è piuttosto il lavoro a produrre beni e servizi che creano nuova ricchezza.
Dunque, il centro e motore dell’economia è/deve essere il lavoro, non il
capitale[3],
il capitale è/deve essere a servizio del lavoro e non viceversa.
Il lavoro è vocazione
originaria dell’uomo, è collaborazione all’opera del Creatore, è atto libero e
intelligente, è attività personale e mai può essere ridotto a merce.
La proprietà è dominium
responsabile conforme all’ordine naturale di giustizia regolato dalle legittime
consuetudini giuridiche e strettamente legato alla vita della famiglia e della
comunità.
I rapporti
capitale/lavoro sono regolati dall’ordine obiettivo di giustizia riconosciuto
dalla tradizione giuridica nonché dagli usi e dalle consuetudini, sono le
corporazioni, ovvero le associazioni di categoria dei lavoratori (titolari di
bottega e salariati assieme), inoltre, a definire orari di lavoro,
retribuzioni, giornate lavorative e festive, etc.
Il mercato è limitato,
per molti aspetti, entro i confini delle diverse giurisdizioni temporali e
regolato, oltre che dal diritto civile, dalla legge morale e dalle pratiche
religiose, su cui vigila la Chiesa, e dalle corporazioni.
L’economia tende ad avere
dimensioni locali anche perché i movimenti di capitali e merci sono molto
limitati. In ogni caso si dà un chiarissimo primato del diritto (civile,
ecclesiastico, corporativo) sull’economia.
Le rivoluzioni liberali
hanno spazzato via tutto ciò imponendo il nuovo modello socio-economico, quello
liberal-capitalista, reso ancor più sconvolgente dai progressi della tecnica e
dal conseguente passaggio all’economia industriale.
Come non bastassero la
rivoluzione liberale e l’imporsi del liberal-capitalismo, Leone XIII si trovò a
dover fronteggiare anche l’apparente alternativa (al liberal-capitalismo)
rappresentata dal social-comunismo. Alternativa solo apparente perché liberal-capitalismo
e social-comunismo sono in realtà accomunati dalla medesima visione di fondo
sull’uomo, la società e l’economia. Entrambe le opzioni ideologiche,
materialiste ed economicistiche, sono radicalmente inconciliabili con la societas
christiana e con la comprensione cristiana del lavoro e dell’economia.
Durissima la condanna di
Leone XIII per la falsa alternativa socialista che vuole, non già riportare
all’ordine naturale di giustizia i rapporti economici, ma piuttosto, sempre
dentro il paradigma imposto dalle rivoluzioni liberali, intende collettivizzare
la proprietà ponendo il capitale/mezzi di produzione sotto l’amministrazione
dello Stato: «Ma questa via, non che risolvere la contesa, non fa che
danneggiare gli stessi operai; ed è inoltre per molti titoli ingiusta, giacché
manomette i diritti dei legittimi proprietari, altera le competenze e gli
offici dello Stato, e scompiglia tutto l’ordine sociale»[4].
L’opera grandiosa che
Leone XIII intraprese fu, invece, quella di gettare le basi per la
restaurazione della res publica christiana e ciò anche relativamente
all’economia, ai rapporti capitale/lavoro.
Capitale e lavoro nella
Dottrina sociale della Chiesa
La Dottrina sociale della
Chiesa fa tesoro della millenaria tradizione sociale e giuridica della
Cristianità, così come della riflessione filosofico-teologica nel campo della
morale sociale. Ciò per offrire, non solo un giudizio lucido sulla condizione socio-economica
e politica, ma anche per indicare progettualmente una vera alternativa conforme
al diritto naturale illuminato dalla luce di Cristo.
Quale è dunque la lezione
della Dottrina sociale della Chiesa circa il rapporto capitale/lavoro?
