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lunedì 11 aprile 2022

Peter Kwasniewski. "La mia prima esperienza con un Triduo pasquale pre-1955"

Una bella traduzione di Chiesa e post concilio.
Luigi

Nella nostra traduzione da OnePeterFive [...]

La mia prima esperienza
con un Triduo pasquale pre-1955
Peter Kwasniewski, 31 marzo 2021

Di recente mi sono imbattuto in un’amica che ha espresso la sua sorpresa per il fatto che solo nel 2019 ho assistito per la prima volta alle liturgie della Settimana Santa precedenti al 1955 (cioè antiche o non riformate). Pensava che una persona come me, che viaggia, legge, pensa e scrive molto sulla sacra liturgia l’avesse sicuramente fatto molto tempo prima.
Non è stato per mancanza di interesse o di consapevolezza. Da quando ho letto la serie epica di Gregory DiPippo su New Liturgical Movement ero cosciente del fatto che le liturgie della Settimana Santa, ricche di simbolismo e di cerimoniale, erano state pesantemente alterate da Papa Pio XII nei primi anni ’50. Continuando a leggere, ho scoperto con orrore che la rottura liturgica che pur giustamente attribuiamo a Paolo VI ha avuto il suo più famigerato “precursore” nell’inedito atto di revisione inorganica di Pio XII, compiuto con la scusa che le liturgie dovevano essere “ristabilite ai loro orari originari”. [1] Ogni anno, avendo a disposizione un numero sempre maggiore di risorse, vedevo nuove foto e leggevo di nuovi luoghi che stavano adottando la forma antica, e il mio desiderio di partecipare all’autentica liturgia romana della Settimana Santa è cresciuto costantemente.

Ma, per così dire, non ero ancora padrone di me stesso. Per oltre due decenni la Settimana Santa è sempre stato per me il periodo dell’anno più impegnativo come direttore di coro e di schola cantorum. Anno dopo anno, ho dovuto rimbalzare avanti e indietro tra il messale del ’62 e quello del ’69 — fermo agli anni '60, si potrebbe dire, come la maggior parte dei cattolici (per ora), anche quelli che frequentano la messa in latino. Nella Settimana Santa del 2019, invece, non ero più responsabile di un coro e di una schola, e avevo la fortuna di vivere a solo un miglio di distanza da un oratorio dell’Institute of Christ the King Sovereign Priest [Istituto di Cristo Re Sommo Sacerdote]. Ciò è stato decisivo.

Che differenza! Anche se avevo letto tutto sulla celebrazione della Settimana Santa precedente al 1955, mai come in questo caso si può affermare che nessuna lettura può sostituire l’esperienza, l’incontro con la realtà. La liturgia, dopotutto, non è una teoria o un esperimento; è l'azione di Cristo Sommo Sacerdote, un’azione in cui entriamo. Mi aspettavo di rimanere impressionato; sono rimasto sconvolto. Mi aspettavo di essere disorientato; sono stato abbagliato e provocato. Mi aspettavo di vedere il rito romano nella sua ricchezza premoderna; ho visto una rivelazione di gloria.

So che sono stati scritti molti libri e articoli dotti su queste antiche liturgie e che solo un libro potrebbe render loro un minimo di giustizia. [2] Con questa introduzione ho voluto far capire il motivo per cui ignorerò così tanti testi degni di nota e condividerò piuttosto semplicemente alcune delle cose che mi hanno colpito di più dei riti precedenti al 1955.

