Post in evidenza

“Tanti auguri di buon Natale!”

  BUON NATALE!  La Redazione

lunedì 15 maggio 2023

Giovanni Formicola: "La Dottrina Sociale della Chiesa, orizzonte della Contro-Rivoluzione per una civiltà cristiana"

Riceviamo e pubblichiamo gli appunti dell'intervento integrale dell'Avv. Giovanni Formicola al convegno a Gricigliano il 29 aprile scorso (QUI).
Luigi


Gricigliano, 29-4-2023

La Dottrina Sociale della Chiesa (DSC), orizzonte della Contro-Rivoluzione per una civiltà cristiana

1. Dottrina, corpo organico, quindi «sintetico». È parte della teologia morale (Sollicitudo rei socialis, n. 46), recta ratio agibilium, e quindi è commento ad usum societatis del decalogo, che contiene tutte le esigenze della morale naturale (in rapporto sanamente dialettico con quella strettamente rivelata o ecclesiale: l’obbligo della Messa è modo non naturale di quello naturale, cioè conoscibile dall’uomo, di dar culto a Dio), il cui soggetto è appunto la creatura societas, creatura non immediata, ma tale per la natura sociale dell’uomo, così voluto dal Creatore. Finalità mediata è la gloria di Dio, immediata è il bene comune come realtà dell’assetto sociale – che ha un paradigma trascendente, un modello nei cieli, come si esprime Platone, cioè metafisico: senza visione metafisica non può aversi DSC ma solo una relativistica e mutevole congerie di tesi, giudizi, opinioni –, che consenta a ciascuno, individui o corpi e comunità, di perseguire le proprie finalità particolari, naturali e soprannaturali, cioè la giustizia (Remota itaque iustitia, quod sunt regna, nisi magna latrocinia?), riconoscere a ciascuno il suo, cominciando da Dio.

Dunque, teologia morale, non dottrina «socialista», come troppi la intendono di fatto, per la contraffazione, soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, dei concetti e dei termini «libertà», confusa con il liberalismo; «autorità», confusa con il nazional-socialismo e la sua volgarizzazione, il fascismo; «sociale», confuso con il socialismo. Cioè, quanto a quest’ultimo, se si dice «sociale» s’intende – purtroppo anche nel mondo cattolico e fra il clero – la dimensione economica che riduce la c.d. «questione sociale» al tema dei poveri, dello sfruttamento, dei rapporti di produzione, del disagio economico e quindi della perequazione necessaria, declinata in termini di eguaglianza quantitativa, di distribuzione, e così la dottrina sociale è intesa come socialista, appunto.


2. Fonti di questa dottrina. Diversamente da quanto spesso si opina, non data al 1891, con la Rerum novarum (cupiditas), che in realtà non solo non fonda la DSC, ma si limita ad affrontare una questione particolare, quella detta «operaia», cioè dello sfruttamento della manodopera in fabbrica (e perciò sarebbe sociale), secondaria all’industrializzazione e alla conseguente urbanizzazione. E il suo magistero non datato consiste nel negare che il socialismo possa esserne una soluzione, non in alcune parti della diagnosi e della terapia (troppo affidata, questa, allo stato e ai pubblici poteri). Un po’ come deve dirsi della Immortale Dei del 1885 – che pure è sociale, sebbene non parli di poveri e operai, come la Qui pluribus, che nel 1846, due anni prima della pubblicazione del Manifesto del Partito comunista, condanna il comunismo – la cui parte perenne è quella che teorizza, e ne fa un principio sociale, l’alleanza tra Trono e Altare, e non quella che la ritiene attuata dal medioevo, il che dipende dalla informazione storica (non che non sia vero, ma è un giudizio che dipende appunto dai documenti e dalla loro lettura).

2.1. La Rivelazione, che è di necessità, quando riguarda ciò che la ragione umana mai potrebbe cogliere (p. es. la Trinità, o i sacramenti, soprattutto l’Eucaristia), o pro-memoria (Bonaventura da Bagnoregio), quando soccorre la debolezza della ragione in tutte le sue componenti post peccatum, che riceviamo soprattutto dalla Scrittura. Così, per esempio, da Genesi (cioè «fin dall’inizio», non regola positivamente imposta al reale) apprendiamo la dottrina su matrimonio, fecondità, famiglia, sul lavoro

