Per non scordare.
Luigi
Roberto de Mattei | 27 Luglio 2022
Eroi della Fede vittime della guerra che il comunismo ha condotto contro la Chiesa e i cristiani nel Novecento. Scopri di più sulla persecuzione comunista contro il Cristianesimo in questo articolo.
Gli storici concordano su questo punto: non c’è stato nella storia secolo più drammatico e cruento del Novecento. Il Novecento è stato il secolo dei totalitarismi, delle guerre mondiali, delle Rivoluzioni planetarie, dei genocidi e delle persecuzioni religiose. Tra tutte, la persecuzione più estesa e sistematica è stata quella condotta contro il cristianesimo dal comunismo, l’idea criminale per eccellenza del XX secolo.
Il Libro nero del comunismo curato da Stéphane Courtois, ha sollevato un velo sui crimini del comunismo, offrendoci una prima statistica funebre di 85 milioni di morti distribuiti tra la Rivoluzione d’Ottobre, la dittatura staliniana, la Rivoluzione cinese, la Cambogia di Pol Pot e la Cuba di Fidel Castro. Le cifre vanno in realtà più che raddoppiate se si considera che il solo comunismo cinese fece 80 milioni di morti solo nel periodo del “Grande balzo in avanti” maoista, tra il 1958 e il 1961.
La persecuzione comunista contro il Cristianesimo: le cifre dell’odio
Il vero problema però non è la quantità, ma la “qualità” ideologica del crimine. Un’analisi del fenomeno che si limiti a descrivere le conseguenze del male sul piano dei fatti, senza risalire alle sue cause ideologiche profonde rischia di rendere ancora più fitto il mistero che sembra avvolgere il comunismo.
Per svelare questo mistero bisogna partire soprattutto dal suo odio contro la religione, denunciato da Pio XI nel 1937 con la Enciclica Divini Redemptoris, in cui scrive che «per la prima volta nella storia stiamo assistendo ad una lotta freddamente voluta, e accuratamente preparata dall’uomo contro “tutto ciò che è divino” (II Thessal. II, 4)» (n.22).
I teorici del comunismo non hanno mai nascosto il loro odio verso la religione. Marx ed Engels la definiscono “oppio del popolo”; Lenin la chiama “acquavite spirituale”; Gramsci “puro narcotico per le masse popolari”. Il “socialismo scientifico” non va giudicato però nelle sue affermazioni teoriche, ma nelle sue realizzazioni pratiche, perché è nella prassi, come spiega Marx, che i filosofi dimostrano la verità del loro pensiero.
L’ateismo militante costituì, di fatto, il motore del sistema sovietico. Tutto ciò che apparteneva alla Chiesa, non solo proprietà e beni economici, ma seminari, scuole, orfanotrofi, ospedali, vennero nazionalizzati. Fu vietato l’insegnamento della religione e l’uso visibile di simboli religiosi, come icone e croci, perfino sulle tombe. Tutte le funzioni religiose e le manifestazioni pubbliche della religione, quali battesimi, matrimoni, funerali, dovevano essere prive di ogni riferimento religioso.
Cattedrali, chiese e cappelle destinate al culto furono trasformate in stalle per animali, in magazzini, in fabbriche, in sale cinematografiche. Si organizzarono “carnevali antireligiosi” nel periodo delle grandi feste liturgiche. Furono prodotti film antireligiosi e creati musei dell’ateismo, spesso nelle chiese. L’insegnamento e lo studio dell’ateismo venne reso obbligatorio nelle Università e nelle scuole di ogni ordine e grado.
La Chiesa ortodossa russa, prima del 1917 contava circa 210.000 membri del clero, tra monaci e preti diocesani. Negli anni del Terrore, dal 1917 al 1941, ne vennero fucilati circa 150.000. Dopo il crollo dell’impero, nel 1917 i cattolici erano forse 2 milioni e mezzo, i vescovi 14, i sacerdoti 1350, le chiese circa 600. Nel 1941 rimanevano aperte solo due chiese, una a Mosca e l’altra a Leningrado (appartenenti all’ambasciata francese) e vivevano nel Paese solo 1 vescovo (straniero) e 20 sacerdoti in libertà. I preti fucilati erano stati quasi 300, gli altri costretti a emigrare.
La campagna di ateizzazione proseguì, dopo la morte di Stalin (1953), sotto Kruscev e i suoi successori. Il rapporto Ilicev sull’educazione atea del novembre 1963 ribadì l’inconciliabilità di scienza e religione e la necessità di un sistema di coerente educazione scientifica atea. «Fra poco tempo – disse Kruscev – la religione finirà di esistere, la gente dimenticherà cosa è la religione ed io vi mostrerò l’ultimo sacerdote cattolico».
L’assalto alle Chiese dopo il 1945
La conferenza di Yalta sancì la spartizione dell’Europa in due zone di influenza: con il consenso dei governi occidentali, il comunismo sovietico divenne padrone assoluto dell’Europa orientale. Iniziò quindi la persecuzione contro i cristiani che vivevano nei Paesi dell’Europa orientale. Vanno ricordate le grandi figure di prelati cattolici che si opposero al comunismo in quegli anni terribili.