La Settimana Santa

I riti della Settimana Santa - con i loro magnifici canti gregoriani, profonde preghiere, un simbolismo denso e un cerimoniale elaborato - si sono sviluppati lungo un arco di tempo plurisecolare, a partire dall’antichità fino al Medioevo. Gli elementi centrali di tali riti derivavano dalla antica tradizione romana e dalla tradizione gallica (o franca). Questi due affluenti si unirono nel tardo Medioevo per dar forma a quel rito romano, ormai maturo, che sfociò nel Messale di S. Pio V del 1570. Esattamente come ogni altro rito liturgico cristiano di discendenza apostolica, il rito tridentino raggiunse uno stato di perfezione, una bellezza di forme e pienezza di contenuti tale da non permettere ulteriori miglioramenti sostanziali. Un esperto di musica ebbe a descrivere i Concerti per Pianoforte e Orchestra di Mozart come delle opere d’arte “oltre le quali non è possibile alcun progresso, perché la perfezione è imperfettibile”. Come per la Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo giunta a maturità, così per il Rito Romano Tradizionale: nulla di essenziale si doveva aggiungere o rimuovere; da quel momento innanzi, ogni cambiamento avrebbe riguardato soltanto questioni di dettaglio, come ad esempio il calendario liturgico.

Tragicamente, Pio XII si lasciò persuadere della necessità di una “revisione” della Settimana Santa, un tempo liturgico che non aveva conosciuto alcun cambiamento notevole per oltre 500 anni. Con la scusa di “ripristinare ai loro orari originali” le cerimonie del Triduo Sacro, tutta la Settimana Santa cadde sotto la lente della Commissione Piana - una sorta di prova generale per il futuro Consilium - e così la Domenica delle Palme, il Venerdì Santo e la Veglia Pasquale subirono modifiche di una magnitudine senza precedenti nella storia della Chiesa latina[2]. Nel 1951, Pio XII inaugurò una Veglia Pasquale sperimentale, e nel 1955 promulgò i nuovi riti liturgici per il resto della Settimana Santa. Per questo spesso si sente chiamare la vecchia Settimana Santa (cioè quella tridentina), la “Settimana Santa pre-1955”. Ricordo ancora distintamente la prima volta che ho partecipato a una intera Settimana Santa pre-1955. Mi aspettavo di esserne impressionato; ma ne sono rimasto stupefatto. Mi aspettavo di uscirne sbalordito; e mi ha lasciato folgorato, e al contempo stimolato.

Domenica delle Palme

La liturgia della Domenica delle Palme mi ha lasciato senza parole, pieno di meraviglia per la sua ricchezza — per non dire inorridito dal fatto che Papa Pio XII l’abbia alterata in modo da renderla irriconoscibile.

La cosiddetta Missa Sicca o “Messa Secca” [3] iniziale, con l’Epistola, il Graduale e il Vangelo, poi un Prefazio che introduce alla benedizione delle palme — tutto questo, si badi bene, prima della processione con le palme stesse, l’ingresso dopo aver bussato alle porte, e la Messa del giorno, con il canto della Passione secondo San Matteo — è stata la più perfetta esemplificazione del principio cattolico della sacramentalità che io abbia mai visto. Ecco il Prefazio:

È veramente opportuno e giusto, retto e utile per la salvezza, che sempre e in ogni luogo rendiamo grazie a Te, o Signore, Padre onnipotente, Dio eterno, che Ti glori nell’assemblea dei Tuoi Santi. Perché le Tue creature Ti servono, perché Ti riconoscono come loro unico Creatore e Dio; e tutta la Tua creazione Ti loda, e i Tuoi Santi Ti benedicono. Perché con voce libera essi confessano quel grande Nome del Tuo Unigenito Figlio davanti ai re e alle potenze di questo mondo. Attorno a Lui stanno gli Angeli e gli Arcangeli, i Troni e le Dominazioni; e con tutta la schiera dell’esercito celeste, essi cantano l’inno della Tua gloria, dicendo incessantemente: Santo, santo, santo, il Signore Dio degli eserciti…
La prima preghiera di benedizione dopo il Prefazio ha una stupefacente connessione retorica con la consacrazione eucaristica:
Ti supplichiamo, Signore santo, Padre onnipotente, Dio eterno, di degnarTi di benedire ✠ e santificare ✠ questa creatura dell’olivo, che hai fatto germogliare dalla sostanza del legno, e che la colomba, ritornando all’arca, portava nella sua bocca: affinché chiunque la riceverà trovi protezione dell’anima e del corpo; e affinché sia per noi, o Signore, rimedio salvifico e sacramento della Tua grazia [tuae gratiae sacramentum]. Per il Signore nostro Gesù Cristo, tuo Figlio, che vive e regna…
(Si potrebbe aggiungere che questa preghiera è la risposta definitiva ai tradizionalisti che rifiutano qualsiasi uso della parola “sacramento” che non sia limitato ai sette sacramenti!)