(digressione su l’autentica DSC in materia di lavoro, da una sua fonte primaria, cioè la Scrittura: «[…] noi non abbiamo vissuto oziosamente fra voi, né abbiamo mangiato gratuitamente il pane di alcuno, ma abbiamo lavorato con fatica e sforzo notte e giorno per non essere di peso ad alcuno di voi. Non che non ne avessimo diritto, ma per darvi noi stessi come esempio da imitare. E infatti quando eravamo presso di voi, vi demmo questa regola: chi non vuol lavorare neppure mangi. Sentiamo infatti che alcuni fra di voi vivono disordinatamente, senza far nulla» [2Ts 3,7-11, ad onta d’ogni ipotesi di salario universale o reddito di cittadinanza])

e sul dominio del creato; da Esodo e Pentateuco la dottrina sulla proprietà, tutelata da ben due comandamenti su dieci, oltre che da At 5,4, episodio di Anania e Saffira; dal Vangelo, la dottrina sull’origine da Dio d’ogni autorità terrena, ma non nel senso ch’è divina in ogni sua manifestazione e quindi assoluta, ma nel senso ch’è responsabile di sé davanti a Dio, cioè soggetta alla Sua Parola e Legge, oltre che alla Sua presenza nella storia (cfr. la risposta di Gesù a Pilato, Gv 19,11, e date a Cesare e a Dio, Mt 22,21), ed è servizio e non oppressione (cfr. Mt 20,25-27), sicché il primato è della (sana) libertà, quella figlia della Verità: «tanta libertà quanto è possibile, tanto stato quanto è necessario»; la dottrina sull’eguaglianza che non è meramente quantitativa, ma contrattuale (la parabola dei braccianti – cfr. Mt 2,1-16 – ; e dei talenti – cfr. Mt 25,14-30 –, la cui lettura sociale legittima le aristocrazie in ogni ambito – spada, toga, cultura etc., sebbene debba prevalere la lettura anagogica); da s. Paolo la dottrina sull’autorità che porta la spada (Rm 13,4), cioè esercita e deve esercitare legittimamente la forza (ma non è, si ripete, un assoluto non giudicabile, cui non si può opporre resistenza, cfr. At 5,29). I temi di DSC, quando vengono svolti in forza della Scrittura, sono sempre da «rivelazione pro-memoria», mai metafisicamente necessaria, come, si diceva, la Trinità, l’Incarnazione, la Chiesa, i sacramenti, etc..

2.2. La ragione. Da cui l’enorme apporto filosofico, anche da non chierici, o chierici lato sensu – i padri della Chiesa, gli esponenti della philosophia perennis, i grandi pensatori contro-rivoluzionari, etc. –, e persino dai pagani del mondo detto classico, come il su citato Platone, o Cicerone –, soprattutto la ragione che scopre ed elabora la dottrina del diritto naturale, grammatica della vita sociale e criterio d’ogni legge positiva, ordine razionale al fine, cioè al già detto bene comune. È esso che fonda l’universalità della DSC, che ha perciò la pretesa di valere per tutti, non solo per i credenti (magari valesse almeno per loro). Si pensi ai discorsi di Ratisbona (12-9-06) sul rapporto indissolubile tra fede e ragione, con l’una che purifica l’altra e l’altra che struttura e rende comunicabile l’una («non agire secondo ragione, “σὺν λόγω”, è contrario alla natura di Dio»), ed al Bundestag (22-9-11), sul diritto che non deriva immediatamente dalla legge rivelata, ma da quella naturale, che la fede aiuta la ragione a ri-conoscere («Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, mai un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto»).

2.3. L’esperienza. La DSC anzitutto avviene. Recepito il messaggio evangelico, diventa cultura, cioè giudizio e criterio, inevitabilmente anche sociali, attesa la già ricordata natura dell’uomo che è costitutivamente in relazione, fonte di costume e regole, scritte e non scritte, che ripensano in concreto quelle vigenti (cfr. divorzio, aborto, eutanasia, libertà – relativa, ma libertà – dall’autorità, ruolo e rango dell’autorità religiosa, cioè della Chiesa, di tal che la modernità è in realtà un regresso), ma prima di scriverle e ri-scriverle, sono vissute, dando luogo alla costituzione come esistenza – oggi si dice materiale –, un fatto, prima che un testo razionalisticamente concepito, che si pretende costruttore e inventore dell’ordine sociale.

