Un'affezione ai peggiori dittatori comunisti della terra.
Luigi
Settimo Cielo, 4-8-22
Cina e Russia invadono oggi la quasi totalità dei commenti sulla politica internazionale della Santa Sede, su entrambi i fronti tutt’altro che brillante.
Ma vi sono altri Paesi al mondo in cui la Chiesa cattolica vive in situazioni non meno drammatiche, di autentica persecuzione. Eppure il papa tace, come nel caso del Nicaragua. O all’opposto eccede in ossequiente loquacità, come nel caso di Cuba.
Della sua ammirazione per il regime cubano Jorge Mario Bergoglio non ha mai fatto mistero. Nella foto sopra lo si vede in posa deferente con Fidel Castro, nei quaranta minuti del colloquio che ebbe con lui durante il suo viaggio all’Avana nel 2015.
Ma anche col fratello Raúl, per decenni vero uomo forte del sistema persecutorio castrista, papa Francesco dice di coltivare “una relazione umana”. Ha tenuto a farlo sapere in un’intervista alla tv messicana Televisa, l’11 luglio scorso, un anno esatto dopo la spietata repressione in tutta l’isola della più grande protesta popolare degli ultimi trent’anni contro la dittatura.
Nell’intervista, l’elogio di Francesco per il regime castrista – “Cuba è un simbolo. Cuba è una grande storia” – ha naturalmente fatto il titolo di testa di “Granma”, il giornale ufficiale del partito comunista cubano. Ma ha suscitato un coro unanime di proteste tra gli esponenti dell’opposizione, in larga misura cattolici, in esilio e in patria, tutti profondamente feriti dalle parole del papa.
Nel 2015 papa Francesco riferì poi ai giornalisti d’aver parlato amabilmente con Fidel Castro della sua educazione in un collegio dei gesuiti e della sua amicizia con alcuni di essi. Con ciò dando ragione alla tesi critica del professor Loris Zanatta dell’università di Bologna, specialista dell’America latina, argomentata nel suo libro del 2020 dal titolo “Il populismo gesuita. Perón, Fidel, Bergoglio” e rilanciata pochi giorni fa in suo commento al vetriolo sul quotidiano argentino “La Nación”.
Ma di quel viaggio papale a Cuba del 2015 impressionarono soprattutto il totale silenzio di Francesco sulle vittime del regime castrista, sulle migliaia di cubani inghiottiti dal mare mentre cercavano di fuggire dalla tirannia, e il suo rifiuto di incontrare gli oppositori.
A uno di questi, nel 1998, quando a Cuba si era recato Giovanni Paolo II, era persino riuscito di salire all’altare a portare le offerte, durante la messa nella Plaza de la Revolución, mentre dalla piazza si levava potente e ritmato il grido: “Libertad!” e il papa scandiva tredici volte nell’omelia tale parola.
Nel 2015 niente di tutto questo. La polizia castrista ha schedato e filtrato chiunque accedeva alle messe di Francesco, all’Avana come nelle altre città, oltre che mescolarvi plotoni di occhiuti iscritti al partito. E nei nove discorsi della sua visita a Cuba Bergoglio ha pronunciato la parola “libertad” una sola volta, come per dovere d’ufficio.
Incalzato dai giornalisti sul volo ripartito da Cuba, riguardo al suo mancato incontro con i dissidenti, Francesco rispose così:
“Prima di tutto era ben chiaro che io non avrei dato alcuna udienza ai dissidenti, perché hanno chiesto udienza non soltanto loro, ma anche persone di altri settori, compresi diversi capi di Stato. No, non era prevista alcuna udienza: né con i dissidenti, né con altri. Secondo: dalla nunziatura ci sono state chiamate telefoniche ad alcune persone, che fanno parte di questo gruppo di dissidenti. Il compito del nunzio era quello di comunicare loro che con piacere, al mio arrivo alla cattedrale, avrei salutato quelli che erano lì. Ma visto che nessuno si è presentato al saluto, non so se c’erano o non c’erano”.
In realtà i dissidenti non c’erano affatto, la polizia li aveva tutti individuati e impediti.
*
Quanto al Nicaragua, la memoria torna allo scontro frontale nel 1983 tra Giovanni Paolo II e il regime rivoluzionario sandinista dell’epoca, infarcito di sacerdoti divenuti ministri, scontro culminato nelle orchestrate grida ostili della folla contro il papa, durante la messa conclusiva.
Oggi a capo del Nicaragua c’è sempre l’intramontabile Daniel Ortega, con sua vice la moglie Rosario Murillo. Ma le sorti della Chiesa cattolica si sono capovolte. Non è più a mezzo servizio del regime ad opera del suo clero militante e contro Giovanni Paolo II identificato con le potenze neocoloniali, ma è tutta quanta perseguitata e umiliata, con il solo papa Francesco decantato sfrontatamente da Ortega come “amico della rivoluzione sandinista”.
Il guaio è che Francesco non si sottrae a questa spregiudicata utilizzazione della sua persona da parte di Ortega. Non ha mai speso una parola pubblica in difesa della Chiesa nicaraguense.
Una timida protesta non del papa ma degli uffici vaticani si è levata solo quando lo scorso marzo Ortega ha espulso dal Nicaragua il nunzio pontificio, il polacco Waldemar Stanislaw Sommerga, imponendogli di lasciare immediatamente il Paese dopo la notifica del provvedimento. Alla notizia, il Vaticano ha espresso in un comunicato del 12 marzo “grande sorpresa e rammarico”.
Il guaio è che il nunzio, su mandato dal papa, aveva a lungo negoziato con Ortega senza mai ottenere nulla, alienandosi il consenso dei vescovi del Paese e in sostanza dell’intera Chiesa nicaraguense.
Non solo. Contro i vescovi più invisi al regime sono scattate persino delle minacce di morte. Al più pugnace di questi, l’ausiliare di Managua Silvio Báez, il regime mosse la falsa accusa di tramare un colpo di Stato e Ortega chiese a Francesco di richiamarlo all’ordine. Contro la sua volontà, il papa lo trasferì nel 2019 da Managua a Roma, con la promessa di assegnarli un posto nella curia vaticana. Ma non se ne fece nella e Báez vive oggi in esilio a Miami, sempre impegnato per la libertà del suo Paese.
Sta di fatto che oggi il Nicaragua è uno dei Paesi al mondo in cui la Chiesa cattolica è più perseguitata. Non si contano le uccisioni, gli arresti, gli assalti dei militari alle chiese dove gli oppositori cercano riparo. Un vescovo, Rolando Álvarez, ha intrapreso lo scorso maggio un digiuno di protesta contro la repressione.
Ai primi di luglio il regime non ha risparmiato neppure le suore di Santa Teresa di Calcutta. Ne ha ordinata l’immediata espulsione dal Paese. Il 6 luglio le prime quindici hanno varcato a piedi il confine meridionale con la Costa Rica, dove pochi giorni prima era stato in visita il segretario vaticano per i rapporti con gli Stati, Paul Richard Gallagher.
Ma nemmeno nella nota ufficiale vaticana che ha dato conto del viaggio di Gallagher, pubblicata quello stesso 6 luglio, è apparso il minimo cenno all’espulsione delle suore di Santa Teresa di Calcutta.
Sulla persecuzione in Nicaragua il silenzio della sede di Pietro è sempre più assordante.