Autori come Alexander Schmemann, Aidan Kavanaugh e David Fagerberg amano parlare del “cosmo sacramentale”, ma nella tradizione romana non esistono in nessun posto testi che trasmettano l’idea della creazione santificata migliori di quelli dell’antica liturgia della Domenica delle Palme. La terza preghiera di benedizione sottolinea il significato mistico di ciò che facevano gli antichi ebrei e di ciò che facciamo oggi:
O Dio, che, per il mirabile ordine della Tua volontà, Ti sei compiaciuto di manifestare la dispensazione della nostra salvezza anche per mezzo delle cose insensibili: concedi, Te ne supplichiamo, che i cuori devoti dei Tuoi fedeli comprendano a loro beneficio ciò che è misticamente espresso dal fatto che in questo giorno la moltitudine, istruita da un’illuminazione celeste, è andata incontro al suo Redentore e ha sparso rami di palme e di ulivo ai Suoi piedi. I rami delle palme, quindi, rappresentano i Suoi trionfi sul principe della morte; e i rami d’ulivo annunciano, in qualche modo, l’avvento di un’unzione spirituale. Poiché quella pia moltitudine ha compreso che queste cose erano allora prefigurate; che il nostro Redentore, compatendoSi delle umane miserie, era in procinto di combattere col principe della morte per la vita del mondo intero e, morendo, di trionfare. Per questo motivo essi presentavano diligentemente cose che in Lui simbolizzavano i trionfi della vittoria e la ricchezza della misericordia. E anche noi, con piena fede, dopo aver ripetuto questi atti simbolici, umilmente Ti supplichiamo, o Signore santo, Padre onnipotente, Dio eterno, per lo stesso Gesù Cristo nostro Signore, che in Lui e per Lui — le Cui membra ti sei compiaciuto di farci diventare — possiamo diventare vittoriosi sull’impero della morte e possiamo meritare di essere partecipi della Sua gloriosa risurrezione. Che vive e regna…
Il fatto che questi testi siano stati soppressi proprio in un’epoca in cui i liturgisti sfoggiavano tanta eloquenza su questo tema è non poco perverso [4].

Giovedì Santo

La Messa del Giovedì Santo non mi è sembrata tanto diversa dalle sue versioni successive (1955 e 1969), almeno nelle loro realizzazioni ideali. In questo senso è più simile alla Messa della domenica mattina di Pasqua, che anche con il messale del 1969 può essere celebrata come si fa nel rito antico (sebbene nel 99% dei casi non lo sia, grazie alla peste di “opzionite”), ma assolutamente non come la Domenica delle Palme, il Venerdì Santo o la Veglia Pasquale, dove i riti antichi, pacelliani e montiniani sono tutti estremamente diversi.

Una cosa abbastanza nuova per me in questa Messa serale è stata l’omissione del Mandatum o cerimoniale della lavanda dei piedi, un’usanza che è migrata nella Messa solo a metà del XX secolo e dove ha suscitato ogni genere di dibattito e distrazione. Il Mandatum è stato invece effettuato come para-liturgia dopo la Messa, nei sotterranei della chiesa, dove era stato allestito un altare provvisorio con le candele.

Dopo che gli altari del piano superiore sono stati spogliati dei loro paramenti a imitazione del trattamento umiliante di Cristo nella Sua Passione, tutti si sono trasferiti al piano di sotto. Tredici uomini si sono seduti in una fila di sedie (il Canone spiega nell’omelia della Messa che il numero 13 risale a una visione di San Gregorio Magno). Il sacerdote, il diacono e il suddiacono, con gli accoliti, hanno fatto il loro ingresso. La cerimonia è iniziata con il canto solenne del Vangelo, che era lo stesso della Messa: Gv 13, 1-15. Dopodiché il sacerdote ha indossato un grembiule e ha lavato i piedi agli uomini mentre il coro cantava Ubi caritas. Il sacerdote è tornato all’altare, ha cantato alcuni versetti e una colletta; tutti si sono inchinati e se ne sono andati.