3. Il Magistero. Sintetizza nel tempo queste fonti, non crea la DSC ma la battezza (Mater et magistra, IV, 2), la qualifica (appunto morale sociale), la dichiara parte integrante della concezione cristiana (Mater et magistra, ibid.); dice sociale, cioè società, come insieme completo dei rapporti tra gli uomini in tutte le sue dimensioni, livelli e articolazioni e non ridotti a quelli economici e di lavoro, bensì anche e persino quelli culturali, estetici, artistici - «la convivenza umana […] deve essere considerata anzitutto come un fatto spirituale: quale comunicazione di conoscenze nella luce del vero; esercizio di diritti e adempimento di doveri; impulso e richiamo al bene morale; e come nobile comune godimento del bello in tutte le sue legittime espressioni; permanente disposizione ad effondere gli uni negli altri il meglio di se stessi; anelito ad una mutua e sempre più ricca assimilazione di valori spirituali: valori nei quali trovano la loro perenne vivificazione e il loro orientamento di fondo le espressioni culturali, il mondo economico, le istituzioni sociali, i movimenti e i regimi politici, gli ordinamenti giuridici e tutti gli altri elementi esteriori, in cui si articola e si esprime la convivenza nel suo evolversi incessante» (G. XXIII, Pacem in terris, I); questione sociale, quindi, come difficoltà della necessaria convivenza – cfr. Ratzinger che definisce nel 1991 l’aborto questione di morale sociale –, effetto in sé ineliminabile, ma solo arginabile, del peccato originale, e la difende, almeno da G.P. II e la sua «rivalutazione», dal tentativo di ridurla a mero insegnamento, occasionale e privo di perenne autorità dottrinale, pastoralista e non corpus, quindi «morale sociale della situazione», intesa in senso sociologico, cioè di prassi e convinzioni prevalenti e dominanti.

4. Sempre il Magistero – che in materia segue lo schema «sfida dai tempi-risposta dall’eterno», vedi per esempio la nuova frontiera bioetica, ma anche per il passato il tema dell’usura (Vix pervenit, 1745) – individua nella DSC principi di riflessione, criteri di giudizio, direttive per l’azione (Octogesima adveniens, n. 4). Cioè, non un prontuario di soluzioni specifiche e men che meno un’ideologia more geometrico pensata, o un programma politico, ma è guida alla formazione della coscienza sociale, che non è la sensibilità sentimentale verso i poveri, gli orfani, le vedove e i menomati (che, ovvio, non è un male, anzi), ma conoscere e possedere le categorie per cooperare alla costruzione di una convivenza a misura d’uomo e secondo il piano di Dio [G.P.II, 1981], per quanto possibile in hac lacrimarum valle). «Il Magistero, dunque, ci offre una maggior comprensione, quindi di uno sviluppo, un autentico progresso, che non comporta assolutamente una mutazione né del contenuto né, tanto meno, della natura del deposito. Le sollecitazioni dal tempo inducono a un costante approfondimento, quindi al suo svolgersi in chiave anche sociale, sono prodotte anche dalle difficoltà del mondo non solo contemporaneo alla Chiesa, ma con cui essa concretamente convive» (Cantoni, La dottrina sociale della Chiesa come risposta alla Rivoluzione, in Cristianità 332/2005).

«Tutti i giudizi su temi sociali, necessitati dai fatti, emessi da autorità spirituali e gerarchiche dopo la fondazione della Chiesa costituiscono espressioni della Dottrina Sociale della Chiesa, che è sollecitata a formulazioni sempre più organizzate dallo svolgimento della vita nella società in cui si trova storicamente a vivere, per esempio la società romano-germanica, che potrà essere definita cristianità» – cioè incarnazione in un corpo storico del Messaggio evangelico recepito seriamente e che così diventa cultura, cioè ancora, implantatio evangeli.

«Se l’intervento morale è suggerito dallo svolgimento sociale, è letteralmente incalzato dal tralignamento — conseguenza sub specie societatis del peccato originale — dell’ultima società cristiana in questione a partire dal Rinascimento, il mutamento “umanistico”, antropocentrico, di mentalità e lo sviluppo tecnologico medioevale; poi dalle modifiche delle strutture organizzative della società, con particolare rilievo per quelle politiche, con la Rivoluzione detta Francese; quindi dai mutamenti socio-economici introdotti dalla Rivoluzione Socialcomunista; finalmente dalla Rivoluzione Culturale in corso dal Maggio francese, dal 1968, caratterizzata dal relativismo. Il fatto è così sinteticamente descritto da Papa Giovanni Paolo II: “Purtroppo, alla metà dello scorso millennio ha avuto inizio, e dal Settecento in poi si è particolarmente sviluppato, un processo di secolarizzazione che ha preteso di escludere Dio e il cristiane-simo da tutte le espressioni della vita umana. Il punto d’arrivo di tale processo è stato spesso il laicismo e il secolarismo agnostico e ateo, cioè l’esclusione assoluta e totale di Dio e della legge morale naturale da tutti gli ambiti della vita umana. Si è relegata così la religione cristiana entro i confini della vita privata di ciascuno” (Alla Fondazione Alcide Degasperi, 2002)» (Cantoni, ibidem).

