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domenica 26 marzo 2023

Don CLAUDE BARTHE. "Per una rinascita del sacramento della Penitenza"

Ritorniamo alla Confessione.
I frutti del Postconcilio: "Si riferisce ai tre sondaggi, di cui si dispone in materia, il primo realizzato dall’Ifop nel 1952, il secondo da Sofres nel 1974 e l’ultimo, sempre da Sofres, nel 1983: Nel 1952, il 51% degli adulti cattolici dichiarava di confessarsi almeno una volta all’anno; di questi il 15% di coloro che potevano essere definiti penitenti frequenti si confessava una volta al mese e, tra questi, il 2% lo faceva ogni settimana. Nel 1974 solo il 29% si confessava una volta all’anno, mentre i penitenti frequenti erano praticamente scomparsi (1%). Nel 1983, gli «annuali» erano precipitati al 14%".
QUI un altro articolo sul tema.
Luigi


Una tra le conseguenze poco evidenziate del grande sconvolgimento seguito al concilio Vaticano II è il crollo nella pratica della confessione. Il fenomeno la dice lunga circa l’eliminazione del senso del peccato e più in generale circa la trasformazione del cattolicesimo, almeno per quanto riguarda la sua percezione da parte di coloro che vi aderiscono. Un ritorno sarà su questo punto tanto necessario quanto difficile per la pastorale, che dovrà attuare un’autentica riforma della Chiesa.

Breve storia della “seconda penitenza” dopo il battesimo

La proclamazione Sancta sanctis, «Le cose sante ai santi!», che si trova nel capitolo VIII delle Costituzioni apostoliche, redatte verso la fine del IV secolo, esiste oggi nella maggior parte delle liturgie orientali (ed anche nella liturgia mozarabica), per ricordare l’obbligo della purezza di coscienza nell’accostarsi alla comunione.

È certamente opportuno ricontestualizzare l’analisi di tale fenomeno nella storia di questo sacramento. Ciò mostra una tensione continua tra la necessità di una seria conversione – e quindi della verifica da parte del sacerdote, per quanto possibile, circa la veridicità della ferma intenzione (ovvero del convinto proposito di non ricadervi) per dare l’assoluzione -, da una parte, e, dall’altra, l’importanza pastorale di renderla accessibile al maggior numero di cristiani, affinché possano beneficiare di tale purificazione. Ciò si è manifestato col passaggio da una confessione rarissima al suo moltiplicarsi nel corso della vita, dalla penitenza pubblica a quella privata.

Infatti, la «seconda penitenza» (Tertulliano, De pænitentia), per venire purificati dai peccati commessi dopo il battesimo, si realizzava attraverso una gravosa penitenza pubblica, un lungo periodo d’espiazione dei peccati gravi (adulterio, omicidio, rinnegamento della fede), che terminava con una riconciliazione compiuta dal vescovo. Ma nel VI secolo i monaci irlandesi, sbarcati sul continente, vi importarono la pratica della penitenza privata, frequentemente rinnovabile, versione per laici di un’usanza monastica, con penitenze ascetiche o equivalenti (messe, ad esempio). Un movimento spirituale d’interiorizzazione della religione, in particolare negli Ordini mendicanti, rappresentò un terreno favorevole per la diffusione della confessione frequente, accompagnata per i fedeli più ferventi dalla direzione spirituale, pur consci del fatto che la comunione frequente, a quel tempo, fosse rara.

Il IV concilio Laterano, nel 1215, impose a tutti i laici, giunti all’età del giudizio o all’età della ragione (età, in cui si distingue il bene dal male), la confessione annuale e la comunione pasquale annuale, ciascuno nella propria parrocchia. Di fatto, ciò equivalse ad imporre una confessione in periodo pasquale seguita dalla comunione – atti sacramentali descritti dall’espressione «celebrare la Pasqua» -, poiché il concilio Laterano consacrava la confessione auricolare (all’orecchio del sacerdote) in luogo della confessione pubblica, che tuttavia mantenne a lungo dei sostenitori. Il concilio di Trento confermò la disciplina del Laterano IV, nel clima di contestazione del sacramento della penitenza provocato dal protestantesimo.

Dopo il concilio di Trento e fino all’inizio del XIX secolo, la lunga disputa tra rigoristi e molinisti, diffusasi in particolare in Francia ed in Italia, dimostrò ancora una volta la tensione sussistente tra questi due poli pastorali. Le massime gallicane e gianseniste prescrivevano di rinviare spesso l’assoluzione per assicurarsi che il penitente recidivo fosse pentito (dopo aver confessato i peccati gravi al confessore, il penitente doveva sforzarsi di non commetterli più e tornare dinanzi al confessore più tardi per ricevere l’assoluzione). Sant’Alfonso de’ Liguori, nel XVIII secolo, formato dai gesuiti, può essere considerato come il grande esponente della morale romana, che, senza essere lassista, si guardava da un rigorismo, tale da far rifuggire dal sacramento. Nel XIX secolo, la morale rigorista perse inoltre terreno all’interno di un vasto movimento favorevole all’ultramontanismo (ecclesiologia, liturgia, ben presto filosofia neotomista e morale). Così il Curato d’Ars, confessore per eccellenza, passò nel corso della sua carriera pastorale dalla severità alla francese al liguorismo. Benché il rinvio imposto per ottenere l’assoluzione fosse divenuto raro, ci si rifiutava tuttavia di assolvere. Si organizzavano luoghi e tempi per le confessioni, come le missioni parrocchiali ed i santuari per i pellegrinaggi.