Ora, dopo aver visto tutto ciò, direi che la lavanda dei piedi funziona molto meglio al di fuori che durante la Messa [5]. Benché di solito io sia assolutamente favorevole alla complessità, mi è sempre sembrato uno strafare il cercare di dedicare la stessa attenzione — all’interno della stessa liturgia — all’istituzione dell'Eucaristia, all’istituzione del sacerdozio e al comandamento della carità. Quando il Mandatum si fa a parte dopo la Messa, gli attribuisce un posto speciale, una dignità speciale; ci si può concentrare più direttamente sulla lezione di chi sta più in alto e serve chi sta più in basso. Questa soluzione si adatta meglio anche all’idea che prima adoriamo Dio per amore a Lui, e poi, con la Sua grazia, usciamo nel mondo per amare gli altri fatti a Sua immagine.

Venerdì Santo

La liturgia del Venerdì Santo precedente al 1955 è stata per me un’esperienza potente. Non credo di poterne limitare la ragione a un elemento particolare: si è trattato della forza cumulativa di tutti gli elementi.

La liturgia si è aperta con due Letture cantate e due Tratti cantati che mi hanno dato tutto il tempo per entrare in profondità nel mistero del giorno. Il messaggio trasmesso è stato forte e chiaro: sei qui per venerare la Croce, quindi smettila di dimenarti, non guardare l’orologio e preparati per il lungo viaggio. Apprezzo il modo in cui l’antica liturgia detta semplicemente i propri termini.

Di seguito c’è stato il canto della Passione del sacerdote, del diacono e del suddiacono, con toni assolutamente perfetti: la fiduciosa, imponente melodia del basso per Cristo; il narratore intermittente e pragmatico; l’inquietante “squillo” acuto di colui che presta la voce a Pietro, Pilato, gli ebrei, la folla e ogni altro personaggio losco. Terminata la Passione, i lettori si sono separati e il diacono si è preparato a cantare con un tono speciale il “proprio” Vangelo del giorno, raccontando la sepoltura di Cristo. Il silenzio dopo il Passio e la cura speciale riservata alla sepoltura sembravano molto appropriati.

Le grandi intercessioni con il loro linguaggio crudo (così diverse dagli omogeneizzati del messale di Paolo VI) hanno affermato con forza la serietà della nostra religione, la fede intransigente della Chiesa primitiva nell’unico Redentore dell’umanità — non nel paese delle favole, ad Abu Dhabi (vedi), nel mondo dell’interreligiosità e dell’ecumenismo postconciliare (qui):

Preghiamo anche per gli eretici e gli scismatici: che Nostro Signore Dio si compiaccia di salvarli da tutti i loro errori e di richiamarli alla nostra santa Madre, la Chiesa Cattolica e Apostolica… Dio onnipotente ed eterno, che salvi tutti e vorresti che nessuno perisse: volgi il Tuo sguardo verso le anime che sono sviate dall’inganno del diavolo, affinché — mettendo da parte tutto il male dell’eresia — i cuori di coloro che errano possono pentirsi e ritornare all’unità della Tua verità. Per il Nostro Signore Gesù Cristo, Tuo Figlio…
Terminate le preghiere di intercessione, è iniziata la venerazione della Croce con una processione di ministri scalzi che si sono genuflessi tre volte nel loro cammino verso il santuario: una volta in fondo alla Chiesa, una seconda volta in mezzo alla navata, e l’ultima volta proprio davanti alla Croce, adagiata, stranamente, su un comodo cuscino — che ricorda il cussinus o cuscino su cui i messali riposavano una volta presso l’altare, come un sovrano sul suo divano [6]. Mai prima d’ora gli Improperia e i canti della Crux fidelis hanno avuto per me così senso: la processione richiede molto tempo, e la chiesa è piena di gente. È bene per noi che richieda tempo, che bruci il nostro tempo come incenso.

