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lunedì 20 giugno 2022

Don Claude Barthe, "Se il Papa tace, che parlino i vescovi!"

Ottima analisi dell'amico don Barthe.
Luigi

12 Giugno 2022, Korazym.org

di Don Claude Barthe

74 vescovi, tra cui quattro cardinali, hanno indirizzato una lettera, lo scorso 14 aprile, ai loro confratelli tedeschi in merito ai rischi di scisma che comportava il processo detto di «Cammino sinodale» [1]. Questo intervento rappresenta in sé un evento considerevole: dei vescovi prendono, essi stessi, l’iniziativa d’esercitare la propria sollecitudine di Successori degli Apostoli su di una parte della Chiesa universale incancrenitasi su gravi errori dottrinali, senza riferirne prima al Papa. Questo in sé è assolutamente possibile, avendo poi il Papa piena libertà d’intervenire, approvare, invalidare, ma tale processo è del tutto inedito nella Chiesa post-Vaticano II: questi vescovi parlano, di fatto, perché il Papa tace.
Paradossalmente, il Vaticano II, che si diceva dovesse essere il Concilio dei vescovi, destinato a ristabilire l’equilibrio alterato dal Vaticano I, Concilio del Papa, non ha fatto altro che instaurare una nuova forma di centralizzazione, il vescovo conciliare racchiuso in una rete ideologica, ritrovatosi molto più dipendente da Roma di quanto non fosse un tempo.

I piccoli vescovi del Vaticano II

In un articolo dell’ottobre 2019, «Dove sono i Successori degli Apostoli?» [2], abbiamo osservato come i vescovi d’oggi si ritrovino in maggioranza, all’interno di una Chiesa in crisi gravissima, di fronte ad un consenso debole, mentre hanno nella loro stessa essenza di pastori e dottori tutto ciò ch’è necessario per «gettare il fuoco sulla terra», in particolare per infiammare la Chiesa dell’amore di Dio e della sua verità.
Il consenso ideologico viene sancito a tre livelli: al vertice, il Sinodo dei Vescovi, puramente consultivo, che funziona tramite la riunione di assemblee periodiche, le quali, in modo molto moderno, mirano di fatto a stabilire – come, del resto, aveva fatto l’ultimo concilio – accordi di compromesso, conclusisi per lungo tempo in un senso favorevole all’«ermeneutica del rinnovamento nella continuità» ed oggi nel senso del «progresso». Le esortazioni apostoliche, basate sui lavori di tali assemblee – per quanto buone siano state alcune di queste -, non esprimono un magistero di chiarificazione del Credo, bensì un insegnamento, che richiede un’adesione inferiore all’adesione della fede e che può pertanto esser sempre corretta, come si è potuto vedere.
Alla base, vi sono le conferenze episcopali, che tramite decisioni e prese di posizione maggioritarie, di cui si prende grande cura di presentarle come praticamente unanimi, come in effetti avviene, legano ancor più saldamente le importanti iniziative personali, che potrebbero essere assunte dai pastori diocesani.
Infine, nella sua stessa diocesi, il vescovo si prende certamente una sorta di rivincita, nella misura in cui l’indipendenza dei suoi parroci è stata considerevolmente intaccata (non sono più parroci inamovibili, si dimettono a 75 anni e sono circondati, addirittura rimpiazzati da équipe di laici). Il vescovo non è però un imperatore nel proprio regno: egli dipende di fatto dai collaboratori e dai consigli, che riflettono le tendenze dominanti nell’episcopato nazionale.