Il quadro filosofico
della Dottrina sociale è quello del realismo classico-cristiano e dunque, anche
relativamente all’economia in genere e al rapporto capitale/lavoro in specie,
la dottrina parte sempre dal riconoscimento della realtà. La realtà razionalmente
considerata dice che l’uomo, chiamato a lavorare per procurare a sé e alla
propria famiglia quanto necessario e utile, abbisogna di mezzi materiali per il
lavoro. Che si tratti di agricoltura o di industria, di estrazione mineraria o
di commercio, il lavoro umano necessità di mezzi materiali per potersi dare e/o
dare con profitto. E tali mezzi materiali sono oggetto di legittima proprietà
privata, vi è cioè il proprietario dell’opificio, degli attrezzi, delle
sementi, dei macchinari, del denaro necessario ad acquistare le merci, etc.
Necessari cioè sono il lavoro e il capitale: «né il capitale può stare senza il
lavoro, né il lavoro senza il capitale»[5] perché «è del tutto falso ascrivere o al solo
capitale o al solo lavoro ciò che si ottiene con l’opera unita dell’uno e
dell’altro»[6].
Si diceva già che nella
comprensione cristiana dell’economia la fisiologia corrisponde ad una economia
di proprietari-lavoratori (coltivatori diretti, artigiani, commercianti,
esercenti, liberi professionisti) dove cioè non vi è distinzione tra capitalista
e lavoratore, dove non vi è separazione tra capitale e lavoro, dove il
proprietario del capitale aziendale è colui che lavora.
Se la fisiologia è quella
del lavoratore autonomo, di colui che lavora “in proprio”, la Dottrina sociale
non ha mai condannato in termini di principio il lavoro salariato ovvero il
lavoro dipendente e con ciò è riconosciuta, se pur non corrispondente all’ideale,
la possibilità di una separazione tra capitale e lavoro.
Vi fu nel 1949 il
tentativo da parte del Congresso cattolico di Bachum di dichiarare contrario al
diritto naturale il lavoro salariato riconoscendo come esigito dalla natura e
quindi da Dio il contractus societatis e dunque la cogestione delle
aziende. A tale documento del Katholikentag rispose papa Pio XII il 7
maggio dello stesso 1949 con un celebre discorso ai membri dell’Union
Internationale des Associations Patronales Catholiques e poi con altri due
interventi nel 1950 e nel 1952, con i quali ribadiva la legittimità del lavoro
dipendente, del contratto di lavoro e del regime salariale.
La separazione di
capitale e lavoro, il lavoro dipendente salariato, il profitto da capitale,
tutto ciò non è condannato di principio dalla Dottrina sociale a patto però di
condizioni ben precise:
- condanna dell’usura e
della speculazione;
- primato del lavoro sul
capitale[7];
- condizioni di lavoro
conformi alla dignità umana dei lavoratori;
- giusto salario;
- condanna di monopoli,
oligopoli e altre concentrazioni;
- responsabilità sociale
dell’impresa.
Vi è poi la questione non
piccola della regolazione dei rapporti capitale/lavoro nelle aziende con
personalità giuridica propria. Se infatti è sempre lecito ad un proprietario
assumere uno o più lavoratori dipendenti per farli lavorare nella propria impresa
economica, così come è sempre lecito ad uno o più lavoratori (ad esempio
riuniti in cooperativa) procurarsi il capitale, i mezzi di produzione necessari
al proprio lavoro autonomo, la questione si pone quando l’impresa non è più
intesa come l’attività economica di una o più persone fisiche ma come persona
giuridica. Il proprietario del capitale può procurarsi il lavoro così come il/i
lavoratore/i può/possono procurarsi il capitale, ma quando l’impresa è una
persona giuridica diviene necessario interrogarsi sulla realtà di tale ente
giuridico. Cos’è un’azienda in se stessa?
Nel quadro
liberal-capitalista la risposta all’interrogativo rende evidente il primato
assegnato al capitale sul lavoro. L’azienda con personalità giuridica è
considerata come una proprietà di colui/coloro che vi detengono il capitale.