L’aspetto più strano della venerabile liturgia del Venerdì Santo è la cura del Sanctissimum. Dalla sera precedente è stata riservata una sola Ostia magna (non un grande ciborio di ostie). L’Ostia velata viene portata in processione accompagnata dal potente inno Vexilla Regis. I primi due versi danno il tono:
Gli stendardi reali incedono,
La Croce risplende in un bagliore mistico,
Laddove la Vita stessa ha sopportato la nostra morte,
E con la Sua morte ci ha procurato la vita.
Laddove, per noi, fu tinta in profondità la lancia,
Il torrente della vita scorre dal Suo fianco,
Per lavarci in quel prezioso diluvio
In cui è scorsa acqua mescolata col sangue.
Il sacerdote incensa il Santissimo Sacramento e pone l’Ostia sul corporale; prepara un calice col vino e con l’acqua; incensa l’oblazione e l’altare; si lava le mani (e non sto includendo ogni dettaglio) e dice: “Pregate, fratelli, affinché il mio e il vostro sacrificio sia gradito a Dio Padre Onnipotente” — ma senza ottenere subito una risposta. Canta la Preghiera del Signore nel tono feriale, mescola un frammento dell’Ostia nel vino non consacrato, la eleva con una mano perché tutti la vedano e la adorino, quindi la assume con la solita preghiera, che omette quando assume il vino dal calice. Un amico mi ha detto che la liturgia del Venerdì Santo simboleggia i momenti della Passione: Cristo viene riportato dal luogo di reclusione (Cristo tenuto prigioniero durante il processo), poi viene innalzato in alto (la crocifissione), prima di scendere nella terra (la sepoltura). La liturgia si conclude bruscamente con il sacerdote che si inchina davanti all’altare e si allontana in silenzio. La presenza reale di Cristo nel Santissimo Sacramento non si trova più nella chiesa, nel tabernacolo, sull’altare, e nemmeno nei fedeli: se n’è andato. La desolazione del Venerdì Santo raggiunge il culmine; si è compiuta la resa totale del Figlio, e si attende la Risurrezione e il rinnovamento del sacrificio glorioso della Messa.

Limitare l’accesso alla Comunione al solo sacerdote ha un curioso, duplice effetto. Da una parte, l’uomo che (liturgicamente parlando) rappresenta più visibilmente Cristo è ancora racchiuso nel mistero della sua perfetta oblazione, ricevendo — e portando così a compimento — il sacrificio, anche se lo si deve chiamare “sacrificio secco”, come la Missa sicca di cui si è parlato prima. Dall’altra, per tutti è invece l’Adorazione della Croce ad essere protagonista. Gli accoliti, il diacono e il suddiacono, i fedeli salgono tutti per comunicare con la Croce [col mistero della Croce]. Questo è ciò che in questo giorno “sostituisce” la Santa Comunione. Certo, in un certo senso, incontriamo la Croce ogni volta che riceviamo la Santa Eucaristia, ma sotto i veli sacramentali del pane e del vino, la nostra unione con la Croce è invisibile, qualcosa che possiamo facilmente perdere di vista. Una volta l’anno, il Venerdì Santo fa risaltare visibilmente la Croce; dona alla Croce, come tale, un giorno in cui essa è il segno sacro che tocchiamo e baciamo.

Nella sua elaborazione medievale codificata nei libri tridentini (ossia, prima del 1955), il Venerdì Santo era diventato l’unico giorno dell’anno in cui si viveva veramente la desolazione vissuta dalla Vergine Maria e dagli apostoli: una vivax repraesentatio, non una mera commemoratio. La Chiesa non avrebbe potuto trovare un modo migliore per farlo che privarci della comunione sacramentale. Colui che è morto ed è stato deposto nel sepolcro è lontano da noi. In compenso, la liturgia concentra la nostra adorazione sulla Croce vivificante con la quale Egli ha ottenuto la nostra salvezza e ci invita a pregare per la conversione permanente del mondo intero.

