Vi proponiamo – in nostra traduzione – l’articolo scritto dall’abbé Claude Barthe e pubblicato sul sito Res Novae il 1º ottobre 2022, poi riportato nella lettera numero 888 bis pubblicata da Paix Liturgique il 6 ottobre 2022, in cui con grande lucidità – ed interpretando correttamente l’adagio «Ecclesia semper reformanda» – traccia le linee-guida per una vera e necessaria riforma della Chiesa cattolica: una «riforma di rivitalizzazione dell’identità della Chiesa».
L.V.
Vaticano II, abbiamo bisogno di più Vaticano II! Ma l’elisir riformatore è ormai stantio da tempo… Riformare cosa, comunque? Il grande disegno di
Francesco, simboleggiato dalla Prædicate Evangelium, la costituzione che riforma la Curia, è tanto una riforma della Chiesa secondo lo spirito del Vaticano II quanto una riforma della Curia. C’è certamente un’ambiguità sull’oggetto, Curia, Chiesa, che viene prolungata e accresciuta dai media, ma i legami tra le due riforme non sono meno intrinseci: la riorganizzazione del governo romano ha necessariamente conseguenze su quello di tutta la Chiesa.
Lo si è visto chiaramente nelle discussioni che hanno avuto luogo durante il concistoro di fine agosto, quando è stata messa in scena una sorta di seconda e più solenne promulgazione della Costituzione Prædicate Evangelium del 19 marzo 2022. È stata presentata al Collegio cardinalizio, al quale è stata data la parola – debitamente inquadrata – per esprimere la propria approvazione. Non mancarono tuttavia i critici [1], che sottolinearono la posta in gioco ecclesiale di qualsiasi riforma dell’amministrazione centrale. Alcuni cardinali hanno sollevato la difficoltà di nominare semplici capi laici dei dicasteri. La loro richiesta, che invoca la Lumen gentium e la sacramentalità dell’episcopato, era piuttosto vaga. Per riassumere il vero problema: un certo numero di prefetti della Curia ha poteri reali di giurisdizione, soprattutto per giudicare vescovi e chierici, e anche per emettere testi, risposte e sentenze di rilevanza dottrinale. Essi ricevono questa giurisdizione per delega del Papa, ma per ottenerla devono avere una capacità intrinseca per questo tipo di atti (giudicare, insegnare), che deriva dalla loro qualità di chierici. È stato notato anche l’abuso del termine sinodalità, come una sorta di slogan che vuole esprimere un’estensione della collegialità episcopale cara al Vaticano II a tutto il popolo di Dio. Tuttavia, storicamente, ha sottolineato un cardinale orientale, il termine sinodalità è quasi l’equivalente di collegialità episcopale, perché si riferisce proprio a un certo esercizio collegiale del potere episcopale nelle Chiese orientali. Non è quindi adatto a significare una sorta di democratizzazione, che dovrebbe piuttosto essere chiamata “comunanza”.