Ma la bilancia della teologia morale, pendendo in modo diverso a seconda delle epoche e delle scuole tra l’esigenza del fermo proposito e l’accondiscendenza (per non spegnere lo stoppino ancora fumante), è stata puramente e semplicemente svuotata, poiché in virtù delle teorie permissiviste della «gradualità» per uscire dal peccato o dell’«accompagnamento» del peccatore verso questa (teorica) uscita progressiva (ad esempio dal ricorso alla contraccezione, dall’adulterio consacrato dal «risposarsi» dopo il divorzio), il fermo proposito è per definizione inesistente.

La confessione, un impegno sacerdotale un tempo considerevole

Fino al Vaticano II, nei seminari la formazione per la confessione ricopriva un posto importante. Corrispondeva all’impegno considerevole che questo sacramento rappresentava nella vita dei preti di parrocchia. Sorvolando sulle folle permanenti di penitenti nei luoghi di pellegrinaggio, come nella cappella delle confessioni a Lourdes, anche davanti ai confessionali, oggi inutilizzati, di tutte le chiese si formavano file di penitenti, dal momento stesso in cui vi si trovasse un confessore. Alla vigilia delle festività e soprattutto quando si avvicinava la Pasqua, si trascorrevano giornate intere ad ascoltare penitenti. Le missioni parrocchiali, come abbiamo detto in un precedente articolo, cominciavano con una predicazione, che invitava a «grandi riflessioni» sulla morte, sui fini ultimi, sul peccato. Poi, per giornate intere, si ascoltavano le confessioni dei parrocchiani, peraltro invitati a fare confessioni generali sull’intera loro vita[1]. In una società, in cui la stragrande maggioranza era stata catechizzata durante l’infanzia, le conversioni dei non credenti si manifestavano essenzialmente con una confessione, con cui rompevano con la loro vecchia vita[2].

Gli Anni Cinquanta del XX secolo, anni di grande turbolenza nella Chiesa, furono anche, paradossalmente, quelli caratterizzati da una pratica sacramentale più intensa. In Francia, le indagini condotte dal canonico Fernand Boulard[3] mostravano come il 43% soltanto dei Francesi celebrasse all’epoca la Pasqua, ma anche come si stesse verificando una certa ripresa, soprattutto a causa della diffusione della comunione tra coloro che, in certe regioni, vi erano rimasti refrattari. Soprattutto in quanto gli appelli di san Pio X alla comunione frequente (decreto Sacra tridentina del 20 dicembre 1905) sono stati ascoltati in modo ben più ampio grazie all’alleviamento della disciplina del digiuno eucaristico compiuto da Pio XII (non più digiuno dalla mezzanotte, bensì di tre ore per i cibi solidi e per le bevande alcooliche e di un’ora per le bevande non alcooliche[4]).

Il cataclisma

«Nella Chiesa la confessione ha rappresentato una caduta libera e senza paracadute. Questa caduta non è stata riscontrata in nessun altro ambito, né per l’Eucarestia, né per la fede», scriveva un cappellano di Azione Cattolica, superiore di un grande seminario, in un dossier apparso sul Pèlerin [Il Pellegrino-NdT] del 3 novembre 1974, citato da Guillaume Cuchet[5], secondo il quale «la crisi della confessione è uno degli aspetti più rivelatori e più sorprendenti della “crisi cattolica” degli anni 1865-1978».

Si riferisce ai tre sondaggi, di cui si dispone in materia, il primo realizzato dall’Ifop nel 1952, il secondo da Sofres nel 1974 e l’ultimo, sempre da Sofres, nel 1983: Nel 1952, il 51% degli adulti cattolici dichiarava di confessarsi almeno una volta all’anno; di questi il 15% di coloro che potevano essere definiti penitenti frequenti si confessava una volta al mese e, tra questi, il 2% lo faceva ogni settimana.
Nel 1974 solo il 29% si confessava una volta all’anno, mentre i penitenti frequenti erano praticamente scomparsi (1%).
Nel 1983, gli «annuali» erano precipitati al 14%.

Ciò ha costituito una spaccatura brutale: mentre andava esaurendosi il flusso dei penitenti ordinari, il gruppo dei penitenti frequenti, cattolici che costituivano il cuore della Chiesa, praticamente era scomparso.