4.1. Principi di riflessione (cito Cantoni)

«I princìpi di riflessione della dottrina sociale naturale e cristiana sono costituiti dal primato della persona umana, dal principio di sussidiarietà e da quello di solidarietà.

a. Primato della persona o pre-principio personale

«Quanto all’uomo — posto che “origine e scopo essenziale della vita sociale vuol essere la conservazione, lo sviluppo e il perfezionamento della persona umana, aiutandola ad attuare rettamente le norme e i valori della religione e della cultura, segnati dal Creatore a ciascun uomo e a tutta l’umanità, sia nel suo insieme, sia nelle sue naturali ramificazioni” (Pio XII, RM 24-12-42) —, se ne afferma la naturale socialità e s’indica il fondamento della sua grandezza nell’esser stato creato a immagine e somiglianza di Dio, l’uomo è posto al centro del mondo delle creature visibili e invisibili.

b. Principio di sussidiarietà, ovvero primato logico e cronologico della libertà

«Al principio — forse meglio: al pre-principio — personale segue immediatamente quello di sussidiarietà, definito ed esposto nell’enciclica Quadragesimo anno, pubblicata da Papa Pio XI (1922-1939) nel 1931, come “importantissimo nella filosofia sociale: che siccome è illecito togliere agli individui ciò che essi possono compiere con le forze e l’industria propria per affidarlo alla comunità, così è ingiusto rimettere a una maggiore e più alta società quello che dalle minori e inferiori comunità si può fare. Ed è questo insieme un grave danno e uno sconvolgimento del retto ordine della società; perché oggetto naturale di qualsiasi intervento della società stessa è quello di aiutare in maniera suppletiva le membra del corpo sociale, non già distruggerle e assorbirle”.

«Il principio di sussidiarietà è principio formale che prevede che fra l’individuo e le massime espressioni sociali, i detentori dei poteri sociali, economici e politici permettano e favoriscano la nascita e la crescita di “corpi intermedi” o “corporazioni”, nei quali — fra l’altro — l’individuo stesso possa fruire di autentici àmbiti di libertà, cioè di libertà plurali e concrete.

«Ma, se l’esposizione del principio di sussidiarietà nel corpo dottrinale della dottrina sociale data dall’enciclica Quadragesimo anno, del 1931, un esame anche non particolarmente approfondito del-l’ascendenza di tale principio costituisce verifica importantissima della tesi secondo cui la dottrina sociale della Chiesa porta spesso a chiarezza concettuale ed espositiva, in funzione prima pedagogica e quindi normativa, princìpi impliciti nelle strutture realizzate nella Cristianità romano-germanica, quasi sottoponendo questa esperienza storica — assunta emblematicamente — al processo astrattivo e interpretativo di cui la ragione filosofica fa oggetto in modo particolare il reale creato e quella teologica tratta della Rivelazione.

«Gli àmbiti di capacità espansiva della persona, naturali oppure volontari, vanno a definire corpi intermedi appunto naturali o volontari, di cui possono costituire esempi significativi rispettivamente la famiglia e l’università. E ciascuno di questi àmbiti costituisce spazio per l’espressione di una libertà, che può essere vista come realizzazione personale di un carattere naturale dell’uomo in quanto uomo, quindi configurarsi come pretesa del suo riconoscimento da parte della società, cioè presentarsi e venire vantata come un diritto naturale, oppure come franchigia, a seconda che tale diritto sia appunto vantato nei confronti di un’espressione sociale maggiore invadente oppure fatto valere nell’incessante riannodarsi personale e generazionale del tessuto sociale attraverso l’implicito costante rinnovamento del patto sociale.

«Nell’esecuzione di quest’opera, in base al principio di sussidiarietà, l’uomo dev’esser messo in condizioni di realizzare tutte le proprie potenzialità e all’uomo si deve domandare che le realizzi prima di auspicare e di richiedere l’intervento di altri uomini a soddisfare le sue esigenze naturali — cioè derivanti dalla sua natura sociale, che lo rende strutturalmente bisognoso dell’aiuto di altri —, sia a integrare le deficienze dovute alle conseguenze del peccato originale. Questo rapporto fra il singolo e la società come insieme di altri uomini è modello anche per le relazioni fra i diversi corpi sociali intermedi, a partire dalla società matrimoniale, da quella familiare e oltre, fino alla comunità delle nazioni.

c. Principio di solidarietà o bonum commune

«Lo svolgersi della vita personale secondo il principio di sussidiarietà, cioè quasi come spontanea realizzazione di esso, trova il suo limite nello svolgimento analogo degli altri uomini, il cui interesse globale configura il bonum commune e il relativo principio di solidarietà (che è declinato solo ormai in termini economici: nessuno pensa alla solidarietà con il non ancora nato per consentirgli di nascere, impedendo l’omicidio-aborto).