Riforme successive in linea con il Vaticano II su una Chiesa esausta e divisa
Bisogna tener presente che il Vaticano II, in quattro anni, dal 1962 al 1965, aveva stravolto un edificio che non era solo tridentino, come spesso si dice, ma addirittura gregoriano (dalla Riforma gregoriana, nell’XI secolo). Nonostante tutte le crisi, il Grande Scisma, la Riforma protestante, la Rivoluzione, e pateticamente dall’ultima, la Chiesa ha continuato a rivendicare pienamente, come ha fatto con grande forza durante il “momento gregoriano”, il principio della sua libertà: come Sposa di Cristo, è sempre stata consapevole di essere la totalità soprannaturale del suo Corpo Mistico sulla terra. Tuttavia, il Vaticano II ha spezzato questa pienezza totale che la Chiesa pretendeva di essere: emanando un certo numero di “intuizioni” (libertà religiosa, ecumenismo, principi del dialogo interreligioso), questo Concilio ha riconosciuto l’esistenza al di fuori della Chiesa di entità soprannaturali, certo incomplete, di modi salutari, anche se carenti, di comunione con Cristo, anche se imperfetti. Di conseguenza, testi magisteriali come l’enciclica Quas Primas, sulla regalità istituzionale di Cristo, sono diventati obsoleti. Questa “apertura al mondo moderno” della società ecclesiastica, in concreto alla democrazia liberale, è avvenuta in concomitanza con il decollo della secolarizzazione di questo mondo. A meno che l’inversione ecclesiologica che si è verificata non abbia contribuito fortemente ad aumentare questa secolarizzazione. Gli uomini di Chiesa furono colti di sorpresa. Avevano fatto cento passi avanti, mentre il mondo ne aveva fatti diecimila. E il rinnovamento sembra essere stato un suicidio: tra tutte le conseguenze politiche, spirituali e disciplinari che ne sono derivate, la più eclatante è stata l’esaurimento della missione, la ragion d’essere della Chiesa di Cristo, visibile nella rarefazione dei principali lavoratori della messe, chierici e religiosi, e nel numero di convertiti e membri praticanti.
Ma, cosa ancora peggiore, il corpo non solo si stava sgretolando, ma si stava anche frantumando. Ben presto è apparso chiaro che il Concilio non era riuscito a fare quadrato attorno al suo progetto: l’opposizione della minoranza conciliare, divenuta opposizione tradizionalista energizzata dalla sua dimensione liturgica, si è rivelata impossibile da ridurre, un’opposizione le cui fila sono state ingrossate, soprattutto a partire dall’attuale pontificato, da tutto un mondo riformista o “restauratore” che, nella sostanza e a prescindere da ciò che dice, non ha mai condiviso pienamente il Vaticano II. L’unità di ciò che restava del cattolicesimo è andata in frantumi.
È quindi in questo quadro di una Chiesa in via di esaurimento e ancora più divisa che si è tentata la riforma del suo governo centrale in relazione a una concezione globale di ciò che dovrebbe essere la riforma di tutta la Chiesa, in altre parole in relazione alla comprensione del Vaticano II.
La prima volta, in risposta alla volontà conciliare, Paolo VI, con la costituzione Regimini Ecclesiae Universae, aveva profondamente ridisegnato il volto della Curia romana, creando, tra l’altro, nuovi organismi (Consigli per i Laici, per l’Unità dei Cristiani, ecc.). Il cambiamento più emblematico fu la trasformazione della Suprema Congregazione del Sant’Uffizio, responsabile della regolamentazione papale della dottrina cattolica e priva di Prefetto, riservandosi il Papa di dirigerla direttamente, in una Congregazione per la Dottrina della Fede. La costituzione Pastor Bonus di Giovanni Paolo II del 28 giugno 1988, che ha principalmente allineato il funzionamento della Curia al nuovo Codice di Diritto Canonico, non ha apportato cambiamenti fondamentali. La vera novità di questa riforma fu il rinnovamento del personale direttivo, che proveniva – come nel caso del personale liturgico – dalla maggioranza conciliare. Man mano che venivano effettuate le nomine, le Congregazioni e i Consigli diventavano più o meno progressisti o tornavano ad essere più o meno conservatori.
Oggi la Prædicate Evangelium vuole essere un’ulteriore attuazione dello “spirito del Concilio” sul governo romano, nonché un modello da seguire a tutti i livelli per promuovere una riforma veramente conciliare di tutta la Chiesa. Uno dei cambiamenti chiave è la retrocessione del Dicastero della Dottrina della Fede al secondo posto, dopo quello dell’Evangelizzazione. Ma anche in questo caso, la Curia è soprattutto nuova perché il suo personale è stato “portato agli standard bergogliani”. Quanto al progetto di compiere un decisivo salto di qualità conciliare sia in Curia che nella Chiesa nel suo complesso, l’anemia del corpo ecclesiastico e le tensioni sempre più forti che lo attraversano lo fanno apparire come un pio desiderio.