Così considerata, l’azienda è però ridotta al solo capitale – può essere detta
impresa anonima di capitale – mentre invece l’azienda nasce e vive
dall’incontro collaborativo di capitale e lavoro. L’azienda non è il solo
capitale, l’azienda non è il solo lavoro, l’azienda è il consorzio di capitale
e lavoro uniti nel comune fine d’impresa[8].
Partendo dai punti fermi
della Dottrina sociale, il giurista cattolico Carlo Francesco D’Agostino[9],
con diversi suoi studi e documenti politici, indicherà la via
dell’associazionismo aziendale, ovvero la comprensione dell’azienda con
personalità giuridica come una associazione di capitale e lavoro, l’azienda non
dunque come una proprietà di solo capitale ma come una comunità di lavoro
giuridicamente regolata in forma di associazione data dall’incontro
collaborativo e stabile tra capitale e lavoro.
La proposta
associazionista di D’Agostino corrisponde alla ratio più genuina della
Dottrina sociale e rappresenta una reale alternativa al modello
liberal-capitalista riportando al centro il lavoro pur senza negare i legittimi
diritti di proprietà. Inoltre la vita d’impresa tornerebbe, come nell’ancien
régime, a darsi dentro uno schema comunitario e interclassista-corporativo,
perché tanto i portatori di capitale quanto i lavoratori tutti sarebbero
ugualmente imprenditori in quanto partecipi del rischio d’impresa, in quanto
soci di quella associazione che è l’azienda.
La proposta
associazionista di D’Agostino non è Dottrina sociale della Chiesa, ma una sua
intelligente traduzione, da parte di un giurista e politico cattolico, in un
modello societario e di regolazione del rapporto capitale/lavoro altro da
quello liberale. Così come è traduzione intelligente della Dottrina sociale
della Chiesa la proposta distributista inglese che si concentra sulla
riattivazione delle corporazioni di arti e mestieri, sulla diffusione massima
della piccola proprietà e su una economia di prossimità basata sull’artigianato
e le imprese familiari.
Associazionismo aziendale
e distributismo sono due interessanti proposte novecentesche di applicazione
della Dottrina sociale della Chiesa. In quanto proposte non sono vincolanti e
ogni cattolico è libero di acconsentirvi o di criticarle ma, che le si approvi
o le si critichi, non si può negarne il pregio di ricordarci la radicalità
della Dottrina sociale e quanto essa sia inconciliabilmente distante dal
paradigma liberal-capitalismo dentro cui viviamo.
La dottrina cattolica su
economia e lavoro, sul rapporto tra capitale e lavoro non è minimamento un
semplice correttivo estetico al liberalismo economico e mai può così essere
intesa, è radicalmente altro. Disegna un quadro economico essenzialmente alternativo
tanto a quello liberal-capitalista quanto a quello social-comunista.
Il rapporto
capitale/lavoro è inteso dalla Dottrina sociale come rapporto naturale
necessitato dalla natura stessa del lavoro umano. In quanto tale dice naturale
il consorzio tra capitale e lavoro e dunque doverosamente collaborativa e non
conflittuale la relazione tra portatori di capitale e lavoratori. Solo
dall’incontro e dalla collaborazione stabile di capitale e lavoro nasce
l’impresa economica che è per se stessa una comunità di lavoro unita dal comune
fine d’impresa.
In questa naturale
collaborazione si radica il principio corporativo tale per cui titolari
d’azienda e lavoratori dipendenti costituiscono una medesima comunità e assieme
regolano la vita socio-economica del proprio settore. Così pure il primato del
lavoro sul capitale non nega i legittimi diritti di proprietà o l’apporto
fondamentale del capitale nell’impresa ma riconosce il giusto ordine tale per
cui il capitale è per il lavoro e non il lavoro per il capitale, sono le
esigenze del lavoro a richiedere il capitale e non il capitale a servirsi del
lavoro. Il fine dell’economia non è l’accrescimento del capitale ma la
produzione di beni e servizi attraverso un lavoro dignitoso e veramente umano,
ciò a beneficio di persone e famiglie.