«Il carattere di organicità della vita sociale, quando è messo a fuoco in un determinato tempo e in un determinato luogo, permette d’identificare la nozione di “popolo”, concettualmente — e storicamente — illuminata dal contrasto con quella di “mas-sa”: “Popolo e moltitudine amorfa o, come suol dirsi, “massa” sono due concetti diversi — afferma Papa Pio XII —. Il popolo vive e si muove per vita propria; la massa è per sé inerte, e non può essere mossa che dal di fuori. Il popolo vive della pienezza della vita degli uomini che lo compongono, ciascuno dei quali — al proprio posto e nel proprio modo — è una persona consapevole delle proprie responsabilità e delle proprie convinzioni. La massa, invece, aspetta l’impulso dal di fuori, facile trastullo nelle mani di chiunque ne sfrutti gl’istinti e le impressioni, pronta a seguire, a volta a volta, oggi questa, domani quell’altra bandiera. Dalla esuberanza di vita d’un vero popolo la vita si effonde, abbondante, ricca, nello Stato e in tutti i suoi organi, infondendo in essi, con vigore incessantemente rinnovato, la consapevolezza della propria responsabilità, il vero senso del bene comune. Della forza elementare della massa, abilmente maneggiata ed usata, può pure servirsi lo Stato: nelle mani ambiziose d’uno solo o di più, che le tendenze egoistiche abbiano artificialmente raggruppati, lo Stato stesso può, con l’appoggio della massa, ridotta a non essere più che una semplice macchina, imporre il suo arbitrio alla parte migliore del vero popolo: l’interesse comune ne resta gravemente e per lungo tempo colpito e la ferita è bene spesso difficilmente guaribile” (RM 24-12-44).

«Ancora: nell’esecuzione di quest’opera il vantaggio spirituale e materiale del singolo uomo dev’essere perseguito in armonia con il vantaggio dell’umanità come insieme di tutti gli uomini — è il principio di solidarietà —, cioè nella prospettiva del bene comune di ogni società e della società universale inteso come insieme delle condizioni che, ai diversi livelli e nelle diverse situazioni, garantiscono e favoriscono le migliori condizioni di vita di ogni singolo, quindi la realizzazione sociale della gloria di Dio.

«I princìpi evocati trovano la loro codificazione nella regolamentazione dei rapporti con Dio dell’uomo e della società che forma e di cui vive, implicito commento alla prima tavola del decalogo che appunto li prevede nei primi tre comandamenti; quindi nell’implicito commento alla seconda tavola della stessa legge, che riguarda le relazioni fra gli uomini e degli uomini con i beni». Chi invece trascuri la prima tavola, anche per quel concerne la DSC (obbligo di culto pubblico, exaltatione sanctae romanae Ecclesiae, etc.), falsifica la legge e perciò inganna: la mutila, toglie il «chiodo» che ne regge il quadro, ma soprattutto nega il diritto di Dio e i doveri del-l’uomo verso di Lui.

4.2. Criteri di giudizio (cito ancora Cantoni)

«Quanto ai rapporti con Dio delle società — con particolare riguardo alle società politiche, cioè agli stati —, l’orizzonte costituito dal primo comandamento, Non avrai altro Dio fuori di me, comporta un’accoglienza della verità della religione cristiana da parte della società» – e poiché non di solo pane vive l’uomo, ma di ogni parola che esce dalla bocca di Dio (Mt 4,4), nessuna interpretazione economicistica della vita sociale è ammissibile, e come per l’individuo, anche per la società il primato è di Dio e della religione – «in un modo quanto più possibile integrale, perciò anche la confessionalità dello Stato — cioè del profilo organizzativo della società —, con il riconoscimento della missione unica della Chiesa Cattolica» – via della grazia senza la quale non solo non è possibile la santità individuale, ma nemmeno la (relativa) santità sociale, cioè una civiltà cristiana – «è obiettivo da perseguire, naturalmente sulla base inamovibile della libertà religiosa, che esclude ogni e qualsiasi coercizione sociale e civile in materia religiosa.

«Le esigenze sociali insite nel secondo comandamento, Non nominare il nome di Dio invano, comportano che i diritti alla libertà di coscienza, d’opinione e d’espressione non esonerino dal dovere di trattare con deferente considerazione l’esperienza spirituale di quanti credono in Dio e che, offendendo pubblicamente Dio, non si commetta soltanto una grave colpa morale, ma si violi pure un preciso diritto della persona al rispetto delle proprie convinzioni religiose.