I tentativi di ripristinare l’unità perduta: un doppio fallimento
Quando la Chiesa ha raggiunto le sponde del XXI secolo, il fallimento fondamentale del Vaticano II poteva essere misurato dal punto di vista che per lei è primario, quello della missione: non solo non si convertiva più, ma il numero dei suoi fedeli, dei suoi religiosi e dei suoi sacerdoti si stava riducendo a tal punto da sembrare in via di estinzione, almeno in Occidente. Il Concilio Vaticano II, la cui ambizione era quella di adattare il messaggio alla sensibilità degli uomini del tempo e di attirarli verso una Chiesa ringiovanita, trasformata, modernizzata, non è riuscito nemmeno a interessarli.
Soprattutto, il passare del tempo ha dimostrato che dopo il Vaticano II si è verificata una spaccatura, si potrebbe dire uno scisma latente, che ha diviso la Chiesa tra due correnti composite ma chiaramente identificabili, la prima per la quale il Concilio doveva essere rivisitato o almeno contenuto, l’altra per la quale era solo un punto di partenza. Il progetto di ristabilire l’unità attorno a questo Concilio, che non pretendeva di essere il magistero infallibile, cioè non era un principio di fede in senso stretto, è stato la croce dei papi del dopo Vaticano II. Non ci sono riusciti. Sia i papi della restaurazione, Giovanni Paolo II e soprattutto Benedetto XVI, sia Francesco, il papa del progresso, non sono stati in grado di mantenerne nemmeno la finzione.
2005, il tentativo di Ratzinger: inquadrare il Concilio
Poco dopo la sua elezione, nel noto discorso alla Curia del 22 dicembre 2005, Benedetto XVI distingueva tra due interpretazioni della riforma conciliare, “l’ermeneutica della discontinuità e della rottura”, che considerava dannosa, e “l’ermeneutica della riforma o del rinnovamento nella continuità”, che approvava, volta, a suo dire, a evitare “una rottura tra la Chiesa preconciliare e la Chiesa postconciliare”. In breve, il Papa ha definito quello che in una democrazia liberale – ai cui modi di pensare la Chiesa è sempre più permeabile – chiameremmo un centro-destra, che il Papa ha legittimato, e un centro-sinistra, che ha squalificato.
Non aveva intenzione di unirsi al fronte tradizionalista che, in varia misura, rifiutava il Concilio e/o la sua liturgia. Tuttavia, a causa del suo interesse per la liturgia preconciliare, Benedetto XVI avrebbe potuto andare oltre l’ermeneutica del rinnovamento nella continuità. Il suo “restaurazionismo” avrebbe potuto diventare l’inizio di un processo di transizione, come quello avvenuto con Giovanni XXIII, ma in direzione opposta.
Tuttavia, come sappiamo, il processo è rimasto a metà strada, anche per quanto riguarda il “rinnovamento nella continuità”: non solo non ha portato a un rifiuto del Concilio, ma il restaurazionismo, il contenimento del Concilio, è stato percepito come un fallimento, un tentativo senza risultato. La Chiesa in Occidente continuava a scomparire dallo spazio sociale, il personale ecclesiastico, sacerdoti, religiosi, seminaristi continuava a diminuire e il centro romano dava l’impressione di non avere più un timoniere. Benedetto XVI divenne il bersaglio di continui attacchi da parte dei sostenitori dell’“ermeneutica della discontinuità” e si isolò nella sua pratica teologica privata, anticipando moralmente le dimissioni che infine decise di fare nel 2013.