Tutto questo porta la
Dottrina sociale della Chiesa a indicare come da preferirsi e favorire il
lavoro autonomo dove capitale e lavoro sono congiunti. Le imprese a conduzione
familiare, l’artigianato, il piccolo commercio, l’agricoltura a conduzione diretta
sono l’espressione concreta di una economia pensata secondo la Dottrina
sociale.
Lo stesso lavoro
dipendente vissuto e regolato quanto più possibile come fosse “lavoro in
proprio”[10]. E poi
la condanna di usura e speculazione, di monopoli, oligopoli e concentrazioni di
ricchezza[11]. Una
idea collaborativa e non conflittuale dei rapporti capitale/lavoro. Una vita
economico/lavorativa a misura d’uomo.
È evidente a tutti quanto
la concezione cattolica dell’economia, dei rapporti capitale/lavoro sia
distante dalla situazione presente, dal paradigma liberal-capitalista che
domina a partire dalle rivoluzioni liberali di fine Settecento.
Don Samuele Cecotti
[1]
Leone XIII, Lett. Enc. Rerum novarum, n. 1.
[2]
Ivi, n. 2.
[3]
Nel Medioevo questa verità era sentenza comune e certa, ben la presenta Dante
nella Commedia condannando gli usurai (da intendere anche come
speculatori) all’inferno come violenti contro Dio, in quanto cercano il
profitto non nel lavoro ma nel maneggio del denaro (cfr. If, XI, 94-111): «perché
l’usuriere altra via tene,/ per sé natura e per la sua seguace/ dispregia, poi
ch’in altro pon la spene» (If XI, 109-111).
[4]
Rerum novarum, n. 3.
[5]
Ivi, n. 15.
[6]
Pio XI, Lett. Enc. Quadragesimo anno, n. 54.
[7]
« …
principio sempre insegnato dalla Chiesa. Questo è il principio della
priorità del lavoro nei confronti del capitale. Questo principio riguarda
direttamente il processo stesso di produzione, in rapporto al quale il lavoro è
sempre una causa efficiente primaria, mentre il capitale, essendo l’insieme dei
mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale»
(Giovanni Paolo II, Lett. Enc. Laborem exercens, n. 12)
[8]
«… tolto
il caso che altri lavorino intorno al proprio capitale, tanto l’opera altrui
quanto l’altrui capitale debbono associarsi in un comune consorzio […] per cui
è del tutto falso ascrivere o al solo capitale o al solo lavoro ciò che si
ottiene con l’opera unita dell’uno e dell’altro» (Quadragesimo anno, n.
54).
[9]
Cfr. C. F. D’Agostino, Associazionismo aziendale: soluzione del problema dei
rapporti tra Capitale e Lavoro in armonia con gli Insegnamenti Pontifici,
Casa Editrice L’Alleanza Italiana, Roma 1953; S. Cecotti, Associazionismo
aziendale. La regolazione secondo giustizia del rapporto capitale/lavoro
(nell’impresa economica) nel progetto sociale di Carlo Francesco D’Agostino,
Cantagalli, Siena 2013.
[10]
«Si
deve fare di tutto perché l’uomo, anche in un tale sistema, possa conservare la
consapevolezza di lavorare “in proprio”» (Laborem exercens, n. 15)
[11]
«E
in primo luogo ciò che ferisce gli occhi è che ai nostri tempi non vi è solo
concentrazione della ricchezza, ma l’accumularsi altresì di una potenza enorme,
di una dispotica padronanza dell’economia in mano di pochi, e questi sovente
neppure proprietari, ma solo depositari e amministratori del capitale […]
Questo potere diviene più che mai dispotico in quelli che, tenendo in pugno il
danaro, la fanno da padroni; […] Una tale concentrazione di forze e di potere,
che è quasi la nota specifica della economia contemporanea, è il frutto
naturale di quella sfrenata libertà di concorrenza che lascia sopravvivere solo
i più forti, cioè, spesso i più violenti nella lotta e i meno curanti della
coscienza»
(Quadragesimo anno, nn. 105, 106, 107).