La pratica delle «cerimonie penitenziali» (un certo numero delle quali seguite dalle assoluzioni collettive, che, secondo la dottrina classica, vengono riservate a situazioni di grave pericolo di morte, con la riserva di confessare in seguito i propri peccati, nel caso si riesca a scampare) ha pure contribuito a disamorare i fedeli dall’abitudine alla confessione individuale. L’Ordo pænitentiæ del 1974, poi il canone 961 hanno cercato di controllare questa evoluzione: la celebrazione penitenziale con assoluzione collettiva richiede uno stato di necessità grave, che giudica il vescovo diocesano in accordo con la Conferenza episcopale. In molti luoghi, essa è divenuta tutto quanto rimane della pratica del sacramento della penitenza.

Certo, nel suo motu proprio Misercordia Dei del 7 aprile 2002, Giovanni Paolo II ha cercato di reagire: «Il grande afflusso di penitenti non costituisce di per sé una necessità sufficiente» (n. 4). È del resto probabile che i cattolici, che hanno risposto ai sondaggi del 1974 e del 1983, ritenessero, ricorrendo a tali pratiche, di essersi confessati.

Ma se la confessione è in tal modo scomparsa dalla vita dei cattolici, la comunione s’è d’altro canto diffusa al punto che in una messa «ordinaria», nel rito di Paolo VI, la quasi totalità dei presenti si comunica, ivi comprese le cerimonie, in cui è evidente la presenza di numerosi praticanti alquanto occasionali. In realtà, il capitolo VIII d’Amoris lætitia, riguardante i divorziati «risposati», oppure il documento del 22 febbraio 2018, approvato dalla maggioranza dei vescovi tedeschi per consentire agli sposi di matrimoni confessionali misti di partecipare insieme all’Eucaristia, non fanno che seguire e consacrare quanto viene praticato tranquillamente dalla base. Il cardinale Vingt-Trois, che ha sfoggiato una critica sommessa ad Amoris lætitia, l’ha evidenziato con il proprio umorismo sarcastico: «Poiché l’Eucaristia è un pasto, bisogna pure che coloro che vi partecipano mangino».

Una risalita necessaria ed ardua, penitenziale

Eppure, v’è sempre in un certo numero di chiese, almeno nei grandi agglomerati, una presenza continua di sacerdoti, che permettono di confessarsi, a volte anche, come a Parigi a Saint-Louis-d’Antin, diversi confessori svolgono un’attività sacramentale continua. Non v’è dubbio che i «nuovi preti» stanno compiendo degli sforzi per spingere a ritrovare il cammino verso il sacramento della penitenza.

Ma il problema pastorale resta gigantesco e non cessa d’accrescersi in proporzione all’aumento dell’ignoranza catechistica dei cattolici. È necessario ricostruire la pratica sacramentale dei cattolici, che resteranno in una Chiesa numericamente alquanto ridotta. Il ritorno alla pratica del sacramento della penitenza sarà certamente una delle vie attraverso cui riedificare il popolo cristiano.

Una delle difficoltà sarà questa: potrà sembrare «rigorista» far recuperare l’abitudine di partecipare alla messa senza comunione automatica (in particolare, forse, ristabilendo un digiuno eucaristico più esigente), così come far in modo che si assicuri una sorveglianza del rito della comunione durante le cerimonie, i funerali ed i matrimoni, ciò che riunisce un gran numero di non-praticanti o di non credenti, convinti che la comunione sia un rito inevitabile alla stregua dell’aspersione della bara con acqua benedetta.

Si tratta di una vera e propria scossa elettrica, che dovrà essere prodotta con una predicazione gerarchica forte e di ampio respiro da vescovi riformatori, in modo che si possa in seguito organizzare, sul campo, una catechesi adeguata.

Don Claude Barthe


[2] Cfr, Frédéric Gugelot, La Conversion des Intellectuels au Catholicisme en France, 1885-1935 [La Conversione degli Intellettuali al Cattolicesimo in Francia, 1885-1935], C.N.R.S. Edizioni, 1998.

[3] Avviate dopo la guerra, in modo alquanto sistemativo, nelle diocesi e nelle parrocchie dal canonico Boulard, sulla base di un progetto iniziale del sociologo Gabriel Le Bras, avevano portato, dal 1947 al 1966, alla successiva pubblicazione di mappe (le «mappe Boulard). Cfr. Fernand Boulard, Matériaux pour l’histoire religieuse du peuple français, XIXe siècle-XXe siècle [Materiali per la storia religiosa del popolo francese. XIX secolo-XX secolo], 4 vol., 1982, 1987, 1993 e 2011, Presses de Sciences Po, EHESS.

[4] Successivamente, nel discorso di chiusura della terza sessione del Vaticano II, il 21 novembre 1964, Paolo VI ridusse il digiuno eucaristico ad un’ora per tutti i cibi e per tutte le bevande.

[5] Comment notre monde a cessé d’être chrétien. Anatomie d’un effondrement [Come il nostro mondo ha cessato di essere cristiano. Anatomia di un crollo], Seuil, 2018, p. 200.