La liturgia del Venerdì Santo precedente al 1955 era molto più simile a una Messa che al servizio di comunione, tanto esaltato, di Pio XII e al Novus Ordo, eppure sembrava una Messa tragicamente incompleta, si potrebbe anche dire una Messa vuota. Questa scomoda stranezza era accentuata dalla combinazione di una grande solennità e di un’assoluta semplicità, resa possibile dal livello di dettaglio cerimoniale che era presente in questo rito prima del 1955 — un livello gran parte del quale è stato poi abbandonato.

All’inizio si cantano le Letture e i lunghi Tratti senza che nulla li preceda; alla fine, il sacerdote riceve in silenzio l’Ostia — e poi la liturgia si interrompe, come se fosse stata decapitata o fulminata. (È vero che dopo sono stati cantati i Vespri, ma sembravano comunque un’aggiunta distinta, non una parte dello stesso rito.) O forse come una commedia interrotta a metà atto, prima che gli attori terminino di recitare le loro battute e con la trama lasciata in sospeso. Sebbene Gesù nel Vangelo dica: “Tutto è compiuto”, la liturgia trasmette un forte sentimento del “tutto è incompiuto”.

Ciò mi sembra il tipico, meraviglioso paradosso liturgico: nel giorno che ci pone vividamente di fronte all’evento storico per mezzo del quale la nostra Redenzione si è oggettivamente compiuta, la stessa liturgia, attraverso la quale tocchiamo soggettivamente i misteri di Cristo, può permettersi il massimo carattere di incompletezza nel sentire. Non si può non deprecare il fatto che i riformatori liturgici degli anni ’60, nel loro razionalismo, abbiano insistito nell’aggiungere elementi strutturali tipici (ad es. preghiera di apertura, preghiera di chiusura) che hanno notevolmente sminuito l’effetto sorprendentemente diverso che doveva sentirsi in questo giorno, proprio perché è la vivax repraesentatio del più terribile e sconvolgente giorno della realtà, in cui il disordine più assoluto ha invocato il ripristino dell’ordine.

Veglia pasquale

La Veglia pasquale celebrata con il rito anteriore al 1955 è stata sublime. Mi sono sentito sopraffatto e la mia impressione è stata: ora finalmente tutto ha un senso! Ciò che mi era sembrato prima (nei riti del ’55 o del ’69) una raccolta arbitraria di rituali qui si è fusa in un singolo atto di culto unitario, similmente a un uomo che cammina passo passo verso una meta determinata. La liturgia mi è sembrata una potente ricapitolazione di tutti i misteri del cristianesimo, dall’intima natura di Dio, alla rivelazione della Trinità, all’Incarnazione del Verbo, alla Redenzione cruenta, alla Risurrezione gloriosa.

La liturgia aveva una maestosità, una serie crescente di simboli uniti ma non confusi, che le orazioni, le lezioni e le cerimonie portavano a un ritmo maestoso e tranquillo: fuoco, candela, acqua, tutto veniva utilizzato direttamente con parole cariche di potere. È la Chiesa che prende il comando dei rudimenti della creazione e ordina loro, letteralmente, di servire Cristo e la salvezza delle anime.

Mi hanno particolarmente colpito quelli che sembravano due equivalenti di una “Missa sicca” o Messa secca impiantati in questa liturgia: in primo luogo il Prefazio, preceduto dal consueto dialogo, che porta alla consacrazione del cero; in secondo l’uso della stessa formula per la consacrazione dell'acqua. In entrambi i casi è molto più chiaro che nei riti del ’'55 e del ’69 che partiamo da elementi mondani e li mettiamo a parte per Dio, chiedendoGli di trasformarli in qualche modo in Sé stesso: per farli sacramenti o segni sacri della Sua grazia [7]. La liturgia è iniziata fuori della chiesa con la benedizione del fuoco — non del cero, ma proprio del fuoco, simbolo dell’eterna natura divina. Da questo fuoco veniva acceso il trikirion o candeliere a tre bracci che rappresenta la Trinità, o forse meglio, la progressiva rivelazione della Trinità nella storia della salvezza, man mano che uno ad uno i ceri vengono accesi in processione verso il presbiterio. (Si noti però che le liturgie tradizionali, come i libri della Sacra Scrittura, sono sempre “polisemiche”, con molti strati di significati sovrapposti. Non esiste un’interpretazione giusta o sbagliata del trikirion. Un altro autore, ad esempio, scrive: “Il diacono prende la canna a tre rami, il cui bastone rappresenta il serpente di bronzo che Mosè plasmò su una verga per guarire gli israeliti nel deserto, e le cui tre candele simboleggiano misticamente i tre giorni nella tomba, e anche le tre Marie che si avvicinano al sepolcro il mattino di Pasqua”.)