2013, il tentativo di Bergoglio: massimizzare il Concilio
Come se fosse naturale (in realtà, dopo un’intensa preparazione elettorale), il conclave del 2013 ha tentato l’altra opzione, quella del centro-sinistra, l’opposta “ermeneutica” del Vaticano II, a cui Jorge Bergoglio aveva fatto appello. Il nuovo Papa, che in un discorso alle riviste dei gesuiti nel 2022 ha detto di lottare contro il “restaurazionismo”, che vuole “imbavagliare” il Concilio, e contro il “tradizionalismo”, che vuole evacuarlo, si è quindi messo a “buttare giù i muri”, secondo l’espressione che gli piaceva:
- quella di Humanæ vitæ e dell’insieme di testi che avevano preservato la morale coniugale dalla liberalizzazione che il Vaticano II aveva apportato all’ecclesiologia. Amoris Letitia ha dichiarato nel 2016 che le persone che vivono in pubblico adulterio possono rimanervi senza commettere peccato grave (AL 301);
- quella del Summorum Pontificum, che ha riconosciuto il diritto a quel conservatorio della Chiesa primitiva che è la liturgia antica con la sua catechesi e il suo personale clericale. Traditionis custodes, nel 2021, e Desiderio desideravi, nel 2022, hanno invalidato questo tentativo di “ritorno” e dichiarato che i nuovi libri liturgici sono l’unica espressione della lex orandi del rito romano (TC, art. 1).
Ma l’opzione Bergoglio sta fallendo come aveva fallito l’opzione Ratzinger: l’istituzione ecclesiale ha continuato a crollare e la missione a spegnersi. E se sotto Benedetto XVI la disillusione si era cristallizzata sulla mancanza di governo, è per la tracimazione di un governo confuso e dittatoriale, nonostante la parola d’ordine della sinodalità e nonostante la Prædicate Evangelium, che le critiche stanno venendo sempre più alla ribalta sotto Francesco. Inoltre, così come Benedetto XVI non ha mai corso il rischio di scendere al di sotto del Concilio, Francesco si è guardato bene dal superarlo con il rischio di far esplodere una struttura istituzionale: ad esempio, nonostante tutte le sue dichiarazioni contro il clericalismo, non ha mai messo veramente in discussione il celibato sacerdotale o aperto il sacerdozio alle donne.
Così, né il tentativo di ammorbidire il Consiglio, né quello di massimizzarlo, hanno fermato l’emorragia, che è continuata. È addirittura aumentata, nella misura in cui il polo della conservazione (ratzingeriani e tradizionalisti, per sintetizzare) si è rafforzato. In termini relativi, innanzitutto, perché cresce regolarmente, almeno attraverso l’arrivo di nuove generazioni, mentre il polo progressivo non ha trasmissione. Inoltre, poiché è diventata un po’ più omogenea, si è stretta l’alleanza tra i ratzingeriani, sostenitori dell’“ermeneutica della riforma nella continuità” e il “fronte del rifiuto”, il tradizionalismo. Quest’ultimo è più che mai presente, come dimostrano i ripetuti colpi che gli vengono inferti come se fosse il nemico per eccellenza.
Per una vera riforma
L’adagio Ecclesia semper reformanda, la Chiesa deve sempre riformarsi, risale all’inizio del XV secolo, all’epoca del Grande Scisma, quando divenne evidente a tutti la necessità di una “riforma nel capo e nelle membra”, nel papato e nell’intero corpo ecclesiale. Ma solo dopo più di un secolo questo grande desiderio del mondo cattolico si realizzò veramente, al di là della riforma sotto forma di rivolta del protestantesimo, con il Concilio di Trento.
In realtà, il tema della riforma di una Chiesa, di per sé santa ma composta da peccatori, risale all’XI secolo, a quella che gli storici hanno chiamato la riforma gregoriana – oggi si preferisce parlare di “momento gregoriano” – e il suo fermento era la vita religiosa, soprattutto quella del monachesimo di Cluny. È nell’ordine delle cose, l’obiettivo della perfezione evangelica della vita religiosa è il modello per i necessari rinnovamenti della Chiesa. Sono accompagnate e stimolate dalle riforme degli ordini religiosi (tra le tante, quella del Carmelo, nel XVI secolo), con un ritorno alle esigenze delle Beatitudini, un rinnovamento spirituale e disciplinare, un ritiro dalla corruzione del mondo peccaminoso per convertirsi e convertire (Gv 17, 16, 18).