E poi le parole d’ordine, ieri collegialità, oggi sinodalità, in nulla cambiano il fatto che la centralizzazione istituzionale non sia mai stata così forte. Praticamente senza eccezioni, i vescovi di rito latino vengono oggi nominati dal Papa, che non esita, assorbito qualsiasi scrupolo sinodale, ad obbligare i contestatori a dimettersi, come ad esempio i Vescovi di Albenga, San Luis, San Rafael,…

Uno degli elementi principali di questo sovrappiù di centralizzazione si trova nella decisione assunta da Paolo VI di costringere i vescovi diocesani a presentare le proprie dimissioni a 75 anni [3] (il Papa si riserva il diritto di accettare o di prolungare il loro mandato). Tale disposizione, passata nel canone 401, dà al potere romano una possibilità di rinnovare gli episcopati, che non ha mai avuto in questa misura. Certo, è sempre stato possibile che un vescovo, compreso quello di Roma, rinunciasse liberamente al proprio ufficio o ancora che il Papa glielo chiedesse per gravi motivi. Se il vescovo avesse opposto resistenza, è capitato anche che il Papa lo dimettesse: così procedette Pio VII con i vescovi francesi, che non vollero liberamente rinunciare al loro incarico dopo il Concordato sottoscritto nel 1801 con Bonaparte. Ma d’ora in poi, dopo il 1966, il diritto canonico – dunque il Papa – obbliga ogni vescovo a dimettersi a 75 anni.

Questa misura è d’altronde talmente straordinaria che la sua redazione legislativa par esitare: «Il vescovo diocesano, che ha compiuto 65 anni, viene pregato – rogatur – di presentare la rinuncia al suo ufficio», dice il canone. Che accadrebbe qualora egli restasse sordo a questa «preghiera»? Nei fatti è rarissimo che dei vescovi conservino forze sufficienti – questo è stato nondimeno il caso dell’Arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Bergoglio – per tralasciare di presentare le proprie dimissioni al sopraggiungere dell’anniversario-ghigliottina. Ci si può chiedere se questa nuova regola, che non era mai esistita [4], sia perfettamente conforme alla costituzione divina della Chiesa, che vuole che il suo governo venga fondato sul Successore di Pietro e sui Successori degli Apostoli uniti a lui. A ciascun vescovo diocesano viene affidata dal Papa una porzione del gregge, una Chiesa particolare, di cui egli diviene lo sposo mistico, ed il solo fatto di avere 75 anni non sembra motivo sufficiente per presumere che il vescovo sia divenuto inadeguato e che il suo legame “nuziale” debba essere interrotto, tanto che non è così per il papa. In tal modo i vescovi «sposi» delle loro Chiese (cfr. I Tm 3,2) tendono a divenire una sorta di prefetti-funzionari. Spirito sinodale, dove sei?

Vescovi di diritto divino

Circa la funzione dei vescovi, il Vaticano II ha comunque ricordato grandi verità. Essendo la Chiesa missionaria per sua natura (Redemptoris missio n. 5), il compito essenziale dei Successori degli Apostoli è quello di far conoscere il messaggio evangelico. I vescovi sono in primo luogo gli «araldi della fede, che conducono a Cristo nuovi discepoli» (Lumen gentium, n. 25 § 1). Quando Papa e vescovi insegnano insieme, riuniti in concilio o sparsi per il mondo ma parlando ad una sola voce, in ciò che viene chiamato il «magistero ordinario universale», la preoccupazione di tutti e di ciascun vescovo per l’insieme del gregge emerge senza che vi sia alcun bisogno d’insistere.

Inoltre, tale sollecitudine esercitata in questo modo per tutta la Chiesa li caratterizza ad ogni occasione: in quanto legittimi Successori degli Apostoli, «i vescovi sono tutti tenuti, nei confronti della Chiesa universale, per istituzione e precetto di Cristo, a quella sollecitudine, che è, per la Chiesa universale, eminentemente proficua, benché essa non si eserciti con un atto di giurisdizione» (Lumen gentium, n. 23 §2). Nel dir questo, il Concilio si riferiva all’enciclica Fidei donum di Pio XII sulle missioni del 21 aprile 1957, che insisteva affinché i vescovi impegnassero alcuni loro sacerdoti a partire per i Paesi di missione: la vita della Chiesa universale è responsabilità particolare di ciascuno di loro [5].