Uno dei primi fu l’arcivescovo uniate di Leopoli in Ucraina, Joseph Slipyi. Quando i sovietici gli offrirono di divenire patriarca ortodosso di Mosca, purché rompesse con Roma, egli preferì continuare la sua vita nei gulag dove trascorse 17 anni e poi in esilio. Con lui va ricordato il beato Alessio Zaryckji (1912-1963), di nazionalità ucraina, deportato a Karaganda in Kazakistan, dove morì martire della fede nel 1963.
Anche la Jugoslavia ebbe un suo simbolo eroico in monsignor Alòjzije Stepìnac, arcivescovo di Zagabria, arrestato il 18 settembre 1946. Era accusato di condiscendenza verso il nazismo, ma il reale movente era la lettera pastorale del 23 settembre 1945, con cui l’episcopato da lui guidato rivelava che 243 membri del clero erano stati uccisi, 169 imprigionati e 89 scomparsi. Sottoposto a processo, fu condannato a sedici anni di lavori forzati, trasferito al carcere di Lepoglava e successivamente al domicilio coatto nel suo villaggio natale di Krašić, dove rimase strettamente sorvegliato dalla polizia fino alla morte per avvelenamento nel 1960. Fu beatificato nel 1998 da Giovanni Paolo II.
In Ungheria, l’arresto del cardinale Jozsef Mindszenty, il 26 dicembre 1948, manifestò le intenzioni del regime. I comunisti lanciarono contro di lui una campagna di diffamazione analoga a quella lanciata contro Stepinac. A causa della sua eroica opposizione fu torturato per quaranta giorni consecutivi e costretto a firmare documenti di cui non conosceva il contenuto. Tutti gli ordini religiosi furono dichiarati fuorilegge (1950) e circa 10.000 religiosi furono costretti a trovare altri modi di vivere.
Nel 2009 è stato beatificato mons. Zoltan Meszlenyi, vescovo ausiliario di Esztergom, successore del cardinale Mindszenty, morto in campo di concentramento nel 1951. È il primo beato della dittatura comunista ungherese. Un altro nome celebre è quello del cardinale Josef Beran, arcivescovo di Praga, in Cecoslovacchia. Quando questi morì, nel 1969, fu segretamente fatto cardinale Stephan Trochta, che morì, a sua volta, nel 1974 dopo un brutale interrogatorio. Con lui va ricordato il beato Vasil Hopko, greco-cattolico, arrestato e torturato, e il vescovo clandestino, Jan Korec, nato nel 1923, oggi cardinale, animatore della resistenza cattolica in Slovacchia.
In Lituania, la “terra delle croci”, dal 1972, la rivista clandestina “Cronaca della Chiesa Cattolica in Lituania” ha documentato gli atti di arbitrio e di violenza commessi contro il popolo lituano. Ancora negli anni Ottanta, in Lituania, i sacerdoti venivano minacciati, picchiati, uccisi, come padre Bronius Laurinavicius e padre Juozas Zdebskis.
In Albania, preti e laici furono uccisi a migliaia dai comunisti di Enver Hoxha, passato negli anni Sessanta, dal comunismo filo-sovietico a quello cinese. I gerarchi del Partito comunista si compiacevano ad affermare che l’Albania fosse divenuta «il primo Stato ateo del mondo», come si legge nella costituzione approvata nel 1976. Tra le figure di spicco della resistenza va ricordato padre Mikel Koliqui, creato cardinale da Giovanni Paolo II nel 1994. Era stato condannato ai lavori forzati nel 1945, con l’accusa di ascoltare le radio straniere.
In Bulgaria, paese a larga maggioranza greco-ortodosso, la Chiesa ortodossa bulgara divenne nel 1950, un organismo pubblico, al servizio dello Stato. Padre Eugenio Bossilkov, oggi beato, fu arrestato, torturato, condannato a morte e gettato in una fossa comune nel 1952. In Romania, le chiese, le scuole, gli ospedali cattolici vennero chiusi o trasferiti agli ortodossi. Mons. Iuliu Hossu, nominato cardinale in pectore da Paolo VI, rifiutò di rinnegare la propria fede e morì in prigione, come il servo di Dio Anton Durcovici, vescovo di Iasi. In Moldavia, i vescovi Aron Marton di Alba Iulia e il padre Alexandru Todea, poi cardinale passarono la loro vita in prigione e agli arresti.
In Romania vi fu qualcosa peggio di Auschwitz. Nessun lager o gulag eguagliò il carcere di Pitesti, a nord di Bucarest, tra il 1949 e il 1952, vero e proprio teatro degli orrori, dove il carceriere Eugen Turcanu aveva inventato i supplizi più efferati, per rieducare i prigionieri attraverso la tortura fisica e psichica, praticata a vicenda tra i detenuti politici.
