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domenica 31 luglio 2022

Magister: " In Vaticano è gara tra chi è più filocinese. In testa c’è Sant’Egidio"

Una preoccupata analisi di Sandro Magister.
QUI la Bussola su Taiwan.
Luigi

Settimo Cielo, 14-7-22
Nella foto qui sopra, il cardinale Giuseppe Zen Zekiun alza un cartello con la richiesta di liberare il vescovo di Xuanhua Agostino Cui Tai, 72 anni, più volte finito in prigione dal 2007 per periodi più o meno lunghi, e ora di nuovo agli arresti in una località sconosciuta.
Tai non è il solo tra i vescovi della Cina finiti dietro le sbarre o agli arresti domiciliari. Il vescovo di Xinxiang Giuseppe Zhang Weizhu è stato imprigionato il 21 maggio 2021 e da allora è detenuto chissà dove. Il vescovo di Wenzhou Pietro Shao Zumin è stato arrestato lo scorso 21 aprile. Quello di Zhengding Giulio Jia Zhiguo il 15 agosto del 2020. Il vescovo ausiliare di Xiapu-Mindong Vincenzo Guo Xijin è stato sottoposto a domicilio coatto e ha dovuto dimettersi da ogni carica.

Ancor più clamorosa è la privazione della libertà inflitta al vescovo di Shanghai Taddeo Ma Daqin, destituito dalle autorità cinesi il giorno stesso della sua ordinazione episcopale nel 2012 per essersi dissociato dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, il principale strumento con cui il regime irreggimenta la Chiesa, e da allora ininterrottamente agli arresti domiciliari, nonostante l’atto pubblico di sottomissione dal lui sottoscritto nel 2015.

Per non dire della sorte toccata allo stesso cardinale Zen, vescovo di Hong Kong dal 2002 al 2009, arrestato l’11 maggio di quest’anno, rilasciato dietro pagamento di una cauzione e in attesa di processo per offesa alla sicurezza nazionale e collusione con forze straniere.

Durante il pontificato di Francesco, non una sola parola pubblica è stata mai spesa da lui o dalle autorità vaticane perché siano sciolte le restrizioni a questi vescovi, oltre che ai tanti sacerdoti e fedeli che in Cina e a Hong Kong subiscono la stessa sorte.

Eppure tra la Cina e la Santa Sede intercorre dal 22 ottobre 2018 un accordo “provvisorio e segreto” sulla nomina dei vescovi, della durata di due anni, rinnovato il 22 ottobre 2020 e ora di nuovo prossimo alla scadenza. Con papa Francesco che dice di volerlo rinnovare un’altra volta così com’è, perché “davanti a una situazione chiusa bisogna cercare la strada possibile, non ideale”.

Le clausole dell’accordo non sono pubbliche, ma da quel che s’intuisce la scelta del nuovo vescovo spetta alle autorità cinesi tramite organi similecclesiastici sotto il loro totale controllo, con la facoltà del papa di accettare o respingere il designato.

All’atto della stipula, nel 2018, la Santa Sede revocò le scomuniche a sette vescovi insediati unilateralmente dal regime, assegnando a loro le diocesi in cui risiedevano. Uno di questi, Paolo Lei Shiyin, ha celebrato con grande pompa lo scorso 29 giugno, nella cattedrale della sua diocesi di Leshan, l’anniversario della fondazione del Partito comunista cinese, esortando i suoi fedeli ad “ascoltare la parola del Partito, sentire la grazia del Partito e seguire il Partito”.

Ma in cambio la Santa Sede non ottenne alcun benevolo corrispettivo dalle autorità cinesi, per quel paio di decine di vescovi nominati da Roma ma non riconosciuti da Pechino.

Anzi, è proprio contro questi vescovi “sotterranei” che le autorità cinesi si sono particolarmente accanite, anche dopo la stipula dell’accordo. A parte il cardinale Zen, tutti i vescovi finiti agli arresti appartengono a questa categoria di resistenti.