«Circa il terzo comandamento, Ricordati di santificare le feste, l’osservanza di un giorno settimanale di preghiera e di riposo, con effetto rigeneratore e tonificante sull’esistenza umana, dev’essere garantito contro l’asservimento al lavoro e il culto del denaro.

«Il quarto comandamento, Onora il padre e la madre, espresso nella forma di un dovere da compiere, è uno dei fondamenti della dottrina sociale naturale e cristiana. Infatti riguarda la famiglia, fondata sul matrimonio tra un maschio e una femmina (e basta!), monogamico e indissolubile, offeso in radice dalla permissione del divorzio, che — con l’adulterio, l’incesto, la pratica e l’ostentazione dell’omosessualità e ogni abuso sessuale — contrasta con il sesto comandamento, Non commettere atti impuri. Cellula originaria della vita sociale, la famiglia — alla quale spetta il diritto primario all’educazione dei figli e alla libera scelta della scuola — esercita a tale vita educando implicitamente all’organicità sociale, quindi sia all’uguaglianza che alla diversità fra gli uomini, sia alla gerarchia che alla fraternità sulla base della comune paternità nonché all’identificazione dei propri diritti e dei corrispondenti doveri. Inoltre della vita sociale, in ogni suo grado, è nello stesso tempo modello e modulo, sulla cui base realizzare la partecipazione alla vita politica — contrapponendo libertà a totalitarismo, e guardandosi anche dal totalitarismo democratico, cioè da una democrazia che voglia imporre i valori a maggioranza»: il totalitarismo non risponde alla domanda quanti comandano, ma quanto comandano, cioè se con o senza limiti, in basso come in alto (con Cesare c’è anche Dio, che ovviamente viene prima), un regime sanamente autoritario è un’altra cosa, se limitato — «ed esercitare l’autorità come servizio», come s’è detto.

«Il quinto comandamento, Non uccidere, rifiuta l’omicidio dell’innocente diretto e volontario, l’aborto e l’eutanasia, nonché il suicidio e quei generi di suicidi promossi fisicamente dall’assunzione di droghe, con tutta l’attività criminale che la circonda, e moralmente dagli scandali provocati, di volta in volta, da leggi o da istituzioni, dalla moda o dall’opinione pubblica. A tali scandali si affiancano la permissività dei costumi e l’intossicazione pornografica, dai quali mette in guardia anche il nono comandamento, Non desiderare la donna d’altri. Sempre al quinto comandamento rimandano il rispetto dell’integrità corporea e psichica e il divieto di ogni sperimentazione scientifica sugli esseri umani che li esponga a rischi sproporzionati o evitabili — neppure con il consenso esplicito del soggetto o dei suoi aventi diritto — nonché la condanna di rapimenti, di presa di ostaggi e di terrorismo. Nel quadro del rispetto della vita si situano lecitamente sia la legittima difesa, la cui versione macroscopica è la guerra, che la pena di morte, pratiche da scongiurare con ogni sforzo ragionevole e possibile — soprattutto a fronte delle moderne tecniche di guerra e del moderno disprezzo per la vita — ricorrendo a modalità quali la trattativa diplomatica, l’arbitrato internazionale e la carcerazione [ma non dimentichiamo che la prima vittima della pace pacifista è la giustizia, e con essa gl’inermi].

«Il settimo e il decimo comandamento, Non rubare e Non desiderare la roba d’altri», come già accennato, «fondano la liceità del diritto di proprietà privata, acquisita con il lavoro o ricevuta in eredità oppure in dono; non eliminano però l’universale destinazione dei beni, anche se la promozione del bene comune esige il rispetto della proprietà privata, del diritto a essa e del suo esercizio, e condannano ogni forma di esproprio surrettizio, quale quello fiscale. Al diritto di proprietà s’affianca quello d’iniziativa economica, nonché il rispetto dell’integrità della creazione. Comunque la vita economica dev’essere garantita dallo Stato, che deve sorvegliare e guidare l’esercizio dell’attività e dei diritti nel settore, quindi dare un solido inquadramento giuridico pure al mondo finanziario.

«Infine l’ottavo comandamento, Non dire falsa testimonianza, non riguarda solo la veridicità nella testimonianza in sede giuridica e contrattuale, ma l’informazione attraverso i mezzi di comunicazione sociale, nel suo contenuto sempre vera e — salve la giustizia e la carità — integra, e nel modo onesta e rispettosa delle leggi morali, dei legittimi diritti e della dignità dell’uomo.