Ai seminaristi veniva infilata ogni giorno la testa in un secchio pieno di urina e di escrementi, mentre le guardie inscenavano una parodia del rito battesimale: Turcanu obbligava i seminaristi a partecipare a messe nere, che lui stesso organizzava, specialmente durante la settimana santa e il venerdì santo. L’ombra dell’imperialismo comunista, fin dagli anni Trenta, si diffuse nel mondo. Come dimenticare l’olocausto rosso in Spagna, dove il numero dei preti e dei religiosi martirizzati è stato almeno di 6.832, fra i quali 30 vescovi? La maggioranza dei martiri del XX secolo finora beatificati dalla Chiesa risale soprattutto ai primi sei mesi della guerra civile spagnola, dal luglio 1936 al gennaio 1937.
Anche l’Italia conobbe una “guerra civile” tra il 1943 e il 1945. È stata documentata la morte di 129 sacerdoti ammazzati dai partigiani comunisti tra l’8 settembre 1944 e il 18 aprile 1945. Tra questi, è stato beatificato don Francesco Bonifacio, ucciso dalle milizie di Tito nel 1946.
Il 18 gennaio 1952 Papa Pio XII nella Lettera apostolica Cupimus imprimis non esitò a paragonare la situazione dei cattolici e dell’intero popolo della Cina comunista a quella dei cristiani delle prime persecuzioni dell’epoca romana. Nel 2000 è morto il cardinale Ignatius Kung Pin-Mei, l’arcivescovo di Shangai che ha passato 30 anni nei lager, 2 agli arresti domiciliari e 13 in esilio. Accanto al suo nome va ricordato quello del servo di Dio François-Xavier Nguyen Van Thuan, vescovo di Saigon in Vietnam, imprigionato per 13 anni, dal 1975 al 1988, poi creato cardinale nel 2001.
La persecuzione incruenta in Occidente
Il comunismo è morto? I rapporti dell’Aiuto alla Chiesa che soffre documentano che la persecuzione continua da Cuba alla Corea del Nord, oltre che in Cina, dove i Laogai, inaugurati da Mao nel 1950, sono oggi ancora operanti, per annientare gli oppositori politici e fornire al regime un’enorme forza lavoro a costo zero. Non possiamo dimenticare però che accanto alla persecuzione cruenta, esiste quella incruenta, non meno feroce, che si serve del linciaggio mediatico e dell’isolamento morale. Esso fa parte della guerra culturale e psicologica del comunismo, che in Occidente ha trovato in Antonio Gramsci il suo maggiore teorico.
L’anticristianesimo di Gramsci è sofisticato ma implacabile. Compito del comunismo, per Gramsci, è portare al popolo quel secolarismo integrale, che l’illuminismo aveva riservato a ristrette élite. Sul piano sociale, questo secolarismo ateo viene attuato mediante una eliminazione di fatto del problema di Dio, realizzata, secondo le parole del comunista sardo, da una «completa laicizzazione di tutta la vita e di tutti i rapporti di costume», cioè attraverso un’assoluta secolarizzazione della vita sociale, che permetterà alla “prassi” comunista di estirpare in profondità le stesse radici sociali della religione.
Il Cristianesimo deve essere rimosso dalla memoria storica e dallo spazio pubblico, per evitare qualsiasi forma di autocomprensione cristiana della società. La nuova Europa, in cui non c’è posto né per Dio né per il Cristianesimo, realizza il piano gramsciano di secolarizzazione integrale della società. Il cuore ideologico del comunismo è il materialismo dialettico: la concezione del mondo secondo cui tutto è materia in trasformazione e la dialettica è la legge del perenne divenire.
I regimi comunisti sono caduti, ma il relativismo professato e vissuto dall’Occidente si fonda sui medesimi presupposti del materialismo e del relativismo, ovvero sulla negazione di ogni realtà spirituale e di ogni elemento stabile e permanente nell’uomo e nella società. Dobbiamo prendere atto del fatto che la profezia di Fatima, secondo cui la Russia avrebbe diffuso i suoi errori nel mondo, si è avverata. La decomposizione del comunismo ha putrefatto l’Occidente.
Il comunismo non è riuscito però a distruggere il Cristianesimo e in esso, e solo in esso, l’Europa può ancora trovare le ragioni della sua vita e della sua speranza.
Roberto de Mattei, presidente della Fondazione Lepanto, ha insegnato Storia Moderna presso le università di Cassino, Roma-La Sapienza e Europea di Roma e tra il 2003 e il 2011 è stato vice-presidente del Consiglio Nazionale delle Ricerche, con delega nel settore delle Scienze Umane.
È autore di circa trenta libri, tradotti in varie lingue, tra cui Il Concilio Vaticano II, una storia mai scritta (Lindau, Torino, 2010, Premio Acqui-Storia 2011, tradotto in otto lingue) e, recentemente, La sovranità necessaria. Riflessioni sulla crisi dello stato moderno (I libri del Borghese, 2019), La critica alla rivoluzione nel pensiero di Augusto Del Noce (Le Lettere, 2019), Love for the Papacy and Filial Resistance to the Pope in the History of the Church (Angelico Press 2019). È stato inoltre membro dei Consigli Direttivi dell’Istituto Storico Italiano per l’Età Moderna e Contemporanea e del Consiglio Direttivo della Società Geografica Italiana e membro del Board of Guarantees della Italian Academy presso la Columbia University di New York (2005-2011).