Quanto alla nomina di nuovi vescovi approvati da entrambe le parti, che l’accordo avrebbe dovuto facilitare, il consuntivo è magrissimo. Dopo quasi quattro anni, in Cina le diocesi prive di vescovo continuano ad essere più di un terzo delle 97 del totale, per l’esattezza 36, indicate una per una da “Asia News” il 10 luglio. Le nuove nomine sono state in tutto soltanto sei: nel 2019 a Jining e a Hanzhong (ma in questi due casi i candidati erano stati già concordati anni prima, rispettivamente nel 2010 e nel 2016); nel 2020 a Qingdao e a Hongdong; nel 2021 a Pingliang e a Hankou-Wuhan.

Non stupisce, quindi, che il segretario di Stato vaticano, il cardinale Pietro Parolin, abbia auspicato che nella trattativa per il rinnovo dell’accordo si rifletta “sulla necessità di fare precisazioni o rivedere alcuni punti”.

Nell’intervista del 2 luglio a Phil Pullella della “Reuters”, papa Francesco ha sciolto un inno al cardinale Parolin, “uomo di alto livello diplomatico”. Ma andando al sodo ha detto, nella stessa intervista, che per lui “l’accordo va bene” così e spera che “a ottobre si possa rinnovare”. Ed è verosimilmente questa la consegna che ha affidato all’arcivescovo Claudio Maria Celli, capo della delegazione vaticana nei negoziati per il rinnovo dell’accordo, ricevuto in udienza due giorni dopo. Da Pechino, il 6 luglio, il portavoce del ministero degli esteri Zhao Lijian ha assicurato che anche per la Cina l’accordo si è rivelato “un successo”.

“Si va lento, come dico io, ‘alla cinese’ – ha chiosato il papa –, perché i cinesi hanno quel senso del tempo che nessuno li affretta”.

INTANTO A HONG KONG

Intanto, però, a Hong Kong si sono fatte sempre più incalzanti le misure di privazione delle libertà, a 25 anni dal ritorno della città alla madre patria.

Il nuovo capo esecutivo di questa “zona ad amministrazione speciale”, John Lee, eletto lo scorso 8 maggio dal 99 per cento dei membri del comitato elettorale controllato da Pechino, è cattolico e ha studiato in una scuola cattolica, come già la sua predecessore Carrie Lam. Ma è stato anche il capo del dipartimento per la sicurezza che nel 2019 ha pesantemente soppresso le proteste popolari per la libertà, anche le più pacifiche, che avevano tra i loro animatori personalità cattoliche di grande rilievo.

Lo scorso 16 aprile cinque di questi eminenti cattolici furono condannati e messi in prigione. “Sono i ‘confessori’, i profeti dei nostri giorni”, scrisse di loro il missionario italiano Gianni Criveller, che li conosceva di persona.

Poi, l’11 maggio, fu la volta del cardinale Zen, 90 anni, altro indomito “confessore” della fede e della libertà, oltre che critico severo dell’accordo tra il Vaticano e la Cina.

Alla notizia del suo arresto seguì il totale silenzio di Francesco, che già si era mostrato spietato con Zen rifiutando di riceverlo quando da Hong Kong il cardinale si era recato a Roma nel settembre del 2020, bussando invano per quattro giorni alla porta del papa.

Il cardinale Parolin si è detto “molto dispiaciuto” e ha espresso la sua “vicinanza” al cardinale “che è stato liberato e trattato bene”. Ma soprattutto si è premurato di assicurare che il suo arresto non andava letto come “una sconfessione” dell’accordo con la Cina.

Ma che “Hong Kong non è più oggi la grande testa di ponte cattolica che è stata” in passato, per la missione della Chiesa nella Cina continentale, è ormai un dato di fatto accettato anche dai diplomatici vaticani operanti nella città.

È quanto ha spiegato uno di questi diplomatici, il messicano Javier Herrera Corona, in una serie di quattro colloqui a porte chiuse tra l’ottobre del 2021 e la primavera di quest’anno con missionari cattolici della città, riferiti il 5 luglio in un servizio esclusivo della “Reuters” sulla base dei resoconti di alcuni dei presenti, non smentiti né dal Vaticano né dalla diocesi di Hong Kong.