Questa processione culmina nell’Exultet, il cui testo ha senso solo nel contesto precedente al 1955, quando le azioni descritte in esso vengono effettivamente eseguite sul cero in quel momento. Il diacono pone i cinque chiodi di incenso nel cero, simbolo dell’“Agnello immolato prima della fondazione del mondo” (Ap 13, 8) e poi lo accende da una delle tre candele del trikirion: la seconda Persona che assume la carne per salvarci. Da questo punto in poi, tutte le fiamme della chiesa sono accese da questa candela.

Le dodici profezie possiedono una direzionalità convincente. Menzionano l’acqua, la luce, il fuoco e il sacrificio, e hanno come tema di fondo il resistere e vincere il diavolo (elemento esplicitato nelle preghiere relative alla benedizione del fonte battesimale). La prima metà o giù di lì è imperniata su figure importanti: Adamo, Noè, Abramo, Mosè, con un accenno a Davide. La seconda metà si sposta sulla vocazione di Israele, antico e nuovo. La lettura finale, meravigliosamente peculiare, è il racconto di Daniele dei 3 Shadrach, Meshach e Abednego che rifiutano di adorare l’idolo gigantesco e sono gettati nella fornace ardente. È cantato con un tono speciale, sorprendentemente lirico e gioioso.

L’antifona Sicut cervus — probabilmente l’opera polifonica di Palestrina più popolare e amata — ha quindi perfettamente senso come accompagnamento alla processione che si sposta dal presbiterio al battistero (o, in sostituzione, a un fonte battesimale sul retro della chiesa). Dopo aver ascoltato tutte queste profezie, è tempo di rendere le loro promesse realmente e veramente presenti nell’acqua rigenerante, affinché i nuovi cristiani possano essere sepolti e risuscitati con Cristo. Mentre nella cerimonia del 1955 l’acqua da benedire si trova stranamente nel presbiterio — quindi non si svolge alcuna processione al battistero —, nel rito precedente al 1955 la processione solenne al fonte battesimale con il cero pasquale in testa chiarisce che la candela è la colonna di fuoco del Mar Rosso, e che Israele sta per essere liberato dalla prigionia attraverso le acque vivificanti del battesimo.
Quanto all’esorcizzazione e alla santificazione dell’acqua, le mie parole non potrebbero mai rendere giustizia alla differenza tra le preghiere antiche — le stesse, fortunatamente, prima e dopo il ’55 — e le loro nuove abbreviazioni e sostituzioni del 1969. Per essere del tutto onesto, la differenza è grande come quella che c’è tra un orsacchiotto e un orso in carne ed ossa, o tra un modellino e una Lamborghini, o tra un fumetto e una pittura di Beato Angelico. È enorme. Si prenda come esempio queste preghiere:

Possa Egli, mediante una miscela segreta della Sua virtù divina, rendere quest’acqua feconda per la rigenerazione degli uomini, affinché una discendenza celeste, concepita per santificazione, possa uscire dal seno immacolato di questa fonte divina, rinata come nuova creatura, e affinché tutti, di ogni sesso o forma corporea, di ogni età, siano generati alla stessa infanzia per mezzo della grazia, loro madre.
Perciò tutti gli spiriti immondi, per Tuo comando, o Signore, si allontanino da qui; sia bandita completamente tutta la malizia dell’inganno diabolico; non prevalga qui alcuna potenza del nemico; la smetta egli di girovagare per tendere le sue trappole; non si insinui di nascosto; non corrompa col suo veleno. Possa questa santa e innocente creatura essere libera da tutti gli assalti del nemico e purificata dalla distruzione di tutta la sua malvagità. Sia fonte viva, acqua rigeneratrice, ruscello purificatore: affinché tutti coloro che devono essere lavati in questo bagno salvifico ottengano, per opera dello Spirito Santo, la grazia di una perfetta purificazione.
… Benedici con la Tua bocca queste acque limpide, affinché oltre alla loro virtù naturale di purificare il corpo, si rivelino efficaci anche per la purificazione dell’anima. … Qui si possono lavare le macchie di tutti i peccati; qui la natura umana, creata a tua immagine e riformata all’onore del suo Autore, sia purificata da tutte le impurità dell’uomo vecchio: affinché tutti coloro che ricevono il Sacramento della rigenerazione nascano come nuovi figli della vera innocenza. Per il Signore Nostro Gesù Cristo, tuo Figlio, Che verrà a giudicare i vivi e i morti e il mondo mediante il fuoco.

La liturgia nel suo insieme è caratterizzata da tante deliziose “irregolarità”, come il triplice Alleluia seguito da un Verso e un Tratto (!); nessuna Antifona dell'Offertorio nessun Agnus Dei, e un Vespro troncato col Magnificat al posto di un’Antifona alla comunione. L’effetto cumulativo di tali elementi è quello di trasmettere in modo sottile ma potente l’idea che questa liturgia è diversa da tutte le altre, e che dovremmo sederci e prenderne atto. La sua stranezza è un incentivo a una partecipazione interiore più profonda. Potrebbe essere fonte di confusione per i fedeli? Sì, certo, ma questo è un bene. Il conflitto mortale di Vita e Morte non è una festa tra amici.

L’intera liturgia della Veglia — un vasto inno di lode alla potenza di Dio rivelata nella creazione del mondo, nella creazione del vecchio Israele e nella creazione del nuovo Israele — possedeva una portata cosmica, un radicamento storico e un’immersione in un mistero che non avevo mai visto prima, in un’interconnessione senza soluzione di continuità che non aveva nessuno di quegli imbarazzanti nessi modulari o cesure cerimoniali tipiche del lavoro dei comitati vaticani dal 1948 in poi.

Ho ben chiaro nella mia testa che la Veglia pasquale anteriore al 1955 è il fiore all’occhiello del rito tridentino e che dobbiamo fare tutto il possibile per recuperarla. Come nel caso della Domenica delle Palme, rimango poi senza parole pensando che qualche riformatore abbia potuto osare di eliminare qualcosa di simile.

Un sacerdote che ha celebrato entrambe le forme della Settimana Santa (quella pre-’55 e quella del ’55) mi ha detto di recente: “Gli antichi riti liturgici ristabiliscono il nesso integrale ed essenziale tra il sacrificio della Croce e il sacrificio eucaristico. Le nuove versioni [pacelliane] minimizzano sistematicamente questo punto. Le antiche liturgie sono coerenti in ciò che contengono e quando lo presentano; le nuove versioni sono frammentarie e caotiche. Infatti, alcune delle stesse persone che hanno lavorato alla Settimana Santa “rinnovata” hanno lavorato in seguito al Novus Ordo, e quando sono riusciti a risolvere alcuni dei problemi che loro stessi avevano introdotto, hanno attribuito i problemi non ai pasticci fatti da loro, ma alla ‘vecchia liturgia’! Come si può essere così bugiardi?"

Grazie a Dio, nelle nostre chiese non solo torna l’usus antiquior, ma anche i riti autentici dell’usus antiquior, non i loro sostituti neo-tridentini. Dopo un periodo di settant’anni di prigionia liturgica, iniziato intorno al 1948 con la creazione da parte di Pio XII di una commissione di riforma liturgica, siamo in grado di dire con il salmista: “Chi darà da Sion la salvezza a Israele? Quando il Signore farà ritornare gli esuli del Suo popolo, Giacobbe esulterà, Israele si rallegrerà.” (Sal 14, 7). Amen, alleluia!
Pubblicato originariamente il 1 maggio 2019. Questo post è stato aggiornato.
[Traduzione a cura di Chiesa e post-concilio]