Ma a partire dall’Illuminismo cristiano, nei Paesi germanici, in Francia e in Italia, il termine riforma cominciò a essere applicato anche a un altro progetto, quello di adattare le istituzioni ecclesiastiche al mondo circostante, che allora cominciava a sfuggire al cristianesimo.
Due tipi di riforma, d’ora in poi, si troveranno spesso in opposizione, quella tradizionale di una riforma di rivitalizzazione dell’identità della Chiesa, e quella di una riforma di adattamento della Chiesa alla nuova società in cui vive. Si tratta essenzialmente dell’idea tradizionale di riforma che si ritrova in movimenti come la rinascita degli ordini religiosi, soprattutto benedettini, nel XIX secolo dopo i tumulti rivoluzionari, la restaurazione tomistica da Leone XIII in poi, le riforme liturgiche e disciplinari di San Pio X all’inizio del XX secolo, e i tentativi di Pio XII di contenere gli sconvolgimenti dottrinali e liturgici degli anni Cinquanta. Al contrario, la nuova idea di riforma, con il suo libro programmatico, Vraie et fausse réforme dans l’Église, di Yves Congar (Cerf, 1950), si legge nella "nuova teologia" del dopoguerra, nel movimento ecumenico e, in parte, nel Movimento liturgico, e trionfa con il Vaticano II.
Un’inversione ecclesiologica
Una riforma di tipo gregoriano, con una liturgia ritrovata, una disciplina rigorosa, una formazione esigente dei candidati al sacerdozio, una statura santa e forte dei pastori, una rievangelizzazione attraverso una ricatechizzazione, va di pari passo con un’inversione ecclesiologica.
Ma non è puramente incantatorio auspicare il ritorno a una Chiesa del tipo “momento gregoriano”, quando lo stato di nostra Madre, mezzo secolo dopo il Vaticano II, e in gran parte a causa di questo Concilio, è in uno stato di massima derelizione, senza alcuna capacità di far valere le pretese “trionfalistiche” che si attribuiscono al papato dell’XI secolo?
Certamente no, se consideriamo che la forza di Dio si manifesta innanzitutto nella debolezza. La debolezza del cattolicesimo è estrema, e sembra sempre più un’anomalia rispetto alla cultura circostante. Ed è anche molto debole in ciò che, nonostante tutto, continua a fiorire in essa e che è difficile immaginare come crogiolo di un rinnovamento spirituale, catechistico, missionario e vocazionale, ma che può parteciparvi. Allo stato attuale, quello che viene chiamato il “nuovo cattolicesimo”, fatto di sacerdoti “identitari”, giovani fedeli, famiglie molto praticanti, nuove comunità e tradizionalismi di ogni tipo, rappresenta in Occidente tutto ciò che resterà in vita tra qualche anno. La sua importanza numerica è molto ridotta e ha, inoltre, le maggiori difficoltà a resistere al peso della modernità, all’impregnazione di un individualismo devastante e alla tentazione “borghese” che viene esercitata su di essa.
Quale tipo di riforma domani? “Quando sono debole, allora sono forte” (2 Cor 12, 10). E per tornare a Roma e alla sua Curia, è necessario, o addirittura possibile, che il Successore di Pietro appaia a lungo come una sorta di leader universale? In una grande “infermità”, per dirla come San Paolo, ciò che rende l’essenza dell’episcopato romano e universale, cioè il fatto di dire la fede in nome di Cristo senza possibilità di errare, può apparire come oro puro che rimane in fondo al setaccio della crisi.
Le varie "ermeneutiche" erano destinate al fallimento perché manca completamente una base chiara e definita da poter poi "interpretare". Già è difficile definire cosa sia un "Concilio pastorale" e che valore abbia, e ciò si riverbera su dei testi in sé stessi ambigui che si prestano a moltissime interpretazioni.
RispondiEliminaSegnalo un refuso: "si è stretta l’alleanza tra i razzisti" il testo originale parla di "ratzingeriani".