4.3. Direttive per l’azione (ancora Cantoni)

«I princìpi enunciati e le determinazioni della legge naturale e cristiana costituiscono la premessa di ogni ascesi sociale, cioè di ogni opera sociale e di ogni sforzo politico teso alla realizzazione delle condizioni massimali e ottimali della convivenza a ogni livello, da quello fra famiglie a quello internazionale, a partire dalla messa in atto di ogni gesto utile allo svolgimento di tale attività, quindi alla preventiva conquista — ove necessario — e alla conservazione di una condizione di libertà, che per il cristiano coincide con la libertas Ecclesiae, ma che si rivela anche libertas hominis, grazie appunto alla relazione fra il decalogo e la “legge naturale”, per cui “fin dalle origini — come afferma sant’Ireneo —, Dio aveva radicato nel cuore degli uomini i precetti della legge naturale. Poi si limitò a richiamarli alla loro mente. Fu il Decalogo”; quindi — con altra formulazione — grazie all’interdipendenza fra i “diritti di Dio e i diritti dell’uomo”, che non solo non si escludono, ma vanno di pari passo. Perciò s’impone quella che Papa Giovanni Paolo II chiama — nell’esortazione apostolica post-sinodale Reconciliatio et paenitentia, del 1984 — la “quadruplice riconciliazione” dell’uomo “con Dio, con se stesso, con i fratelli, con tutto il creato”, nella cui prospettiva di ritorno ai princìpi si situano lo studio, la diffusione e l’applicazione della DSC, “[…] un ampio e solido corpo di dottrina riguardante le molteplici esigenze inerenti alla vita della comunità umana, ai rapporti tra individui, famiglie, gruppi nei suoi diversi àmbiti, e alla stessa costituzione di una società che voglia esser coerente con la legge morale, che è fondamento della civiltà. Alla base di questo insegnamento sociale della Chiesa si trova, ovviamente, la visione che essa trae dalla parola di Dio circa i diritti e i doveri degli individui, della famiglia e della comunità; circa il valore della libertà e le dimensioni della giustizia; circa il primato della carità; circa la dignità della persona umana e le esigenze del bene comune, al quale devono mirare la politica e la stessa economia. Su questi fondamentali princìpi del Magistero sociale, che confermano e ripropongono i dettami universali della ragione e della coscienza dei popoli, poggia in gran parte la speranza di una pacifica soluzione di tanti conflitti sociali e, in definitiva, della riconciliazione universale” (ibid.); cioè — secondo lo stesso Pontefice nella preghiera conclusiva dell’esortazione apostolica post-sinodale Christifideles laici, del 1988 — “[…] contribuire a stabilire sulla terra / la civiltà della verità e dell’amore, / secondo il desiderio di Dio / e per la sua gloria” (Ibidem).

5. La DSC è la civiltà cristiana («[…] l’ordinamento di tutte le relazioni umane, di tutte le istituzioni umane, e dello stesso stato, secondo la dottrina [sociale] della Chiesa» [RC-R, I, VII, 2. B]), che appunto ne è l’orizzonte perenne, perché mai definitivamente conseguito. Essa si rivela non perché si dia un nome, ma per il processo di storica demolizione da parte di quella che pensatori cattolici che l’hanno avversata e lo stesso Magistero hanno chiamato Rivoluzione – o anche Modernità –, con la maiuscola, perché non consiste in questo o quel rivolgimento e non è esaurita da fatti cruenti, ma anzi avanza più in modo tranquillo e silente – culturale, politico, morale – che quando erige barricate e assalta Palazzi del potere. Un «processo, implicito nel peccato originale e denunciato dal Magistero pontificio, di frequente con il termine “Rivoluzione”, talora — avendo maggiore attenzione all’esito, per altro assolutamente non definitivo, piuttosto che al modo — con “Modernità”. E hanno ben presente che, mentre “le insurrezioni sono fenomeni sociali — l’aforisma è del pensatore colombiano Nicolás Gómez Dávila —; la rivoluzione è un fenomeno religioso”» (Cantoni, ibidem). La Rivoluzione è stata in modo magistrale definita e spiegata da Plinio Correa de Oliveira nel suo capolavoro, Rivoluzione e Contro-Rivoluzione, come eco nella storia del non serviam luciferino, ribellione fondamentale e radicale a Dio per l’intronizzazione del peccato (che diventa sociale quando il governo, e soprattutto il diritto, consentono o prescrivono il male, o proibiscono ovvero anche solo ostacolano il bene, anche se per assurdo questo non si traducesse in peccati individuali: non è il male contenuto nel dispositivo del potere, ma è essa in quanto tale).

Mi piace però citare la sintesi di mons. Gaume, uomo dell’Ottocento che non ne può conoscere gli sviluppi oltre il suo tempo, ma li prefigura in radice, cioè in modo categoriale, e quindi parla con precisione anche a noi di ciò cui stiamo assistendo.