L’ufficio universale del Papa non assorbe il contributo degli altri vescovi: questa è la vera sinodalità. I vescovi manifestano la loro comunione col Vescovo di Roma e la comunione sussistente tra loro partecipando o aderendo al magistero ed alla cura pastorale del Successore di Pietro.

In comunione preveniente

Ma che succede quando il Papa tace mentre si attende una sua parola? Finché Pio VI non ebbe reso nota la sua condanna del giuramento di adesione alla Costituzione civile del Clero, i vescovi di Francia supplirono con le proprie indicazioni ed il proprio esempio. Si potrebbe oggi qualificare (debolmente) queste inadempienze come «silenzi del Papa» quanto alla dottrina morale (Amoris lætitia, che non difende l’indissolubilità del matrimonio), quanto alla norma di fede rappresentata dalla liturgia (Traditionis custodes, che nega alla liturgia tridentina la sua qualifica di lex orandi), quanto agli errori da condannare (il «Cammino sinodale» tedesco tra molti altri). In questo caso, la comunione col Papa – una comunione in qualche modo preveniente – non consiste per i Successori degli Apostoli nel parlare, non al posto del Successore di Pietro, ma in attesa dell’approvazione o dell’annullamento ch’egli eserciterà un giorno in virtù del suo carisma? In altre parole, molto concretamente, l’atto di comunione non consiste per i vescovi nel parlare affinché il Papa smetta di tacere?

«Simone, Simone, ecco Satana vi ha cercato per vagliarvi come il grano», disse Gesù a Pietro, «ma io ho pregato per te, che non venga meno la tua fede: tu, dunque, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli» (Lc 22, 31-32). Quando Pietro, non importa per quale ragione, si allontana o si nasconde, i suoi fratelli devono sollecitarlo in tutti i modi affinché lui li confermi. Dire questo non significa per nulla raccomandare una sorta di conciliarismo (che vuole che i vescovi, specialmente in concilio, possano giudicare il papa). D’altronde il Concilio di Costanza, su cui si appoggiava il conciliarismo dei gallicani, non era un tentativo estremo e quasi disperato di far sì che un Papa confermasse i suoi fratelli – e che giunse a destituire Gregorio XIII, Benedetto XIII, Giovanni XXIII, per eleggere Martino V? Tant’è vero che la sollecitudine universale dei vescovi non è concepibile al di fuori di quella del Papa, comprese le manifestazioni più paradossali di tale sollecitudine o quando alcuni vescovi si scoprono apparentemente più papisti del Papa.

Questi 74 vescovi (tra cui quattro cardinali: Arinze, Napier, Burke, Pell), che sono per lo più degli Stati Uniti (Samuel Aquila, Salvatore Cordileone, ecc.), ma anche dell’Africa, compiono così un passo importante verso la condanna delle eresie, che feriscono gravemente la Chiesa. In qualunque modo ci si muova domani verso il risanamento della Chiesa, nelle tappe che porteranno verso tale vera riforma sub Petro, l’intervento della pars sanior dell’episcopato sarà cruciale, come sempre lo è stato nella storia.

Don Claude Barthe

[3] Motu proprio Ecclesiæ sanctæ, 6 agosto 1966, n. 11; rescritto, 5 novembre 2014.
[4] E che va al di là delle indicazioni del Concilio: il decreto Christus Dominus diceva solamente che i vescovi diocesani «sono caldamente pregati di dare le proprie dimissioni, sia da sé, sia su invito dell’autorità competente, qualora, a causa dell’età avanzata o per qualsiasi altra ragione grave, divenissero meno adatti ad adempiere al proprio incarico» (n. 21).
[5] Fa piacere notare come Mons. Marcel Lefebvre, all’epoca Arcivescovo di Dakar e Delegato apostolico per l’Africa francese, venga indicato come uno dei principali redattori di questa enciclica.

Questo articolo è stato pubblicato il 1° giugno 2022 su Res Novae – Perspectives romaines [QUI].