L’arcivescovo Herrera Corona è stato nominato il 5 febbraio di quest’anno nunzio in Congo e Gabon, ma è stato dal 2016 uno dei due diplomatici vaticani, dal 2020 con il ruolo di capomissione, della cosiddetta “missione di studio” a Hong Kong, formalmente collegata alla nunziatura delle Filippine ma di fatto stabilmente presente nella metropoli cinese.

Non si ha notizia che Herrera Corona sia stato sostituito. Sul posto è rimasto il numero due della missione, qualificato come “segretario”, Alvaro Ernesto Izurieta y Sea, argentino dell’arcidiocesi di Buenos Aires, a Hong Kong dal 2020.

Ai suoi interlocutori, Herrera Corona ha prospettato un futuro per Hong Kong segnato da una limitazione sempre più forte delle libertà civili e religiose, al pari di quanto già avviene in Cina. Una stretta alla quale alcuni istituti missionari si preparano trasferendo all’estero le documentazioni riservate in loro possesso, specie quelle riguardanti i rapporti con i cinesi del continente.

Uno studio curato da Chen Jingguo della governativa Accademia delle scienze sociali e da Zhang Bin dell’università di Jinan, citato da Herrera Corona come prova del suo allarme, individua proprio nei cattolici di Hong Kong, e in particolare nel cardinale Zen, gli avversari più risoluti e influenti alla stretta operata dal regime, e quindi i primi da colpire.

L’EMINENZA GRIGIA

Eppure, nonostante tutto, papa Francesco non si trova solo nel difendere a ogni costo la sua politica di “appeasement” con la Cina.

Se in segreteria di Stato qualche dubbio sulla bontà dell’accordo del 2018 timidamente trapela, a lato della diplomazia vaticana e in concorrenza con la stessa c’è chi lo sostiene con determinazione sfrenata.

A esercitare questa spinta marcatamente filocinese c’è una lobby e c’è un esperto. La lobby è la Comunità di Sant’Egidio e l’esperto è il professor Agostino Giovagnoli.

Giovagnoli è da decenni eminenza grigia della Comunità, in anni lontani in temporanea rivalità con l’onnipotente fondatore Andrea Riccardi ma poi rappacificato. Abita a Roma, è sposato con la pedagogista Milena Santerini e assieme sono vicepresidi del Pontificio istituto Giovanni Paolo II per il matrimonio e la famiglia. Insegna storia contemporanea all’Università Cattolica di Milano ed è il commentatore principe delle questioni tra il Vaticano e la Cina – oltre che di geopolitica a più ampio raggio – per il quotidiano della conferenza episcopale italiana “Avvenire”.

La competenza che gli è riconosciuta sulla Cina è legata anche al fatto che Giovagnoli è membro del comitato scientifico dell’Istituto Confucio dell’Università Cattolica di Milano, uno dei numerosi Istituti Confucio promossi da Pechino in tutto il mondo per la diffusione della lingua e della cultura cinese.

Dirigono questo Istituto la cinese Liang Qing e l’italiana Elisa Giunipero, docente di storia della Cina contemporanea all’Università Cattolica di Milano e anch’essa vicina alla Comunità di Sant’Egidio, autrice di numerosi libri tra i quali uno curato assieme a Giovagnoli e dedicato proprio a “L’accordo tra Santa Sede e Cina. I cattolici cinesi tra passato e futuro”.

Come è noto, il cardinale attualmente in testa alla classifica degli ipotetici successori di papa Francesco è l’arcivescovo di Bologna e presidente della conferenza episcopale italiana Matteo Zuppi, anche lui membro storico della Comunità di Sant’Egidio.

Tra i cardinali c’è chi conosce talmente bene la Comunità da avvertire che eleggendo Zuppi il vero papa sarà Riccardi.

E perché no? Con Giovagnoli segretario di Stato.