«Se, strappando la maschera alla rivoluzione, le chiederete: “Chi sei tu?”. Ella vi dirà: “Io non sono ciò che si crede. Di me parlano molti ed assai pochi mi conoscono. Io non sono né il carbonarismo che cospira nell’ombra, né la sommossa che mugghia nelle contrade, né il cambiamento della monarchia in repubblica, né la sostituzione di una ad un’altra dinastia, né il momentaneo sconvolgimento dell’ordine pubblico. Io non sono né gli urli dei Giacobini, né i furori della Montagna, né i combattimenti delle barricate, né il saccheggio, né le arsioni, né la legge agraria, né la ghigliottina, né gli affogamenti. Non sono né Marat, né Robespierre, né Babeuf, né Mazzini, né Kossuth. Costoro sono miei figli, ma essi non sono me. Codeste cose sono opere mie, ma non sono me. Codesti uomini e codeste cose sono fatti transitori, ed io sono uno stato permanente. Io sono l’odio di ogni ordine religioso e sociale che l’uomo non ha stabilito e nel quale esso non è re e Dio tutt’insieme: io sono la proclamazione dei diritti dell’uomo contro i diritti di Dio; sono la filosofia della ribellione, la politica della ribellione, la religione della ribellione: sono la negazione armata; sono la fondazione dello stato religioso e sociale sulla volontà dell’uomo in luogo della volontà di Dio; in una parola, io sono l’anarchia; perché io sono Dio spodestato, surrogato dall’uomo. Ecco il motivo per cui mi chiamo Rivoluzione, cioè sconvolgimento, perché io colloco in alto chi, secondo le leggi eterne, dovrebbe stare in basso; e metto al basso chi dovrebbe stare in alto”» (mons. Jean-Joseph Gaume).

Invece, la DSC predica – e la civiltà cristiana attua (ma sempre in modo imperfetto e periclitante) – l’intronizzazione della virtù, intesa fondamentalmente come ossequio alla volontà del Creatore come espressa nel decalogo, ovviamente a cominciare, come s’è detto più volte, dal primo comandamento, e cioè dal suo riconoscimento obbediente. Quindi, l’opposizione ad essa, la Contro-Rivoluzione, ne è il contrario, ascesi sociale per la rettificazione di ciò ch’è stato sovvertito e stravolto, angelica nell’essenza nella misura in cui la Rivoluzione è satanica, proclamando quis ut Deus? Il suo programma, il suo orizzonte, fuori da ogni ideologismo, è quindi l’attuazione della DSC, cioè la restaurazione – dal basso, cioè a partire dalla cultura, cioè dalla mentalità – di una rinnovata civiltà cristiana, che non è il tempo e il luogo che rendono deterministicamente cristiani, cioè essi salvifici (una sorta di anagrafe della santità), eliminando il male dalla storia (utopia rivoluzionaria, comunque fallimentare, perché designa il bene come male, e quel che elimina è il bene, rendendo un tempo storico, il nostro tempo storico, un inferno delle nazioni [sant’Agostino]) sia morale che materiale, che ne farebbe appunto un modo di Rivoluzione di segno contrario. Tutt’al più può limitare il male e i mali, com’è possibile in questa valle di lacrime, arginarli, e non li favorisce, ma soprattutto lo designa correttamente, e quindi mette in guardia da esso. La cristianità è un habitat che favorisce la santità, ne costituisce condizione e indicatore positivi, non causa. Essa, nella sua costituzione, come si diceva più materiale e di fatto che formale e scritta, nei suoi simboli, nel suo panorama urbano, nella sua toponomastica persino, almeno in intenzione dà gloria a Dio (la ragione stessa del creato), rispettandone il nome e la legge, così rendendo effettiva nella storia la regalità di Cristo (che non ha di per sé a che fare con la monarchia: i vari regimi, compreso uno autoritario, sono definiti dalla loro legittimità di esercizio, come stiamo per vedere, non in modo assoluto) – che sussiste anche quando non rispettata, ovviamente: «Vi è una legittimità più alta, quella che caratterizza ogni ordine di cose in cui divenga effettiva la regalità di Nostro Signore Gesù Cristo, modello e fonte della legittimità di tutte le regalità e di tutti i poteri terreni […] che si ha con la disposizione di tutte le cose secondo la dottrina [sociale] della Chiesa (RC-R, I, VIII, 2, A)» – e l’esaltazione della Chiesa. Il che – e non è certo da sottovalutare – rende migliore e più benefica la vita degli uomini in società.

Se la C-R è ascesi sociale (via), una civiltà cristiana è mistica sociale (meta: un impero sacro e cristiano), nel modo peculiare e sui generis, cioè accomodatizio, in cui si può dire santa di una realtà non personale.